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cospirazioni e cospiratori - il processo del 1853 | 171 |
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Il processo del 1853, che fu l’origine dei due partiti e dei due comitati in Roma, dimostra, studiandolo a mente serena, quanto potesse la rabbia settaria in quei tempi. I mazziniani non ismisero di attribuire ai «fusionisti» l’insuccesso di quel tentativo, il quale avrebbe avuto di certo lo stesso effetto di quello di Milano; e i «fusionisti» seguitarono a sostenere, e con più ragione, che quel tentativo era pazzo e criminoso, e sarebbe stato funesto alla causa della libertà e dell’indipendenza. Alcune deposizioni sembrano addirittura inverosimili. Una di esse afferma, che gli emigrati furono spediti a Roma per eseguire, sotto gli ordini del Roselli, l’uccisione dei capi fusionisti; mentre in data 10 agosto, pochi giorni prima dell’arresto, il Petroni scriveva al Mazzini: «io temo da un momento all’altro il massacro dei capi fusionisti, che io trattengo a stento con promessa di azione prossima, ma che non posso trattenere lungo tempo, e che, almeno nello stato attuale, farebbe disonore al partito». Nè il Petroni stesso disdegnava di asserire che essi «divulgando i nomi di coloro, che sanno o sospettano repubblicani attivi, ci fanno decimare ogni giorno dalla polizia». Certo è che quell’ammasso di accuse scambievoli, registrate nel processo, manifesta qualche cosa di più di un’intolleranza settaria: vi apparisce una bestiale perversità di animo da parte di alcuni, superata soltanto da una vigliaccheria inverosimile da parte di altri.
Quel processo segnò non breve tregua ad ogni fattiva cospirazione, e quasi sino alla guerra di Crimea vi fu una sosta pressochè assoluta. Per quanto Giuseppe Checchetelli, confinato a Ciciliano presso Tivoli, venisse sovente a Roma, travestito, a rivedere gli amici, non fu prima del 1856, che si vennero riannodando le sparse fila del partito detto fuso o costituzionale, e che costituì il primo nucleo di quello, che fu il famoso Comitato Nazionale Romano. Sino al giugno di quell’anno, in cui avvenne l’attentato contro il cardinale Antonelli, non era mancata nel governo una certa inclinazione all’indulgenza. Il conte Filippo Carpegna e Camillo Prosperi Buzzi, che avevano comandato