Racconti poetici/Cenni intorno alla vita di Alessandro Puschin
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Traduzione dal russo di Louis Delâtre (1856)
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CENNI
INTORNO ALLA VITA DI ALESSANDRO PUSCHIN.
Alessandro Puschin1 nacque in Mosca a dì 26 di maggio dell’anno 1799. Suo padre apparteneva a un’antica famiglia patrizia; sua madre discendeva da un negro africano che rapito dal natío paese in età di otto anni, fu condotto a Costantinopoli, esposto nel bazar delli schiavi e venduto all’ambasciadore di Russia, il quale lo mandò in regalo come oggetto di curiosità (diceva egli), allo Zar2 Pietro il Grande. Questi lo fece battezzare, poi lo istituì suo paggio. Ma accortosi del singolare ingegno del fanciullo, lo inviò a’ Parigi, ove volle che gli fosse data una educazione liberale estesissima. Hanibal, così chiamavasi il giovine moro, manifestò gran disposizione per le scienze matematiche. Escito di collegio, entrò nell’esercito francese, prese parte alla guerra di Spagna, fu ferito, e tornò in Russia. Pietro gli conferì il grado di luogotenente. Nel 1727, Hanibal fu confinato in Siberia per aver offeso Menscicoff, che governava despoticamente in nome del piccolo Pietro II. Nel 1743, l’imperatrice Elisabetta lo richiamò dall’esilio, lo insignì di vari titoli, e finalmente lo nominò generalissimo. Suo figlio maggiore, Giuseppe Hanibal, menò vita agitatissima; ripudiò la prima moglie, ne sposò un’altra mediante una falsa fede di decesso; ma accusato di bigamia dal proprio fratello, venne condannato ad assegnare un’annua pensione alla prima moglie Maria, madre di Nadege, la quale nell’anno 1797, sposò Sergio Puschin, e lo rese padre del nostro poeta.
Alessandro portava i segni di questa origine mezza slava, mezza africana. Aveva carnagione olivastra, naso alquanto schiacciato, narici rilevate e mobili, capelli ruvidi e naturalmente crespi, occhi d’un colore cupo indeciso. Focoso, impaziente, appassionato, si lasciava facilmente trasportare dallo sdegno; i suoi accessi di furore eran tremendi, ma duravan poco tempo, e tosto egli se ne pentiva e se ne scusava dicendo: "Non è mia la colpa; è quel diabolico sangue africano che mi fa impazzare." Ciò non ostante, egli adorava sua madre, e rispettava altamente il suo zio materno Giovanni.3
Il padre di Puschin era uno di quei gentiluomini dei quali Caterina II diceva: "Questi signori sanno il loro Molière a menadito." Aveva belle maniere, vestiva con gusto, rispondeva con brio, amava la cucina francese e la letteratura francese. Diede a suo figlio per precettore un emigrato parigino, il conte di Montfort, versatissimo nelle lettere, nella musica e nella pittura. Forse appunto per questa sua varietà di cognizioni il conte si occupava pochissimo del suo allievo, il quale, abbandonato a sè stesso, profittava della libertà concessagli, per introdursi di soppiatto nella biblioteca di suo padre e passarvi talvolta notti intere a leggere ogni specie di libri. Ma siccome la maggior parte dei libri che la componevano erano francesi, il giovine Puschin fu, sin dai più teneri anni, imbevuto di idee francesi. In età di undici anni già conosceva tutti i classici di quella nazione, e incominciava a scrivere in quella lingua. Lo dilettavano specialmente le commedie di Molière, e s’ingegnava ad imitarle in piccole farse che egli rappresentava davanti a sua sorella, sopra un teatrino da lui fabbricato. Puschin era a un tempo stesso autore e attore; la sorellina faceva da pubblico. Una volta recitò uno scherzo intitolato L’escamoteur. Il pubblico fischiò. L’autore si consolò dettando contro sè stesso il seguente epigramma:
Dis-moi, pourquoi l’Escamoteur
Est-il sifflé par le parterre?
Hélas! c’est que le pauvre auteur
L’escamota de Molière.
Qui noteremo di passo, che anche l’illustre Goethe ebbe una educazione tutta francese, e che appena giunto all’età di nove anni scrisse una commediola francese che fu il suo primo saggio letterario. L’autore del Misogallo, Vittorio Alfieri, trovossi appresso a poco nelle stesse circostanze; e la lingua francese gli era sì familiare, che in essa abbozzava le sue tragedie prima di verseggiarle in italiano, come attestano i manoscritti suoi depositati nella Biblioteca Laurenziana di Firenze.
Questa funesta predilezione per una lingua straniera, avrebbe forse privato la Russia di un gran poeta, se la fortuna non avesse posto argine al male, scegliendo per istrumento delle sue volontà una umile serva, la balia di Puschin nominata Irene Radionovna, la quale ridestò nel suo allievo l’amore del patrio idioma. Se egli gallicizzava il giorno con suo padre e coi maestri, la sera ridiveniva russo colla sua balia, che gli narrava in un linguaggio pittoresco, energico e leggiadro, mille istorie e tradizioni popolari, alcune delle quali egli, più tardi, trattò in verso.
Quando arrivò all’età di dodici anni, entrò al Liceo di Zárscoie-Seló, fondato dall’imperatore Alessandro I. Quell’educazione collettiva regolare e monotona, quella disciplina rigida e cavillosa, stettero quasi per soffocare i germi dell’ingegno di Puschin. I professori malcontenti non davano di lui se non ragguagli sfavorevoli. Uno di essi, il signor Cunizin, così si esprimeva riguardo a Puschin, in un suo rapporto:
«L’allievo Alessandro Puschin ha intendimento e perspicacità, ma manca di applicazione. Non è capace d’occuparsi che di oggetti futili; quindi fa pochi progressi negli studi, e men che in altro, nella logica.»
