Roma e lo Stato del Papa/Capitolo IX
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CAPITOLO IX.
Pio IX, Antonelli, e il domma dell’Immacolata.
Nonostante gli attentati politici, e le non infrequenti esecuzioni capitali, gli anni, che corsero dal 1853 a tutto il 1858, furono i più tranquilli e sereni del pontificato di Pio IX. Non gravi pericoli politici, nè gravi difficoltà nel governo della Chiesa. Il Papa si dava bel tempo, affermando in ogni occasione la sua doppia sovranità; e cercava i suoi compagni di svago non già tra i ministri, e i cardinali di maggior conto, ma tra i giovani camerieri della sua corte intima, monsignori di nobile casato, ma frivoli come gli uomini di corte, generalmente. Pio IX era di un’eccessiva curiosità. Il lato caratteristico di lui era la tendenza a sapere i fatti degli altri, e a tener celati i propri; tendenza avita, e che i suoi camerieri segreti, e singolarmente il maggiordomo De Medici, si studiavano di secondare, narrandogli ogni giorno aneddoti, pettegolezzi e maldicenze piccanti ed esilaranti. Il De Medici parlava il suo favorito dialetto, che tanto divertiva Pio IX, il quale più volte si provò a parlarlo, ma non vi riuscì mai, nonostante i diciassette mesi di dimora fra Gaeta, Napoli e Portici. Vittima delle baie del maggiordomo era il suo giovane prete, certo Faggiani, cui aveva dato il soprannome di bròccolo, cioè cavolo, e che dialettalmente chiamava vruòccolo. Ed era per Pio IX una festa il sentir narrare dal prelato le asinerie di Vruòccolo, come fu per lui argomento di grande e prolungata ilarità il caso occorso all’arciprete di Frascati, e riferitogli dalla sua corte, che cioè, nell’aprire, dopo lungo tempo, la cassetta dell’obolo, vi aveva trovato tre mezzi paoli falsi, e sette fette di salame cotto, andato a male. Ma neppure un paolo buono! esclamava, ridendo come un fanciullo, neppure quello dello stesso arciprete!
Monsignor De Medici era ricco, ed aveva fama di uomo benefico, ma, come si vide nei suoi rapporti con Bernardo Celentano, sembra che promettesse più di quanto aveva volontà di mantenere. Era piccolo, magro e sofferente al fegato. Un incidente avvenuto nel dicembre del 1854 gli procurò una grande amarezza, e spense il suo umore festoso, facendogli venire in uggia la corte. Il fatto fu questo. Tra i vescovi d’Italia, venuti a Roma in occasione del domma dell’Immacolata, vi fu monsignor Laudisio, vecchio pastore di Policastro, il quale, visitando, tra i primi, Pio IX a Gaeta, gli aveva portato in omaggio 800 ducati, e si credeva perciò il fondatore dell’obolo di San Pietro. Nativo di Sarno, era di una volgarità inverosimile, e s’illudeva di potersi presentare al Papa, senza chiedere udienza al maggiordomo. Il De Medici, meridionalmente puntiglioso, frenò le strane pretese del vescovo, ma questi un giorno, forzando la consegna, irruppe negli appartamenti pontifici, e alla presenza di Pio IX apostrofò il maggiordomo con ogni maniera d’ingiurie, delle quali la meno villana fu faccia gialluta. Pio IX lo lasciò sbizzarrire con visibile gusto, ma il maggiordomo se ne sentì talmente offeso, che espresse il desiderio di esser dispensato dall’ufficio. Non gli fu però dato di uscirne prima del 1856, quando, elevato alla porpora, andò ad abitare, con grande sfarzo, al palazzo Odescalchi, ed ebbe come segretario il padre Borrelli, e come maggiordomo Luigi de Rossi. In quel palazzo lo conobbe il Celentano, che nelle sue lettere, come si vedrà, non lo ricorda con simpatia. Morì a 49 anni, dopo soli sedici mesi di cardinalato, e fu sepolto in San Giorgio al Velabro, dov’era diacono.
La sua morte, nonostante una così lunga consuetudine, non commosse molto Pio IX, il quale lo ricordò talvolta, sol per le sue piacevolezze su Bròccolo. Monsignor Borromeo riproduceva il tipo della nobile sua stirpe, e fra tutte le adulazioni si compiaceva a preferenza di quella che, per la forma del naso, gli attribuiva una somiglianza a san Carlo. Aveva fatto i suoi studi nell’accademia ecclesiastica; era di buon umore anch’egli, ma assai meno loquace e più misurato del De Medici, nè a lui intellettualmente molto superiore. Vestiva con ricercatezza, come tutti i monsignori della corte pontificia; aveva modi signorili, ed era frequentatore, benchè non assiduo, dell’alta società. Fu promosso maggiordomo quando il De Medici fu creato cardinale, ed ebbe poi la porpora nel concistoro del 13 marzo 1868, a 44 anni. Fu arciprete di San Pietro, e morì a Roma nel 1881, non ancor vecchio, essendo il minore dei suoi fratelli. Per alcuni anni, due di questi sedettero nel Parlamento italiano in Roma, Emanuele, morto l’anno scorso, soldato in Crimea e a Castelfidardo, aiutante del Cialdini; e Guido, morto nel 1890. Il loro padre, il conte Vitaliano, senatore anch’egli del regno di Piemonte, fin dal 1853, ebbe, com’è noto, una pagina onorevole nel 1848.
