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di alessandro puschin xxv

gennaio.... Fortunatamente pensai a far modellare in» gesso il suo volto. I lineamenti non erano cangiati. L’espressione della fisionomia non era quella del dolore, ma bensì d’un sonno placido e felice. Quel giorno andai a desinare dal conte Vielhorschi, nella cui casa trovavansi tutti coloro che avevano assistito agli ultimi momenti di Puschin. Puschin stesso era stato invitato a quel pranzo, ordinato dal conte per celebrare l’anniversario della mia nascita. La seguente mattina, collocammo il corpo del poeta nel feretro, nel quale rimase esposto per ventiquattro ore. Più di dieci mila persone vennero a visitarlo: alcune lacrimavano; altre si fermavano estatiche a contemplarlo. Quella fredda immobilità da una parte, quella confusa agitazione dall’altra, quelle preghiere, quei lamenti in mezzo a quel tumulto, formavano un contrasto singolare, ed istillavano nel cuore una dolce e misteriosa melancolia. Il dì primo di febbraio, il corpo fu condotto alla chiesa delle Scuderie Imperiali, nella quale ebbe luogo la funzione funebre. I più illustri personaggi della capitale, e molti ambasciadori delle potenze estere, vollero essere presenti. Il terzo giorno ci adunammo per l’ultima volta intorno a quelle care reliquie; fu cantato l’offizio; fu deposto il feretro in una slitta che partì a mezza notte. La seguii per qualche tempo cogli occhi al lume di luna; poi svoltò una cantonata, e persi di vista per sempre tutto quello che in Puschin era terrestre.

«La slitta attraversò il borgo di Micailoschi, e passò davanti alla piccola villa di Boldino nel governo di Pscoff, e sotto ai due pini che il poeta ha cantati.1 Giunse al convento di Sviatogorschi la sera del 5 febbraio. Il dì seguente, i monaci cantarono l’offizio, e inumarono il corpo nel terreno scelto dal poeta medesimo, presso alla fossa di sua madre.»

  1. Vedi a pag. 163 di questo volume.