Probabilmente, nel redigere questo certificato di futilità, il professore Cunizin pensava ai versi che già Puschin dettava, e che facevano le delizie di tutti i suoi condiscepoli. Alcuni di codesti saggi capitarono fra mano al celebre poeta Giucovschi traduttore dell’Ariosto, di Wieland e d’Omero: meravigliato della grazia che osservò in quelli, indirizzò una epistola all’autore, e gli offrì in dono uno dei suoi volumi. Puschin, giustamente superbo di tali distinzioni, scrisse sopra una pagina del suo giornale: «Giucovschi mi ha regalato una sua opera!!!» Questo dono fece epoca nella vita del giovine alunno delle Muse.
Nell’anno 1815, scrisse, in occasione della distribuzione dei premii, un poemetto intitolato: Rimembranze di Zárscoie-Seló. Fu letto pubblicamente nell’adunanza solenne alla quale assisteva il venerabile Dergiavin, lirico celeberrimo, autore dell’inno A Dio, che trovasi tradotto in tutte le lingue colte d’Europa. Il conte Rapumovschi avendo chiesto se Puschin che scriveva tanto bene in verso, saprebbe scrivere egualmente bene in prosa, Dergiavin pose la destra sul capo del fanciullo, esclamando: "È nato poeta; sarà assai più utile; non lo distogliamo dalla sua vocazione."
Durante il suo soggiorno nel Liceo, vale a dire dal 1812 al 1817, Alessandro Puschin produsse più di cento venti lavori poetici, e incominciò il poema di Ruslano e Liudmila, che compì nel 1818, e diede alle stampe nel 1820. Questo poema, cavato dalle tradizioni popolari slave, non incontrò l’esito che poteva aspettare l’autore, e suscitò critiche acerbe e violenti, sebbene fosse il primo poema in lingua russa che sostenesse la lettura. Fino allora poema e seccatura erano stati sinonimi.
Imbevuto delle dottrine liberali di Voltaire e di Rousseau, Alessandro Puschin non era un suddito molto rispettoso ed obediente, e ardiva non di rado biasimare gli atti del governo. Tale intemperanza di lingua fu cagione che l’imperatore lo mandò in bando nella Russia meridionale, verso l’anno 1820. Questo viaggio forzato non fu sterile per le lettere.
La prima città ove abitò fu Chiceneff. Ivi stava sotto la guardia del generale Inzoff, il quale diceva che gli costava meno fatica il governare una provincia, che il sorvegliare un poeta. «Dapprima, diceva egli, mi toccava avergli sempre gli occhi addosso: ogni giorno qualche scapestraggine, qualche pazzia cui bisognava rimediare.» Quando era troppo indocile lo mettevo in arresto, e ponevo una sentinella alla sua porta; ma egli scappava per la finestra.... E allora chi gli correva dietro?»
Il generale Inzoff gli permise di fare una gita nella regione del Caucaso. Ivi il suo ingegno cambiò indole e natura. «Io divengo malvagio, scriveva a un suo amico, o piuttosto, io divengo buono, poichè mi stacco dalle cose di questo mondo. Aspettatevi a qualche produzione byroniana.»
E tenne parola, componendo in quei deserti Il prigioniero del Caucaso, e il primo canto di Eugenio Anieghin.
L’astro di Byron era allora nel suo meriggio, ed eclissava tutti gli altri luminari del Parnaso. Puschin, rischiarato da quello, vide le cose sotto un nuovo aspetto, e trovò nuovi colori per descriverle. Così, mentre il genio di Byron inspirava Lamartine in Francia, si suscitava un emulo e quasi un fratello in Russia.
Nel 1822, Puschin lasciò Chiceneff senza avvertire nè il governatore, nè alcuno dei suoi conoscenti e amici. Il generale e tutti gli abitanti stavano in una mortale inquietezza. Tutti domandavano: "Dov’è? Perchè è partito? Che gli sarà successo?"
Frattanto, il poeta fuggitivo si dirigeva verso i confini dell’impero in compagnia di.... Chi lo crederebbe? di una truppa di zingari erranti. La cronaca scandalosa di quel tempo attribuisce ai soavi sguardi, al dolce sorriso, alle belle forme della zingarella Mariola, la disparizione del poeta.
Tornato a Chiceneff, dovè passare alcuni giorni in prigione, durante i quali imaginò e schizzò il suo poema delli Zingari. Ma non lo terminò che nel 1824, perchè già egli sentiva la necessità di maturar meglio i suoi lavori.
Percorse anche la Crimea, e fra le città che visitò, più d’ogni altra lo dilettò Bakcisarai, antica residenza dei khan tartari, dei quali tuttora esiste il palazzo costruito nel più ricco stile dell’architettura moresca. Queste rovine gli suggeriron l’idea del suo poema intitolato la Fontana di Bakcisarai.
Nel 1824, cessato il suo esilio nella Russia meridionale, egli si recò al suo castello di Micailovschi (nel governo di Pscoff). Vi rimase fino al mese di settembre del 1826. Non gli era ancora permesso di abitare Mosca nè San Pietroburgo; tal divieto fu levato dall’imperatore Nicolò, nel giorno del suo incoronamento.
Dalla villa di Micailovschi, così scriveva Puschin ad un amico: «J’ai jetè ma gourme nelle provincie meridionali dell’impero. Reduce nel Castel natio (sic) mi son trovato» solo a solo con me stesso in faccia all’elemento russo schietto schietto. Mio padre e la sua comitiva francese sono altrove. Finalmente sto in balía della solitudine, quella tremenda donna che foggia a modo suo gli spiriti a lei affidati. Per forza ho dovuto spogliare il vecchio uomo, raccogliermi in me stesso e meditar»e.
Nei primi tempi del suo soggiorno a Micailovschi, Puschin parve aver affatto rinunziato alle sue follie giovanili. Stava quasi sempre solo, studiava molto, lavorava moltissimo, e passava le serate colla sua vecchia balia Irene Radionovna, di cui abbiamo già parlato. Egli diceva che la buona Irene aveva rifatto la di lui educazione aprendogli l’adito al mondo fantastico dei racconti popolari, e che ad essa andava debitore della sua cognizione degli usi e delle tradizioni nazionali.