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Pio IX non si privava di alcuno svago, sacro o mondano che fosse. Frequenti erano le visite, che faceva di sua iniziativa, senza invito, anzi senza neppur prevenire, piacendogli di piombare all’improvviso in un ospedale, in un ospizio, in uno studio d’artista, in una basilica, dove fossero lavori in corso, in un oratorio o convento femminile, assai divertendosi della confusione delle monache, al suo apparire. Usciva a passeggiare fuori le mura, e per tratti abbastanza lunghi, in piena campagna. Preferiva passare porta San Pancrazio; godere i meravigliosi tramonti di primavera e di autunno, e per la bella strada sotto le mura, rientrare in città da porta Cavalleggeri. Una mattina di ottobre prolungò la sua gita al terzo miglio della via Ostiense, sino ad Aquas salvias, dette le Tre Fontane, indugiandosi un pezzo sui vecchi ruderi, sui quali sorgono le chiese dedicate ai santi Vincenzo e Anastasio. Al ritorno si fermò a San Paolo, dove pranzò lietamente, e dove l’abate, ch’era il Pappalettere, per fargli onore, aveva invitato alcuni cardinali, i generali francesi e l’ambasciatore De Rayneval. Dopo pranzo visitò i lavori nella basilica, lodò il Poletti, che fu uno dei commensali, e passato nel famoso chiostro dei Vassalletti, vi rilesse e commentò argutamente i motti claustrali. I ricordi dell’archeologia cristiana, e soprattutto dei primi tempi, sembrava ne intenerissero l’animo; e visitando, come spesso faceva, le catacombe e il Colosseo, s’interessava alle spiegazioni del De Rossi e del Visconti, che sovente l’accompagnavano. E i due grandi archeologi presero da ciò occasione per ottenere da lui l’ampliamento di alcuni scavi al Foro Romano, fra il tempio di Castore e il clivo Capitolino, nel fine d’indagare se le vestigia fossero quelle della basilica Giulia; il restauro di San Lorenzo, opera maravigliosa del Vespignani, e forse la maggior opera di lui; e tanti altri lavori, che largamente ricordano quel Papa sentimentale, amico dell’arte e del romore, e che aveva originalità tutte sue. Uscito un giorno per andare a trottare, come diceva elegantemente il Giornale di Roma, verso il monte Celio, s’incontrò in via dei Giubbonari nel Viatico che, dalla chiesa di San Carlo ai Catinari, processionalmente muoveva verso la casa di una morente. Smonta allora dalla vettura, e tolta una candela al primo, che gli si para dinanzi, si mescola alla folla, e accompagna il Viatico, prima alla casa dell’inferma e poi alla chiesa. Rimontato nel legno, è seguito da una turba plaudente, e di quegli applausi si compiace, come un artista. Andando un altro giorno al Pincio, dove soleva passeggiare a piedi, fissò il pensiero a qualche ornamento, che rompesse la verde uniforme di quei viali. E ricordando che al ministero dei lavori pubblici giacevano, in attesa di una destinazione, cinquantadue erme di uomini illustri, quasi tutti dell’antichità, dispose che fossero rizzate in quel giardino. Ed impaziente com’era d’indugi, massime quando lo stimolava la vanità, o lo pungeva il dubbio che non gli si volesse ubbidire, ordinò che tutto fosse eseguito in poche settimane. Alla calcografia camerale, negli studi degli artisti, negli ospizi, appariva spesso, come ho detto, inaspettato. Il 28 gennaio del 1854 andò a vedere la grande statua in creta del Bolivar, che Adamo Tadolini aveva modellata nel suo studio in via del Babuino; e un altro giorno, andando all’ospizio di San Michele, con gentile pensiero, volle seco il padre Roothaan, per completargli il gaudio di essere stato in quel dì pubblicato il decreto di martirio di un gesuita, morto nel Giappone. Osservò minutamente, compiacendosene, la mostra di belle arti, e premiò di sua mano gli alunni, ai quali rivolse graziose parole, congratulandosi col cardinal Tosti dei progressi dell’istituto.
