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170 | capitolo x. |
scontò quindici fra Paliano e San Michele; e durante tale espiazione, per una tentata rivolta organizzata da lui e dal Roselli, fu dal tribunale militare condannato nuovamente a vita. Venne graziato due anni prima della liberazione di Roma, e, cacciato dallo Stato del Papa, riparò a Firenze. Benchè intransigente in politica, ebbe dal Checchetelli un incarico di fiducia ai primi di settembre del 1870; ed oggi, dopo tante vicende, vecchio ancor vigoroso, egli ricorda e narra quanto fece, e con quanta onestà d’intenti, il fondatore del Comitato Nazionale per la liberazione di Roma, e quanto fu iniquamente calunniato. Copre ora un modesto ufficio al museo artistico industriale.
Suo fratello Cesare, decapitato del 1861, era maggiore di lui di cinque anni. Nel processo del 1853 fu qualificato «oste disoccupato», e riportò condanna di dieci anni di galera, ridotti poi a cinque, che espiò tutti. Aveva, prima di quella condanna, scontati altri quattro mesi di detenzione per ingiurie e minacce ad alcuni soldati francesi, ed era inoltre gravemente indiziato come non estraneo alla «soppressione» di alcuni di essi. Certo era in politica un fanatico, anzi un temerario, che non badava ai mezzi. Fu accusato dagl’impunitari di aver fornito l’alloggio agli emigrati; ed uno di quelli, verosimilmente il Catenacci, riferi che il Lucatelli dichiarava sempre «che in tutte le operazioni che c’era da fare, voleva star sempre unito con noi, e che principalmente desiderava di prestar l’opera sua con noi nel massacro dei fusi, ed in altri delitti di sangue, che si fossero dovuti commettere». Il Lucatelli protestò contro quell’accusa, affermando di nulla sapere dei delitti, di non appartenere a setta «e di non essere una belva che debba pascersi di carne umana»; ma questi precedenti gli furono fatali nel processo per l’uccisione del gendarme Velluti. Scontati i cinque anni di galera, non riaprì più l’osteria, che esercitava in Trastevere, ma entrò nell’impresa Dovizielli per i trasporti ferroviari, ondechè nell’ultimo processo di morte, quasi per umiliarlo, fu qualificato facchino. Dal 1858, quando uscì dal carcere, al 1861, quando fu decapitato, la polizia pontificia e la francese non lo perdettero mai d’occhio, come uno dei più attivi e pericolosi membri del comitato d’azione.