Oltre a queste lezioni private nel proprio domicilio, egli ne prendeva anche delle pubbliche per le piazze e per le campagne. Spesse volte s’insinuava fra i contadini, frequentava le taverne, ad oggetto di cogliere a volo le locuzioni, gli idiotismi che egli dichiarava tout parfumès d’une odeur de terroir. Un giorno entrò in un salotto di Pscoff travestito da mugic (ossia contadino russo). Fu dileggiato molto per quella bizzarria; ma sarebbe stato ammirato invece, se si fosse saputo che egli in tal modo si poneva in grado di osservar dappresso i costumi popolari. Egli allora preparava il suo dramma di Boris Gadunoff, nel quale voleva, secondo la sua espressione, riprodurre les traits vivants della nazione russa.
«Non v’è cosa inutile in natura (dic’egli in una sua lettera); ogni cosa concorre all’armonia universale. Il linguaggio del più oscuro mugic, le sue consuetudini e fino al suo tulup (pelliccia) son cose degne della penna d’un poeta; soltanto bisogna saperne parlare in tempo opportuno. Anche le scene popolari e le rozze beffe della plebe appartengono al dominio della poesia. Il poeta non deve mai scendere alla trivialità per gusto e per elezione; deve evitare quanto più può lo stile plateale; ma quando non può fare altrimenti, deve con risoluzione tentar l’impresa....»
«Racine, scrisse Puschin in un’altra occasione, è grande per la precisione, la purezza e l’armonia del verso. Ma il disegno e i caratteri della sua Fedra sono il colmo della sciocchezza.4 La verosimiglianza delle situazioni è la miglior regola per un poeta tragico. Non ho letto nè Calderon, nè Lopez de Vega; ma che genio è quel Shakespeare! Mi fa trasecolare! Quanto le tragedie di Byron sono meschine accanto a quelle di Shakespeare!... I poeti, subito che hanno concepito un personaggio, voglion assolutamente che tutto ciò che dice porti l’impronta del suo carattere, come vediamo nei pedanti e nei marinai dei romanzi di Fielding. Se un cospiratore ha sete e chiede un bicchier d’acqua, bisogna che pronunzi quelle parole in un tono che sappia di cospirazione. Assioma assurdo! Shakespeare non teme di compromettere i suoi personaggi: li fa parlare con tutta la naturalezza, la semplicità degli uomini comuni, perchè sa sempre, quando l’azione lo esiga, metter loro in bocca un linguaggio adattato alla situazione.»
Il dramma di Boris Gadunoff, bagnato di tanti sudori, non ebbe quel successo che il poeta presagiva. Ma in ricompensa, gli ultimi canti di Eugenio Anieghin fecero furore. Cominciato nel 1825, e terminato nel 1852, questo poema viene stimato il più bel parto della musa di Puschin. Nei due primi canti si biasimò l’imitazione un po’ servile del Don Juan di Byron, e quel personalismo che valse tante censure al bardo inglese. Ma nei canti seguenti, il poeta introdusse pitture così fedeli della società russa, osservazioni così giuste e fine sulle idee e sui vizi del secolo, che si conciliò l’ammirazione generale.
A dì 3 settembre del 1826, come più sopra accennammo, Puschin ottenne il permesso di tornare a Mosca. Giunto in questa capitale, fu presentato all’imperatore Nicolò che gli fece una gentilissima accoglienza e gli disse tralle altre cose: «Uno scrittore dotato di eminenti facoltà mentali deve applicare il suo ingegno a tramandare ai posteri le virtù del proprio paese.»
Tutto quell’anno passò in feste e in banchetti. Ognuno voleva vedere e udire il gran poeta, le cui opere godevano di sì alta fama. Non trovò un solo istante per lavorare. «Da molto tempo in qua, scriveva, non impugno più la penna, perchè troppe mani mi conviene stringere, e troppi mazzetti di fiori offrire. Frattanto m’inebrio, non già di vino, ma di soavi sguardi, e di quel fumo di gloria che poi non è mica così acre come i poeti voglion far credere.»
Nel 1827, Puschin tornò a San Pietroburgo, e si diede a una operosità instancabile. «Mi pagano, scriveva, un ducato ogni verso che mi sfugge dalla penna.» Questa asserzione, che è esattissima, egli ripeteva con una certa vanità, e pretendeva far credere che non componeva se non per guadagnar danaro. Lo che però non vero, giacchè fu appunto allora che egli si accinse a scrivere in prosa. «Conviene, diceva, accrescere il numero di quei che leggono; e per raggiunger tale scopo bisogna che coloro che scrivono adoprino la forma più accessibile al popolo, cioè la prosa.»
Il suo primo frutto in questo genere, fu una novella intitolata: Il negro di Pietro il Grande. Poi pubblicò cinque altre novelle sotto lo pseudomino di Bielchin; poi la Dama di picche e la Figlia del capitano.
Nel 1829, messe in luce il poema di Pultava, tratto dalla istoria russa. Lo scrisse in uno stile più purgato, più energico di quanto aveva scritto fino allora. Nondimeno il pubblico gustò poco questo nuovo capo-lavoro. Puschin provò molta afflizione di tale smacco. Per qualche tempo tenne broncio, poi si ritirò nella sua villa di Micailovschi. Lì si dilettò assai in vedere l’effetto che produceva tra quei buoni campagnoli. «Son divenuto l’oggetto della curiosità generale, dice in una sua lettera; Munito5 non ecciterebbe maggiore attenzione. Quell’originale di N. N. ha fatto credere a un branco di bambini, i quali domandavano che cosa fosse il Puschin, esser io un fantoccio di zucchero da dividersi in tanti pezzi al dessert. I bambini vennero colla speranza di mangiarmi a modo di confetto.»
Puschin voleva svincolare la letteratura russa dalla imitazione straniera, e dal così detto stile classico. I numerosi fautori di questa scuola non gli potevano perdonare tale audacia, e gli mossero aspra guerra. Avvezzi a quell’antica schiavitù, rifiutavano la libertà che veniva loro offerta. Così i cani nati fra i ceppi amano le loro catene, e s’avventano con furore contro chiunque tenti di spezzarle. Simil sorte attende tutti i novatori, tutti coloro che dicono alle vili turbe: "Il giaciglio ove state è buio ed insalubre; venite fuori all’aria aperta e pura, al chiaro sole!" La gente li respinge a sassate. Vuol marcire nel covile in cui marcirono i suoi padri, e in quello vuole che marciscano i suoi figli.