Ricorrendo il 12 aprile 1855 l’anniversario del suo ritorno in Roma, volle festeggiarlo în campagna. Accompagnato dai cardinali Antonelli, Patrizi e d’Andrea, dopo aver visitate la basilica Alessandrina e le catacombe, a sette miglia da Roma, si recò a Sant’Agnese, dov’era fissato il pranzo nel chiostro dei canonici lateranensi. Sedettero alla sua mensa tutt’i personaggi, che avevano fatto parte del suo corteo, fra i quali gli arcivescovi di Vienna e di Dublino, il vescovo di Verona, il generale Hoyos, comandante la divisione austriaca di Ancona, e il generale francese De Montreal, comandante del corpo di spedizione. Lieto fu il convito, e il Papa di umore giocondo più del solito. Terminato il pranzo, ammise al bacio del piede gli alunni del collegio di Propaganda nella sala terrena, a destra del cortile della canonica; ampia sala, ma non così capace da contenere tante persone. Ed ecco che, mentre dura quella cerimonia, si spezza la trave maestra, che reggeva il pavimento, e tutti son travolti, con grande fracasso, nel piano di sotto. Erano 130 persone, che caddero l’una sull’altra fra le macerie, e, miracolo davvero, tutti se la cavarono senz’altro danno, che qualche lieve contusione. Rifatti dalla paura, poterono via via sgusciar fuori, e scender poi tutti in chiesa, dove Pio IX, in rendimento di grazie per lo scampato pericolo, intuonò il Te Deum, dopo il quale monsignor Tizzani, che fu tra i caduti, dette la benedizione col sacramento. La voce del disastro corse subito a Roma, e il Papa al ritorno fu incontrato sulla via Nomentana da una folla plaudente, e dalle autorità più sollecite.
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Chi più di tutti giurò sul miracolo fu Pio IX, il quale, rispondendo ad una lettera dei suoi fratelli da Senigallia, si espresse così:
- Carissimo fratello,
Ho ricevuto la vostra lettera, colla quale esprimete i vostri sentimenti su quanto mi avvenne nella canonica di Sant’Agnese. È ben giusto di rendere grazie a Dio e a Maria SS.ma per un prodigio così segnalato. Camera non grande, che contiene circa 130 persone, che tutte piombano improvvisamente nel piano inferiore, in mezzo alle macerie, al legname, ai mattoni, alle pietre, senza che niuno non solo resti estinto, ma nemmeno riporti una frattura, o una ferita grave, è veramente un solenne miracolo. In quanto a me non ebbi la più piccola lesione, nemmeno una graffiatura. Anche le vesti mi rimasero illese, nè vi succedette alcuno strappo. Si aggiunga a tutto questo la tranquillità di spirito e la fiducia in Dio e in Maria Vergine, che mi accompagnò nella caduta, nel luogo ove caddi, e nell’uscita; e poi si ripeta con tutta ragione che il prodigio è stato veramente solenne. Ieri sono stato commosso nell’andare e nello stare nella chiesa di Ara Cœli nel vedere la moltitudine del popolo, il suo contegno, e l’interesse che prendeva nella circostanza.
Ricevete l’Apostolica benedizione che vi comparto unitamente a tutti di casa.
PIUS PP. IX.
- 19 Aprile 1855.
Manco a dirlo, il senato di Roma ordinò un triduo in Aracoeli, ed un altro ne fu ordinato dal cardinal vicario, in tutte le parrocchie della città. Nè mancarono le felicitazioni del corpo diplomatico, e uno dei primi a recarsi in Vaticano fu il ministro di Sardegna, conte di Pralormo, col quale il Papa ebbe parole cortesi, ma quasi a denti stretti. Si agitava in quei giorni ben fiera la lotta fra l’episcopato e il clero piemontese da una parte, e il governo dall’altra, a proposito del disegno di legge per la soppressione delle comunità religiose: lotta, di cui si parlerà in altra parte di questo libro. È anche da ricordare che il conte di Pralormo, cattolico osservante, era ben veduto dal Papa e da tutta la corte pontificia.
Chi visita Sant’Agnese può vedere sulla parete principale della sala, che rovinò, un grande affresco eseguito dal pittore Toietti. Vi sono ritratti i personaggi principali: Pio IX, l’Antonelli, gli altri cardinali, i generali, tutti in pose inverosimili, anzi grottesche. Manca ogni vivacità di colore, e vi abbonda il manierismo, singolarmente nella figura del Papa, pregante in ginocchio. E così il 12 aprile, all’anniversario del ritorno, si associò, dopo il 1855, l’anniversario del miracolo. Le due memori date furono festeggiate sino al 1870, anzi, dopo il 1859 divennero un pretesto di dimostrazioni politiche, per consolare Pio IX, nelle amarezze procurategli dalla rivoluzione. Non tacquero i poeti, nè si contano i componimenti italiani e latini, recitati nelle accademie. Uno dei vati fu il conte Cesare di Castelbarco, mezzo pesarese e mezzo milanese, e che die’ fuori, in un foglio elegante, questo sonetto:
Quell’io, che culto e amore, o sommo PIO, |
Il discorso nel primo anniversario del memorabile avvenimento fu pronunziato in Sant’Agnese da don Giovanni Strozzi, procuratore generale dei canonici regolari lateranensi, e fu dato alle stampe a Lugo nel 1857, come espressione dell’omaggio di quella città a Pio IX, quando «dell’augusta presenza beava la sua città di Lugo». Ed attribuendo il miracolo alla vergine Agnese, sepolta in quel luogo della via Nomentana, dov’è la chiesa dedicata a lei, il discorso ne magnificava il potere, che è - diceva - «forte, veemente e talora terribile, ma lo spirito è mite, il cuore è soave, il suo nome e il suo simbolo è quello della mansuetudine, poichè dall’agnello prende il nome, secondo sant’Agostino. Ella, angelo titolare del luogo, orava certamente allora con gemiti inenarrabili innanzi al trono di Dio, ed arrestava quella sciagura, che avrebbe fatto di queste mura una casa di orrore e di desolazione per sempre». Il padre Strozzi era nativo di Lugo.
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Le gite, che il Papa preferiva, eran quelle a Castelgandolfo. Nella libertà della campagna si sentiva rivivere, nè stava un giorno fermo. Erano escursioni e passeggiate a piedi e a cavallo, di rado in vettura; visite all’eremo dei Camaldolesi al Tuscolo, ai Basiliani di Grottaferrata, ai Passionisti di Monte Cave, e ai Cappuccini di Albano. Pittoresca fu un’ascensione a Monte Cave. Vi sali a cavallo, tra i cardinali Mattei e Altieri, e una numerosa corte, e discese a piedi, fermandosi a Rocca di Papa, dove conversò famigliarmente con quei preti e quei terrazzani, suscitando l’ilarità loro, con aneddoti e motti. Ogni gita finiva con un pranzo. Sedeva con la comunità al refettorio, nel mezzo della tavola, un gradino più in alto, e diffondeva, con le sue celie e piacevolezze, il buon umore nei suoi commensali. Sdegnoso di trattamenti prelibati, qualche volta appariva improvviso ad ora di refettorio, con disperazione del cuoco e del cellerario. Non era ghiotto, ma neppure frugale; ed ai manicaretti preferiva cibi comuni, ma saporosi, come al vino preferiva acqua fresca e abbondante. A Castelgandolfo dava frequenti ricevimenti ad ambasciatori e cardinali, e vi ospitò, come si è detto, anche la corte di Napoli. Faceva talvolta incendiare candele di bengala, godendo di vederne riflessi i colori sulla superficie del lago. Nelle sue scarrozzate si fermava sovente al ponte di Ariccia, compiacendosi col ministro Iacobini e coll’architetto Bartolini, dal quale vi era talvolta atteso, dell’alacrità, con cui procedevano i lavori. Se andando a piedi era colto dalla pioggia, come gli accadde una volta, tornando dai Cappuccini di Albano, si abbandonava a clamorose risa, prendendosi giuoco dei suoi monsignori. E quel giorno ritornarono addirittura molli a Castelgandolfo, tanta fu l’acqua che cadde.
L’ozio l’annoiava, e più che di emozioni, sentiva il bisogno di distrazioni. Memore di essere stato un abile ed elegante cavaliere, amava molto le cavalcate, ed un giorno tornando da Nemi, traversò, senza scorta, a cavallo, la celebre selva della Faiola, ridendo delle paure del suo seguito. A Marino, a Grottaferrata, a Frascati, a villa Barberini, al castello di Nemi, dov’era un miracoloso crocefisso, dappertutto compariva; e dalle chiese, ai conventi, e persino ai cimiteri, nulla trascurava nelle sue visite, ed era difficile che queste non si lasciassero dietro qualche piccola orma benefica, od altrimenti confortevole. Un altro giorno, e fu il 16 settembre 1852, andò a Porto d’Anzio, gita non breye in quel tempo. Ivi giunto, su uno dei due piccoli piroscafi addetti alla navigazione del Tevere, navigò verso Nettuno e Astura, fra gli spari delle artiglierie del porto e del molo Innocenziano. Fu salutato dai principi Borghese e Aldobrandini, che invitò a pranzo; e interessandosi delle condizioni di quel borgo di pescatori di sarde, allora poverissimo, ordinò al ministro delle finanze la costruzione di nuove abitazioni, in luogo delle misere capanne sparse sul lido.
Prevaleva in lui la nota dell’amabilità, e vi riusciva graziosamente. Se non valutava molto i principi romani, e meno li amava, e qualche volta cercò anche di umiliarli, come avvenne al principe Aldobrandini, presidente della commissione per l’esposizione di Londra, col principe Gabrielli in fama di liberale e marito di una Bonaparte, col Gavotti cui negò il passaporto, e col principe di Piombino e il duca Sforza Cesarini che mandò in esilio, sapeva anche essere cortese e finamente adulatore con quelli, che gli andavano a genio. Quando il principe Doria nel giugno 1856 compi la cancellata della chiesa di Sant’Agnese in piazza Navona, pregò il Papa di onorarlo di una messa, nè questi se lo lasciò dire due volte, ed in quell’occasione accettò una refezione dal patrizio romano. Nelle udienze era singolarmente gentile con le dame, e conversava con grande signorilità, unita a simpatica arguzia. Aveva della propria persona una cura aristocraticamente giovanile: faceva il bagno e si radeva la barba ogni giorno, mutava ogni giorno la sua biancheria di finissima batista, si ravviava diligentemente i capelli, aveva singolar cura delle mani, e un debole per l’acqua di Colonia.