Si pubblicavano in San Pietroburgo molti giornali, alcuni dei quali pagarono al gran poeta il debito tributo di lode, ma i più, fosse ignoranza, fosse gelosia, lo criticarono e insultarono in modo sì sconcio e villano, che peggio non si poteva trattare un malfattore. Puschin, da vero gentiluomo e da vero letterato, non si degnò mai di rispondere alle contumelie di quella inetta ciurmaglia; nè forse mai gettò la vista su quei fogli schifosi, i cui insulti onorano, perchè dettati dall’invidia, e le cui lodi contaminano, perchè sempre sospette di venalità.
Gli amici di Puschin però menarono sì gran rumore di quelle inique e incessanti aggressioni, che alla fine egli medesimo non potè a meno di accorarsene; mentre avrebbe dovuto andarne superbo, poichè il biasimo ingiusto è un omaggio che la stoltezza rende alla virtù; e, come dice Schiller,
Das unrecht leiden schmeichelt grosse seelen.
Verso il mese di marzo dello stesso anno 1829, sparve subitamente senza far parola a nessuno, e qualche settimana dopo la sua partenza, si intese con stupore che il gran poeta erasi trasferito all’esercito del Caucaso. Ognuno fece le sue congetture intorno a questo inaspettato viaggio; i più crederono che Puschin fosse ito a cercar nuove ispirazioni in quelle contrade longinque, dalle quali doveva tornare (dicevano) con un’ampia mèsse di nuovi poemi. Ma lo scopo suo non era precisamente tale, giacchè in una sua lettera di quel tempo trovasi questo passo:
«Io ho veduto il popolano russo maneggiare la zappa: voglio vederlo maneggiare lo schioppo.»
L’esercito marciava allora verso l’Armenia sotto il comando del conte Paschievicc; Puschin ottenne dal generale il permesso di fare quella campagna in qualità di volontario.
«Je suis, scrive Puschin, le seul pèkin dans le camp; aussi nos soldats (de fameux durs à cuire, par parenthèse) me prennent pour un prêtre luthèrien, ce qui ne contribue pas à me mettre en bonne odeur auprès de leurs orthodoxies.»
Assistè all’assedio e alla presa di Cars e di Erzerum; fece varie escursioni nelle provincie circostanti; quindi tornò a San Pietroburgo, non già con un pacco di versi, come pretendevano i prognosticanti, ma con l’animo più sereno e più placido di quando era partito.
Nel 1830, il barone Delvig suo amico fondò la Gazzetta letteraria. Puschin cooperò a questa pubblicazione, e in essa comparve come prosatore non più pseudonimo, inserendovi articoli di critica, i quali però non sembrarono degni della sua alta riputazione.
Fralle sue carte di questa epoca si sono rinvenute alcune note scritte col lapis, due delle quali riporteremo nella lingua in cui furono estese, per saggio del suo stile nella sua seconda lingua materna.
«Depuis quelque temps l’on commence à parler beaucoup de nationalité à propos de littérature, et l’on se plaint de l’absence de cet élément indispensable. Mais nul en core n’a songé à en faire une définition rationnelle. Les uns prétendent que la nationalité en fait de littérature, ou plutôt le popularisme dans la bonne acception du mot, consiste dans le choix des sujets tirés exclusivement de l’histoire du pays. D’autres la voient dans les mots, les tours de phrase, les expressions, c’est-à-dire qu’ils se réjouissent d’entendre parler le russe par des Russes! Singulière découverte!
«Le mérite du caractère national dans un écrivain ne peut être complétement apprèciè que par ses compatriotes; pour les étrangers ce mèrite n’existe pas, et peut même leur paraître un défaut et non une qualitè. Un critique allemand se moque de la politesse outrée des héros de Racine; un français sourit en voyant la provocation brutale de Carion dans Caldèron...... Et pourtant tout cela porte le cachet national. Il y a une foule de traditions, d’usages, d’idées et même de sentiments qui appartiennent exclusivement à tel ou tel peuple. Le climat, le genre de vie, la religion, donnent à chaque peuple une physionomie qui lui est propre, et cette physionomie doit nécessairement se réfléter plus ou moins dans la poésie en Russie....»
Qui finisce questa annotazione che ci rivela alcuni principii di Puschin in materia poetica. L’altra che abbiamo promesso di citare è politica.
«.... La grande époque de la renaissance n’eut aucune influence sur la Russie. La secousse salutaire imprimée» par les croisades n’exerça pas de réaction sur nos mœurs. Mais, en revanche, la Russie avait une haute prédestination.... Ses plaines immenses engloutirent les forces des Mongols, et arrêtèrent les barbares aux confins extrêmes de l’Europe. Les Mongols n’osèrent s’aventurer plus loin, en laissant derrière eux la Russie, toute vaincue qu’elle était.»
Sin dall’anno 1828, Puschin aveva conosciuto in Mosca la signorina Natalia Ganceroff, la cui bellezza veramente straordinaria colpiva tutti d’ammirazione. Un poeta non poteva essere insensibile a tante attrattive. Puschin ne fu vivamente commosso.
Nel 1830, la corte si trasportò a Mosca. La presenza dell’imperial famiglia diede luogo a conviti, a feste di ballo, nelle quali spiccò quasi sola la bellezza di Natalia Ganceroff. Tutti ne parlavano con maraviglia. La fama di quel trionfo giunse alli orecchi di Puschin, il quale trovavasi allora in San Pietroburgo. Lasciò immantinente quella capitale e si recò a Mosca. Chi può sapere che sentimento s’impadronisse di lui in quel frangente, se l’amore, la gelosia o la vanità? Comunque sia, a’ dì 21 di aprile di quell’anno, Puschin chiese in isposa la bella delle belle, come egli la chiamava, e in quello stesso giorno essa gli veniva concessa.
«Je voulais me livrer cette année-ci» dice egli ad un amico, «à des études philologiques, et me voilà dans la psychologie jusqu’au cou. J’étudie la carte de Tendre, et je file le parfait amour, ce qui prouve que l’homme propose et que la femme dispose!»
Dopo tre mesi di corteggiamento, Puschin lasciò Mosca per andar a prender possesso della villa di Boldino che gli era offerta in dono dalla sua famiglia in occasione del suo futuro matrimonio. Vi rimase quattro mesi, durante i quali mise in ordine le sue poesie, e ne compose alcune nuove.
Il colera frattanto infieriva in Mosca ove stava la sua giovine sposa. Puschin non si mosse da Boldino. Si scusò dicendo che non era possibile di traversare i cordoni sanitari. Ma la verità si è che la Musa esercitava ancora un grande impero sul cuore di Puschin, e che egli era più idoneo alla vita celibe che alla vita coniugale.
Le nozze furono celebrate in Mosca il dì 8 febbraio dell’anno 1831. Un mese dopo, i nuovi sposi si domiciliavano a Zárscoie-Seló, e quivi incominciò Puschin a sentire le noie e i tormenti del matrimonio. Nelle sue lettere si lagna del suo nuovo stato, e in particolare della spesa enorme cui lo astringe.
«Fais-moi savoir, de grace,» scrive ad un amico «quelle est la quantité de viande nécessaire pour la nourriture de deux êtres humains dont l’un est un peu de la race des Péris (sua moglie), et l’autre très peu mangeur de sa nature. Mon Vatel6 consomme des quartiers de bœuf capables d’alimenter l’estomac de plusieurs Gargantuas. Tu me feras plaisir en m’apprenant aussi quelle est à peu près la quantité de sucre que peut consommer un modeste ménage. Madame ma sommelière prétend qu’il lui en faut une livre et demie pour les jours ordinaires, et autant, je crois, en plus pour les jours extraordinaires. J’engage ma belle Péri à mettre sous clef thé et sucre, mais elle affirme qu’elle a bien assez de tenir sous clef ma personne. Je fais le gros dos à ce propos. Ici à Tsarsoe-Sélo je ne tiens pas équipage, et pourtant l’argent coule comme une fontaine: que sera-ce donc, mon Dieu! quand les quadrupèdes viendront se joindre aux bipèdes, pour manger au ratelier du poète?»
Qualche tempo dopo gli era assegnato un impiego di cinque mila rubli all’anno, colla facoltà di consultare gli archivi di Stato. Puschin si valse di questo permesso per raccogliere i materiali ad una istoria di Pietro il Grande, di cui però non lasciò se non brevissimi squarci.
Nello stesso luogo dimorava il poeta Giucovschi, già mentovato più sopra, col quale Puschin contrasse una amicizia la quale non dovea cessare che colla vita.
Un altro intimo amico di Puschin, il barone Delvig, di cui fu già parlato, editore della Gazzetta letteraria e dei Fiori del Norte, morì il dì 14 di gennaio del 1831. Questa perdita immerse Puschin nella più profonda disperazione. Fra i molti ricordi che consacrò a Delvig, troviamo il seguente in una lettera:
«J’ai connu Delvig au Lycée. Je fus tèmoin, le premier, de l’indicible dèveloppement de son âme poétique... Je lisais avec lui Derjavine et Joukovsky. Je m’entrete nais avec lui de tout ce qui agite l’âme, de tout ce qui remue le cœur. Sa vie est riche non en événements romanesques, mais en beaux sentiments, en confiance et en bon sens lumineux.»
L’anno seguente, Puschin continuò i Fiori del Norte, a profitto della famiglia di Delvig, e vi inserì varie sue piccole poesie. Nel 1832, pubblicò un altro volume di quella raccolta, e fu l’ultimo. Nello stesso anno si diede con impegno allo studio dei documenti per la vita di Pietro il Grande. Le memorie relative al ribelle Pugacceff destarono in lui una sì viva curiosità, che determinò di trattare separatamente l’istoria di quella insurrezione, e tosto pose mano all’opera. Volendo poi dare al suo lavoro quel colorito di verità che risulta dalla perfetta cognizione non solo del carattere dei personaggi, ma bensì del teatro degli eventi, si trasferì, nel 1833, nella Russia orientale per visitare i luoghi illustrati dalle lotte e dalla sconfitta del famoso settario. La monografia della ribellione di Pugacceff comparve nel 1834.
Nel 1836, Puschin fu nominato gentiluomo di camera dello Zar Niccolò; ma la perdita di sua madre, succeduta poco dopo, gli amareggiò tal piacere. Accompagnò quella sacra spoglia al cimitero di Sviatogorschi, e, quasi presago della propria prossima fine, egli segnò, accanto alla fossa della cara genitrice, il posto ove voleva essere seppellito.
Tutti i biografi stendono un velo sulle cause della morte di Puschin. Ci è dunque forza imitare in parte il loro silenzio. Ci contenteremo di notare che Puschin, a dritto o a torto, credendosi tradito dalla consorte, sfidò in duello colui ch’egli sospettava d’avergli rapito l’onore, e in quel duello ricevè una insanabile ferita. Trasportato nella sua dimora, visse ancora due giorni in mezzo ad atroci torture.
Il poeta Giucovschi, testimone degli ultimi momenti di Puschin, ne scrisse una narrazione circostanziata, di cui riferiremo la conclusione.