Agl’impulsi del temperamento non aveva la forza di resistere, neppure coi diplomatici; tutt’al più mescolava con essi la nota arguta con lo scatto violento. Quando, nel 1863, il duca di Montebello andò a Parigi per chiedere poteri, si disse, contro l’invadenza di monsignor De Merode, fece visita di congedo al Papa, che gli disse: Général, vous étes rappelé. — Non, rispose il generale, je suis appelé. — Eh bien, riprese il Papa, vous trouverez l’R à Paris. Il motto è vecchio, ma Pio IX lo prese a prestito, perchè gli garbava. Al ricevimento di capodanno del 1864 trattò male il rappresentante russo Meyendorf, perchè questi gli disse che il clero cattolico di Polonia aveva eccitata la rivoluzione. La cosa fu esagerata, e si affermò che il Meyendorf dicesse a bruciapelo a Pio IX che il cattolicismo è la rivoluzione. Il Papa, tornando nelle sue stanze ancora eccitato, dichiarò ch’era contento di aver dato una lezione al rappresentante dello Czar. Egli era di primo impulso, e si conservò tale sino all’ultimo: marchigiano genuino, gli premeva soprattutto l’effetto. Si aspettava che avrebbe mandato il passaporto al Meyendorf, ma non fu così; anzi, il giorno dopo, aveva tutto dimenticato.
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Alle cure dello Stato attendeva l’Antonelli, vero padrone e arbitro di tutto, pur senza darsene l’aria, per non dar ombra al sospettoso pontefice. Egli lo conosceva a fondo, e perciò, misurandone le resistenze e le debolezze, non si fece mai cogliere in fallo, e mai ne provocò le ire, facili in una natura impulsiva, come quella di Pio IX. E questa fu davvero la grande arte del cardinale, il quale, fra tante vicende, rappresentò l’unico punto fermo di quel pontificato, così lungo e drammatico, ed assistette ad occhio asciutto alla caduta del potere temporale, senza saper nulla tentare per prolungarne l’esistenza. Uomo mediocre, senza forti passioni, senza ideali, e quasi senza ombra di cultura, non gli mancò forse la visione di quanto si veniva maturando circa l’avvenire del papato politico, ma era persuaso, verosimilmente, che nulla potesse farsi per impedirne la catastrofe nei nuovi tempi, tanto diversi dai passati. Lasciò quindi libero campo alle follie del De Merode e degli ultramontani, dopo di essersi accorto che Pio IX le prendeva sul serio; forse ebbe anch’egli qualche illusione, ma lo scetticismo dell’indole romanesca, che molto concorre al buon senso della razza, e la precipitazione degli avvenimenti dopo il 1859, lo facevano persuaso della inutilità di qualunque azione di resistenza, e lasciò andare l’acqua per la china, anche perchè egli non credeva, come Pio IX, all’intervento della divinità nei fatti umani. Non era un mistico, nè un idealista, ma un uomo che tirava a godere la vita, ed a cumulare una sostanza, come infatti cumulò.
Nato di umile famiglia della Ciociaria, e salito a così alto posto, si propose di non perderlo più. E prevedendo che a questa sua mira potesse recare ostacolo il modesto casato, provvide a nobilitare la sua famiglia, ed a farla ricca e potente. In una società, in cui la gerarchia era tutto, e il patriziato delle vecchie famiglie papali costituiva una parte del pubblico potere, egli intendeva la necessità di nobilitarsi, e perciò, come si è detto, si fece decretare dal municipio l’onore della cittadinanza e nobiltà romana, per sè e per i fratelli, in attestato di civica riconoscenza a lui, segretario di Stato. Nominò suo fratello Filippo governatore della banca romana; fece di Luigi non solo un conservatore per il patriziato, ma un amministratore di ferrovie; a Gregorio, ch’era il maggiore, lasciò la cura delle cose di campagna, ed a tutti fece conferire il titolo di conte, compreso Angelo, che viveva a Parigi. Il cardinale non era un bell’uomo, ma riusciva simpatico per la spigliatezza dei suoi modi. Parlando, rivelava subito la sua origine ciociara, coll’indispensabile intercalare: donchi donchi. Era un mondano, nel quale la vita della corte aveva raffinato i gusti borghesi. Il suo gabinetto in segreteria di Stato, dove riceveva ambasciatori e dame, era tutto tappezzato in azzurro ed arredato di mobili piuttosto da signora galante, che da primo ministro del Papa, e meno ancora da ecclesiastico. Nel vestire si studiava di nascondere, il più che era possibile, il colore rosso della insegna cardinalizia. Aveva splendide carrozze, che si faceva costruire appositamente dal Casalini, con finimenti di semplicità elegante e senza quello sfarzo tra il monumentale e il barocco, che distingueva le vetture cardinalizie di allora. Ridusse anche alle minori possibili proporzioni i finimenti dei cavalli, sopprimendo soprattutto quegli enormi fiocchi, che loro rosseggiavano sul capo. Non gli mancarono avventure galanti, minori forse di quelle che avrebbe potuto offrirgli la sua posizione, in cui tutto era facile; alcune ebbero anche postumi strascichi di scandali clamorosi, e di piati giudiziari, da cui la sua fama non uscì incolume. Invitava le signore a visitare la ricca sua flora, nella quale avevano fama le collezioni delle rose e delle camelie, nel bel giardino acquistato, nel 1857, dopo la morte della duchessa di Sassonia, Carolina Ludovica di Borbone, moglie a Francesco de Rossi, figlio di Gherardo, avo materno di don Michelangelo Caetani. Quel villino, così fresco e profumato in estate, fu travolto dalla ricostruzione, certo non bella, della presente via del Quirinale. Alle signore l’Antonelli faceva elegantemente gli onori di casa, e dopo aver loro offerti grandi mazzi di rose, le conduceva a visitare la sua collezione di pietre rare, e l’altra di anelli preziosi, tra i quali ve n’era uno appartenuto a Napoleone I, e regalato al cardinale da Napoleone III. Era a proposito di queste visite, che si facevano le più curiose congetture circa i rapporti del segretario di Stato con quelle dame. Nei grandi ricevimenti, benchè fosse insignito di ventotto cordoni, non escluso quello dei Santi Maurizio e Lazzaro, conferitogli da Carlo Alberto, interveniva solitamente senza decorazioni, e solo si attaccava talvolta la piccola croce di Malta, come protettore dell’Ordine. Usciva a passeggio quasi sempre solo, e di questa sua abitudine fu conseguenza l’aggressione, cui fu fatto segno, per le scale del Vaticano, dal cappellaio De Felici. Del suo aggressore si diceva che aiutasse la vedova; ma, data la scarsa tenerezza del suo animo, non sembra verosimile.