«La mattina del 27 (gennaio 1837), disse al dottore Spaschi: "Mia moglie! chiamate mia moglie!" Poi volle vedere i figli. Dormivano; gli furono arrecati mezzo immersi nel sonno. Li guardò l’un dopo l’altro con attenzione e in silenzio; pose loro la destra sul capo, li benedisse, e accennò che si riportassero via. "Chi è quì?" domandò poi. Gli fu risposto: "Viasemschi e Giucovschi..." — "Fateli approssimare," sclamò con voce bassa e fioca. "Io presi la sua mano e la baciai, ma non potei far parola, e mi allontanai. Mi richiamò a sè: "Di’ all’imperatore"» soggiunse, che mi rincresce di morire; che sarei stato tutto suo. Digli che gli auguro un lungo regno, e che bramo sia sempre contento di suo figlio, contento della Russia! "Poi disse addio al principe Viasemschi. Il conte Vielhorschi s’avvicinò allora, e Puschin gli strinse la mano. Sentiva la morte accorrere a gran passi; si affrettava di prender commiato dagli amici. Si tastò il polso, e disse: "La morte s’appressa...."
«Allorchè si sparse per la città la notizia che Puschin stava in pericolo di morte, l’anticamera dell’appartamento si empì di gente. Era un flusso e riflusso continuo di persone d’ogni ceto che venivano ad informarsi dello stato di salute del gran poeta. Chi non poteva venire da per sè, mandava il servitore. Regnava una afflizione, un lutto generale nella città. Tutti prendevano una parte sincera al nostro cordoglio, e molti ne piangevano. Nè gli stranieri domiciliati in San Pietroburgo manifestarono meno simpatia dei Russi medesimi. In noi era naturale l’angoscia; ma essi come mai la dividevano? È facile la risposta. Tutti gli animi cólti son concordi in ammirare l’ingegno, e quando lascia questa terra anzitempo, tutti lo piangono come un fratello diletto. Puschin non apparteneva alla Russia sola, ma al mondo intero; quindi è che tanti forestieri deploravano la sua precoce fine, con rammarico eguale al nostro.
«Puschin mandò il dottor Dal a confortar sua moglie, sebbene egli stesso non avesse più nessuna speranza. Una volta domandò a Dal: "Che ora è?" Poi soggiunse: Quanto tempo.... dovrò ancora.... soffrire!... Oh! per pietà.... più presto...." E ripeteva sovente: "Finirà in breve?... più presto per pietà!..." Ma in totale tollerò i suoi patimenti con una rassegnazione mirabile. Quando li spasimi divenivano troppo acuti, si torceva le mani, e mandava un sospiro, ma così basso che appena si poteva udire. "Ti convien soffrire molto, amico," diceva Dal; "ma non trattenere i sospiri; ti faranno bene." — "No," replicava Puschin interrompendolo; "non voglio.... gemere.... mia moglie.... mi sentirebbe.... non voglio lasciarmi vincere.... dal dolore...."
«Escii alle cinque della mattina, e tornai due ore dopo. Sembrandomi che avesse passato la notte con bastante calma, io sperava di trovarlo migliorato. Ma quando arrivai fui crudelmente disingannato. Arendt (altro amico di Puschin) mi assicurò che non compirebbe la giornata. Di fatto, il polso s’affievoliva di minuto in minuto; le mani divenivano fredde. Teneva gli occhi chiusi; di quando in quando alzava la destra per prendere del ghiaccio e fregarsene la fronte. Verso le due pomeridiane aprì li occhi, e domandò della conserva di lamponi. Gliene recarono una tazza." Chiamate mia moglie," sclamò con voce sonora; "ditele che mi faccia mangiare." Essa venne, si pose ginocchioni a capo del letto, gli porse una cucchiaiata di conserva, e appoggiò la sua fronte su quella del moribondo. Puschin l’accarezzò dicendo: "Via, via, non sarà nulla; sto meglio, grazie a Dio; ritírati." La quiete con che parlò, illuse la povera donna che si allontanò raggiante di gioia. "Ora," disse al dottore Spaschi, "sta meglio." In quel punto cominciava l’agonia. Eravamo tre intorno al letto: Vielhorschi, Turghenieff ed io. Dal mi disse all’orecchio: "Egli si spegne." Con tutto ciò, serbava ogni sua facoltà intellettuale. Una volta stese la mano a Dal, e gliela strinse dicendo: "Alzami; più su;... più su...." Dal lo prese per le spalle, e lo tenne alzato; allora aprì gli occhi; rasserenò il sembiante e gridò: "Ho finito di vivere!" E lo ripetè, soggiungendo: "Non posso respirare; mi sento soffocare!" Furono queste le sue parole estreme. Tenevo lo sguardo fisso sopra di lui, e osservai che gli si gonfiava il petto. Volevo cogliere il suo ultimo sospiro sulle sue labbra; ma mi sfuggì. Puschin pareva dormire, ed era passato di vita senza che ce ne accorgessimo. Scorsero due minuti di profondo silenzio, dopo i quali chiesi: "Come sta?" — "È spento," rispose Dal.
«Erano le due e tre quarti pomeridiane del giorno 29 di gennaio.... Fortunatamente pensai a far modellare in» gesso il suo volto. I lineamenti non erano cangiati. L’espressione della fisionomia non era quella del dolore, ma bensì d’un sonno placido e felice. Quel giorno andai a desinare dal conte Vielhorschi, nella cui casa trovavansi tutti coloro che avevano assistito agli ultimi momenti di Puschin. Puschin stesso era stato invitato a quel pranzo, ordinato dal conte per celebrare l’anniversario della mia nascita. La seguente mattina, collocammo il corpo del poeta nel feretro, nel quale rimase esposto per ventiquattro ore. Più di dieci mila persone vennero a visitarlo: alcune lacrimavano; altre si fermavano estatiche a contemplarlo. Quella fredda immobilità da una parte, quella confusa agitazione dall’altra, quelle preghiere, quei lamenti in mezzo a quel tumulto, formavano un contrasto singolare, ed istillavano nel cuore una dolce e misteriosa melancolia. Il dì primo di febbraio, il corpo fu condotto alla chiesa delle Scuderie Imperiali, nella quale ebbe luogo la funzione funebre. I più illustri personaggi della capitale, e molti ambasciadori delle potenze estere, vollero essere presenti. Il terzo giorno ci adunammo per l’ultima volta intorno a quelle care reliquie; fu cantato l’offizio; fu deposto il feretro in una slitta che partì a mezza notte. La seguii per qualche tempo cogli occhi al lume di luna; poi svoltò una cantonata, e persi di vista per sempre tutto quello che in Puschin era terrestre.
«La slitta attraversò il borgo di Micailoschi, e passò davanti alla piccola villa di Boldino nel governo di Pscoff, e sotto ai due pini che il poeta ha cantati.7 Giunse al convento di Sviatogorschi la sera del 5 febbraio. Il dì seguente, i monaci cantarono l’offizio, e inumarono il corpo nel terreno scelto dal poeta medesimo, presso alla fossa di sua madre.»
Chiunque leggerà nel poema d’Eugenio Anieghin la storia dell’infelice poeta Vladimiro, ucciso in duello dall’amico, sul fior degli anni, non potrà a meno di vedere in quella tragica fine come un presentimento e quasi una predizione della fine riserbata dalla sorte al nostro Puschin. Quasi tutte le circostanze di quel racconto concordano con quelle, pur troppo reali, della catastrofe qui sopra da noi accennata. Con giusta ragione, dunque, credevano gli antichi essere i poeti anche profeti.
Byron morì di trenta otto anni e tre mesi; Puschin, di trentasette e otto mesi. Somigliò al bardo inglese nell’animo irrequieto, nello stile impetuoso come l’animo, nella vita errante, nella precoce morte.
Fu certamente uno dei più potenti ingegni poetici di questo secolo, illustrato da Schiller, Goethe, Byron, Moore, Manzoni, Lamartine e Vittorio Hugo. Non gli mancò che di vivere in un clima meno aspro, in una società più pittoresca, in un paese più libero, per dare alla sua fantasia tutto quello slancio di cui era capace; mentre, nelle condizioni in cui visse, dovè comprimerla sovente, come appare pur troppo in molti passi dei suoi scritti mutilati dalla censura.
Nessuno prima di lui aveva maneggiato la poesia russa con quella disinvoltura e quella facilità che è uno dei distintivi della vera ispirazione. Troppo impaziente per limare attentamente i suoi versi, riesce talvolta negletto, ma non mai languido nè freddo. Il suo stile è sempre chiaro e limpido come un cristallo; qualità rara prima di Puschin, e di cui va debitore al suo grande amore della lingua francese, nella quale niente di oscuro può entrare. La stessa qualità attinse Goethe alla stessa fonte.
L’azione dei poemi di Puschin è semplicissima. Così è in molti capo-lavori antichi e moderni, nell’Iliade, nell’Odissea, nell’Eneide, nel Fausto, nel Paolo e Virginia, nel Don Juan. L’interesse del racconto non risulta dalla moltiplicità delle peripezie, dalla complicazione dell’intreccio, ma bensì dall’abile svolgimento d’una o due situazioni principali, dalla maestria colla quale il poeta delinea i caratteri, analizza le passioni, descrive gli accessorii. Questi pregi essenziali possedeva Puschin in altissimo grado, ed essi risplendono in tutti i suoi lavori.
Non sembrami fondata l’opinione di alcuni critici che dichiarano Puschin un servile imitatore di Byron. Certamente l’influenza di Byron è manifesta nelli scritti del poeta russo, ma essa non vi predomina mai a segno di togliergli la sua libertà d’azione e d’inceppargli le ali; è un vento che lo sorregge nel suo volo ma che non lo trascina mai contro il suo volere.
I Greci, per più secoli, protetti dalla sorte, liberi ed opulenti, vincitori dei barbari invasori, si diedero a cantare non già le doglie, ma i diletti della esistenza; non già le bellezze del mondo invisibile, ma quelle del mondo visibile pieno per essi di ninfe e di dei, di mirti ed allori. La loro poesia era la poesia della vita.
Fra gli orientali avvolti in continue calamità, ebbe origine la contemplazione solitaria (rêverie). Fra essi per la prima volta risuonarono quelle parole tremende: «Maledetto il giorno in cui fui generato! Sia quel giorno cancellato dal numero dei giorni!..» Dai lamenti di Giobbe e di Geremia derivò la poesia della disperazione, del disprezzo d’ogni cosa mondana, la poesia delle rovine e della morte; quella poesia infine che senza posa mostra all’uomo il sepolcro spalancato. Ma mentre Giobbe in mezzo alle tenebre del dubbio e del dolore fa risplendere l’autorità d’un Dio onnipotente e benefico, i poeti della melancolia sopprimono quasi del tutto quell’alta intervenzione e abbandonano l’uomo a sè stesso su questo suolo deserto composto delle nostre ceneri e intriso delle nostre lacrime. Tale è l’impressione che ti lasciano nell’animo le Confessioni di Rousseau, il Werther di Gœthe, il René di Chateaubriand, il Childe Harold di Byron. Vi sono poi quelli che levato via il principio del bene vi sostituiscono a dirittura il principio del male e fanno l’uomo un vil ludibrio d’una cieca ed iniqua fatalità. Da tale atroce teoria procedono il Candido di Voltaire, il Don Juan di Byron.
Puschin non trascorre in tali eccessi. La sua Musa è piuttosto ilare che mordace, piuttosto graziosa che grave. Il suo Eugenio Anieghin, che a prima vista sembra partecipare assai del Don Juan, somiglia, ora ad un leggiadro idillio, ora ad una festosa novelletta, e quel c’ha di tragico è condito di tanta amenità che non t’inspira orrore.
Prima di chiudere questo preambolo, fa d’uopo ch’io dia alcuni schiarimenti intorno alla mia traduzione. Quando si tratta d’un libro greco o latino, il traduttore è astretto a una esattezza scrupolosa, perchè ogni scritto di quei tempi è un monumento prezioso per la scienza, più ancor che per le lettere. Ma quando si tratta d’un’autore moderno, il traduttore, credo, può prendere qualche licenza col testo per renderlo più accetto al pubblico. Così ho fatto. Qua e là ho aggiunto o soppresso un epiteto; ho svolto un concetto appena adombrato dall’autore; ho omesso alcuni piccoli tratti inutili che facevano inciampo all’andatura del racconto; ho trasposto alcune particolarità che il poeta russo non aveva collocate nel loro ordine logico.