I suoi intimi erano il suo maggiordomo Ludovico Fausti e il fido cameriere Liberato Aureli, accusato più tardi, nientemeno, come violatore di sepolcri, per essere stato sorpreso mentre strappava i denti da un teschio, del quale non seppe indicare la provenienza. Più tardi il cardinale gli fece ottenere il restaurant della stazione. L’Aureli aveva in consegna le collezioni, e del Fausti si narreranno gli eventi e le disgrazie. Un bel ritratto del cardinale si ammira nella camera dell’Immacolata Concezione al Vaticano, vicino alle stanze di Raffaello, ritratto eseguito dal Podesti, mentre l’affresco di Sant’Agnese lo somiglia poco.
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Due grandi avvenimenti, mondiali per la loro importanza, nel campo dell’arte, e nel campo della religione, si compirono negli anni 1853 e 1854. La sera del 19 gennaio del 1853 andò in iscena al teatro Apollo la novissima opera del Verdi: il Trovatore. Se sono spariti dalla scena del mondo tanti di coloro, che udirono quell’opera in quella prima sera, n’è rimasta viva la memoria del trionfo. E non è iperbolico il Checchi, che scrive: «il successo del Trovatore superò le più arrischiate previsioni; le repliche di pezzi furono innumerevoli; le chiamate al maestro, infinite; l’esecuzione degli artisti, mirabile. Carlo Baucardè, nella parte di Manrico, seppe così bene colorire la musica più appassionata che avesse scritta fino allora il Verdi, e modulò con tanta dolcezza i suoi canti paradisiaci, che fece dire a taluno, potersi trovare la scintilla del genio anche in una cosa meccanica, com’è la voce umana. E il Verdi stesso, nella bella schiera di tenori dell’ultimo trentennio, confessava di non aver più trovato una voce, che meglio di quella del Baucardè si piegasse alle sfumature più delicate del canto italiano».
Ebbe per esecutori, oltre al Baucardè, il Guicciardi e il Balderi, la Penco e la Goggi. La Penco fu una delle più insigni cantanti dei suoi tempi. Ella e il Baucardè, che il Monaldi chiama artisti prodigiosi per voce ed ingegno, assicurarono il grande successo di un’opera, che spiccò il suo volo trionfale nel mondo, dal vecchio e paludoso teatro di Tordinona; meritato trionfo, che per oltre mezzo secolo mandò in visibilio il pubblico di Europa e di America, ed aperse le porte dell’immortalità al Verdi. Quanti aneddoti raccolti a proposito di quell’opera nei recenti scritti del Checchi, del Monaldi e del Barrili! Ne riferisco uno, inedito, che il maestro narrava a pochi intimi. Diceva, che in uno dei suoi viaggi a Pietroburgo, uscendo dalla stazione, udì alcune note del Trovatore, e vide sulla piazza una folla raccolta intorno ad alcuni suonatori ambulanti, italiani naturalmente, che strimpellavano il miserere, fra le grida di esaltazione che coprivano il suono dei violini. Confessava di averne ricevuto un’impressione commovente.
Verdi arrivò a Roma il giorno di Natale del 1852 per la via di Civitavecchia. Lo scultore Luccardi, suo intimo, gli trovò l’appartamento e affittò per lui un pianoforte, perchè egli, secondo aveva detto, potesse scrivere «l’opera per Venezia», ch’era poi la Traviata, rappresentata in quella città due mesi dopo, cioè il 6 marzo. E scriveva pure al Luccardi: «il Trovalore è completamente finito; non manca nemmeno una nota e ne sono contento. Basta che lo sieno i romani». Altro se lo furono! Il Cammarano era morto cinque mesi prima a Napoli, senza avere la letizia di assistere al successo di un’opera, della quale aveva scritto il libretto; e al direttore dell’orchestra, l’Angiolini, «il caro Angiolini», come lo chiamò il Verdi in altra lettera allo stesso Luccardi, scrittagli dopo la rappresentazione, era riserbata la fortuna e l’onore di dirigere, sei anni dopo, nello stesso teatro, il Ballo in Maschera. Superstite di questa orchestra è il violinista Tullio Ramaciotti, che narra alcuni episodi in questa lettera:
Dell’opera il Trovatore, data la prima volta all’Apollo di Roma nel carnevale 1852-53, l’effetto della prima esecuzione non fu straordinario. Molto applauditi furono la scena della torre nel 4° atto, e la cabaletta, Di quella pira, cantata con un accento potentemente drammatico dal Baucardè. In seguito, il successo crebbe fino all’entusiasmo... Verdi era ammirevole nel concertare, dirigere, e mettere in iscena le sue opere, e molto rigoroso s0pratutto con gli artisti di canto, dei quali non sopportava il voler fare sfoggio di voce, evitando la melodia, ed era su questo, spesso, anche brutale!
Dell’esecuzione di quest’opera, le narrerò un fatto, a dimostrare come i direttori presenti, spesso interpretano a rovescio il repertorio antico, e quel ch’è più, permettono ai signori cantanti ogni sorta di controsensi, e mettere dei do, che infine col diapson presente non sono che dei sì, dove più gli aggrada, per aver gli applausi del pubblico ignorante. Nell’aria di sortita di Eleonora, la così detta cabaletta è accennata prima dai violini; ebbene, Verdi, la prima volta che si provò, ci pregò di eseguirla colla più grande eleganza, e per ben tre volte ce la fece ripetere. Ora si fa eseguire col movimento di un triviale galop!
Occorrono cantanti veramente meritevoli di simile aggettivo per rendere gli effetti vocali immaginati dal Maestro e indispensabili allo scoppio in teatro del vero entusiasmo. Tali furono veramente fra le donne: la Penco, la Frezzolini, la Borghimamo, la Medori, la Bosio, la De Meric, la Jenny Ney, la Gazzaniga, la Bendazzi, la Casaloni, la Piccolomini; e fra gli uomini: Baucardè, Mario, Tamberlik, Graziani, Fraschini, Bettini, i quali tutti, tanto in Italia quanto in Francia, in Russia, in Inghilterra, nella Spagna, suscitarono con il Trovatore fanatismi indicibili.
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Dopo un lungo concilio fu compiuto, il giorno 8 dicembre 1854, in San Pietro il grande avvenimento della definizione del dogma dell’Immacolata Concezione, in presenza di 54 cardinali, 42 arcivescovi, 23 vescovi e qualche patriarca. Pio IX volle che i nomi degl’intervenuti fossero ricordati sopra due lapidi, che sono collocate a destra e a sinistra dell’altare della confessione nella basilica di San Pietro. Quei grandi dignitari della Chiesa, che adstabant alla definizione, sono tutti morti; e dei cardinali l’ultimo a morire fu Gioacchino Pecci, allora vescovo di Perugia.
La festa in San Pietro, in quel giorno dedicato alla Vergine, fu davvero: grandiosa. Dopo cantato il Vangelo, in latino e poi in greco, il cardinal Macchi, decano del sacro collegio, unitamente ai decani degli arcivescovi e vescovi presenti, nonchè all’arcivescovo di rito greco, e a quello di rito armeno, si presentò ai piedi del trono, e rivolse al Papa in lingua latina queste parole: «Degnatevi, beatissimo Padre, di alzare la vostra voce apostolica, e pronunziare il decreto dommatico della Immacolata Concezione, pel quale saravvi gaudio in cielo e sommamente esulterà il mondo». Rispose il Papa, che gli era assai gradito il voto del sacro collegio, dell’episcopato e del clero, ma prima di esaudirlo era necessario invocare l’aiuto dello Spirito Santo; e ciò detto, intuonò il Veni Creator, cantato in coro dai presenti. Compiuto il canto, e fattosi un gran silenzio, Pio IX lesse con la sua bella voce questo decreto: «Essere domma che la beatissima Vergine Maria nel primo istante della sua Concezione, per singolare privilegio e grazia di Dio, in virtù dei meriti di Gesù Cristo, salvatore dell’uman genere, fu preservata immune da ogni macchia della colpa originale». Il cardinal decano pregò allora il Papa di render pubblica la bolla, e tra il tuonar del cannone del forte Sant’Angelo ed il festoso scampanio di tutte le chiese, fu redatto il solenne atto, dopo il quale Pio IX andò alla cappella di Sisto IV a coronare l’immagine della Vergine. La magnifica festa, che precorse quella della infallibilità, ebbe lunga, nè men solenne eco in tutte le accademie di Roma, e in tutti i seminarii del mondo: feste entrambe abilmente predisposte e concretate dai gesuiti, sfruttanti l’inesauribile vanità del pontefice, e la sua singolare devozione per la Vergine.