Darò qui due esempi delle libertà da me prese.
Nella strofa seconda del capitolo quarto del poema d’Eugenio Anieghin, il poeta dice:
«La brina8 ingemma i prati e screpola sotto i passi del camminante. (Il lettore s’aspetta forse che io metta alla rima alcune rose;9 ma se le porti il diavolo).»
Questa parentesi che è graziosa in russo, riesce in italiano una freddura. Ho dunque creduto bene di ometterla.
Il poema della Fontana di Bakcisarai, comincia in questo modo:
«Ghirei siede con gli occhi fisi al suolo; la pipa d’ambra fuma nella di lui bocca. I vili cortigiani s’affollano silenziosi intorno al minaccioso khan. La calma regna nel palazzo; tutti con rispettosa attenzione spiano ec.»
Ho tradotto nel seguente modo:
«Ghirei siede con gli occhi fisi al suolo; la pipa d’ambra fuma nella di lui bocca. La calma regna nel palazzo; i vili cortigiani s’affollano silenziosi intorno al minaccioso khan. Tutti ec.»
Evidentemente, quella circostanza della calma va dove l’ho collocata io; perchè dove l’ha messa il poeta genera confusione, e interrompe senza utilità il corso del racconto.
Puschin nell’Eugenio Anieghin descrivendo i costumi della società galante, adopra un gran numero di voci francesi. Le ho mantenute nella mia traduzione perchè la maggior parte di esse sono note a tutti i lettori e usate anche in Italia nel discorso familiare. Il poeta vuole evidentemente deridere il linguaggio dei dandy imitandolo.
Solamente dopo finita questa traduzione, intesi che due poemi di Puschin: Il prigioniero del Caucaso e La fontana di Bakcisarai, sono stati recati in versi italiani dal signor marchese Boccella. Ma per quanta diligenza abbia usata, non m’è venuto fatto di incontrare quel volume.
Alcuni pezzi lirici del Puschin egregiamente volti in italiano dal signor Ignazio Ciampi, comparvero, l’anno scorso, in un volumetto stampato nella tipografia Le Monnier.10
Forse un cenno intorno alla lingua russa non riescirà discaro ai lettori dei racconti di Alessandro Puschin.
Ad eccezione del Turco, del Finnico, dell’Ungherese e del Basco, tutte le lingue europee derivano dal Sanscrito, antico idioma indiano. Queste lingue erano nell’origine cinque o sei sole, che poi si suddivisero in infiniti dialetti. Ecco un breve quadro sinottico della famiglia:
Sanscrito.
In tutte queste lingue le radici primordiali sono le stesse; il sistema di declinazione e di coniugazione è lo stesso; il metodo di derivazione e di composizione è lo stesso. Chi dubitasse di tal verità consulti le opere ove se ne trova la dimostrazione, e in ispecie: la grammatica comparativa di Francesco Bopp, le Ricerche etimologiche di Federico Pott, il Sunto di questi lavori, fatto dall’Eichhoff nel libro intitolato Parallèle des langues de l’Europe et de l’Inde, e finalmente il mio libro: La langue française dans ses rapports avec le sanscrit et avec les autres langues indo-européennes.
La lingua russa deriva direttamente dallo slavone. Non v’è mischiato nessuno altro idioma, e presenta in ogni sua parte un carattere omogeneo, regolare, armonico, che manca a molti idiomi moderni più coltivati e più illustri.
Per la declinazione, la lingua russa e la pollacca sono le sole europee che possano gareggiare col latino. La lingua russa non conosce li articoli, quel flagello dei dialetti neo-latini; esprime le relazioni dei vocaboli fra loro, a forza di desinenze come il Latino e il Sanscrito. Il Sanscrito ha otto casi: il nominativo, l’accusativo, l’instrumentale, il dativo, l’ablativo, il genitivo, il locativo, il vocativo. Il russo e il pollacco ne hanno sette: il nominativo, l’accusativo, l’instrumentale, il dativo, l’ablativo, il genitivo, il vocativo. Il latino ne ha sei: il nominativo, l’accusativo, il dativo, l’ablativo, il genitivo, il vocativo. Il greco ne ha cinque: il nominativo, l’accusativo, il dativo, il genitivo, il vocativo. La coniugazione sanscrita è molto ricca e complicata: la greca sola le può stare a confronto: la latina è povera in paragone di quelle, e la russa e la pollacca sono ancor più povere della latina; ma suppliscono ai tempi che loro mancano, mediante gli ausiliari avere ed essere. Ciò nondimeno la lingua russa e la pollacca sono di tutte le europee le più alte a tradurre i testi latini con una concisione che gli altri idiomi, carichi di articoli, di particelle, di ausiliari, non possono raggiungere.
- ↑ L’s che sussegue all’u deve pronunziarsi come l’sc in scisso. Non potendo rappresentare quella pronunzia esattamente, abbiamo scelto l’ortografia che meno se n’allontana. In Francese, si può scrivere il nome di Puschin come va pronunziato, cioè Pouchkine.
- ↑ Così si pronunzia e così va scritto e non già czar, come lo scrivono i giornali, sebbene tal maniera di scrivere quella voce sia condannata da tutti coloro che sanno un poco di russo.
- ↑ Alessandro Puschin non è il solo esempio di uno scrittore mezzo moro: il romanziere Alessandro Dumas è figlio di un mulatto, e porta sulla fisionomia tutti i caratteri di quella razza.
- ↑ Il celebre critico tedesco Federico Schlegel ha fatto un bellissimo parallelo fra l’Ippolito Stefanoforo di Euripide e la Fedra di Racine; rileva tutte le mende della tragedia francese e tutti i pregi della greca alla quale assegna la palma.
- ↑ Cane che leggeva, ballava e tirava di spada.
- ↑ Celebre cuoco di Luigi XIV. Il nome di Vatel si usa per antonomasia.
- ↑ Vedi a pag. 163 di questo volume.
- ↑ In russo morosui.
- ↑ In russo rosui.
- ↑ Un vol. di 32 pag. in-8.