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Il 2 ottobre di quello stesso anno fu inaugurata, nell’ufficio provvisorio presso San Giovanni, la prima linea telegrafica fra Roma e Terracina, dovuta alla efficace iniziativa del ministro Camillo Iacobini, morto il 7 del precedente mese di marzo. A lui era succeduto monsignor Milesi Pironi Ferretti, già delegato apostolico a Forlì, e lontano parente di Pio IX, il quale si affrettò a provvedere alla sua nomina appena un mese dopo la morte del Iacobini, per isviare qualche possibile tentativo del governo francese, di far succedere ad un laico altro laico in un ministero veramente tale, come quello dell’agricoltura.
Alla festa inaugurale, accompagnato dal Milesi, intervenne Pio IX, il quale curiosissimo volle osservar tutto, muovendo domande di un’ingenuità singolarissima al direttore dell’ufficio, Fedele Salvatori, che ancora se ne ricorda. Dopo di essersi scuriosito, il Papa volle mettersi in comunicazione con le autorità di Terracina e ad esse, come ancora all’impiegato addetto alla trasmissione, inviò la sua benedizione. Aspettava da quest’ultimo un ringraziamento, che non venne, e di ciò impermalitosi, disse al Salvatori: «Almeno questo villano potrebbe rispondere con un gratias tibi ago»... Il Salvatori, giovanissimo, era ingegnere presso l’ufficio tecnico di Roma, e la sua nomina fu poco gradita agli zelanti, che lo avevano in conto di liberale, e però gli misero accanto impiegati fedeli e devoti. Mandato poi in esilio nel 1859, gli successe nell’ufficio l’ingegnere Mengazzini di provata fedeltà, ma di scarsa alacrità, perchè i lavori per l’impianto di nuovi fili si arrestarono. La linea di comunicazione con la Toscana, per Bologna e Pistoia, fu inaugurata non prima del gennaio del 1859; e la linea per Napoli, nello stesso anno, benchè la relativa convenzione fosse stata conclusa fin dal 1854, e sottoscritta dal cardinale Antonelli per il Papa, e dal marchese di San Giuliano, Camillo Severino Longo, per il re di Napoli. In quei due primi anni il numero dei dispacci fu scarso. Da una statistica del tempo si rileva che nel 1856 furono 22,383 con un incasso netto di scudi 18,779. La masggior parte fu rappresentata da telegrammi esteri, tanto che il rimborso dai governi stranieri ammontò sulla cifra suddetta a 11,238 scudi1.
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Con le prediche e le esortazioni dei confessori non si riusciva a combattere, e neppure a limitare il flagello dell’usura nelle classi popolari, a preferenza. Furono studiati vari provvedimenti, ma il più pratico fu giudicato quello di aprire succursali del Monte di pietà per ricevere i piccoli pegni, da due paoli a quattro scudi, e con l’esenzione da qualunque interesse sopra i prestiti inferiori allo scudo. Si chiamarono montini, e vennero aperti in via Piscinula, in via Madonna dei Monti e in via Tordinona. Il Papa, e con lui il Galli, credettero di potere così sottrarre gli spostati alle fauci divoratrici degli strozzini, ma non ebbe chiara la visione delle condizioni miserrime di una città, dove le risorse della beneficenza, confessabili e anche inconfessabili, non erano mai adeguate ai bisogni, e dove la sicurezza di attingervi formava il titolo, che si scontava dall’usuraio a tassi inverosimili. Con soli tre montini non si combatteva davvero l’usura, perchè non si mutava la condizione economica, anzi sociale delle classi bisognose, repugnanti quasi tutte dal lavoro. E vi fu di peggio. Intorno ai montini pullulò un genere di usura, ancora più mordente, quella degli intermediari e dei cosidetti apprezzatori. È difficile dire se il beneficio compensasse il nuovo danno.
Seguirono a quella istituzione altri piccoli provvedimenti, che furono altrettanti pannicelli caldi. Al marchese Alessandro Muti-Papazzurri, già Savorelli, fu concessa la proroga di altri tre anni del privilegio esclusivo della fabbricazione delle candele steariche, a patto che il concessionario ne migliorasse la fabbricazione e le vendesse a 22 baiocchi la libbra, e dopo tre anni, sino al 5 febbraio 1856, a baiocchi 20. Ma la lavorazione non fu mai migliorata, e il prezzo non mai diminuito. Erano concesse medaglie di benemerenza a venditori di commestibili in fama di onestà, e il fornaio Nuzzi di via del Tritone n’ebbe una in oro di grande dimensione, e col motto benemerenti, perchè aveva ribassato il prezzo del pane. Ed era un largheggiare di piccole cose, la cui pubblicità se rivelava vanità, rivelava egualmente spirito benefico da parte del Pontefice, il quale non poteva avere la conoscenza intima dei bisogni di una città, le cui condizioni economiche, sociali e morali sono ampiamente esposte in queste pagine: una città, dove la vita era possibile solo per l’estremo buon mercato dei viveri, nonchè per la scarsezza dei bisogni e per quello spirito di rassegnazione che lasciava guardare al domani senza sfiducia.
Note
- ↑ Diario Ravennate, 1858, Archivio storico romagnolo, di Francesco Miserocchi