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capitolo sesto 295

La contraddizione era proprio finita e per sempre. Otto giorni dopo, Pio IX fuggiva celatamente da Roma e riparava a Gaeta. E, di là, costretto a rinnegare tutto il suo passato, malediceva r amnistia, la riforma, la costituzione; egli aveva scelto: tornava prete, restava quel che, ineluttabilmente, doveva restare: restava Papa; in nome degli interessi politici del Papato, invocava gli aiuti di quattro eserciti stranieri, i quali, seminando le stragi e gli esterminii dinanzi a loro, sottomettessero i suoi sudditi, che avevano scelto essi pure ed erano restati ciò che dovevano restare, liberali ed italiani e che, dopo avere solennemente dichiarato finito il dominio temporale dei Papi, con disperata energia, con mirabile valore, si opponevano alla sua restaurazione.

A riassumere i principali giudizi che di lui portarono gli uomini più eminenti del tempo suo e i più valorosi storici che scrissero dopo, dirò, anzitutto, che del Rossi favella, in più luoghi

    partenza del Papa. Senza esaminare se il dare le dimissioni, ossia fuggire, sia un buon metodo di combattimento, del che — trattandosi di una questione in gran parte subiettiva — erano giudici quei signori, importa, per la storia, vedere se e come potessero dirsi rappresentanti del popolo ed anche degli elettori inscritti nelle liste quei deputati dimissionari. Vediamolo, sulla scorta dei verbali delle elezioni dei 100 collegi elettorali dello stato romano nel 1848, esistenti, raccolti in apposita busta, come già dissi, all’Archivio di stato di Roma. Il Duca Massimo di Rignano era stato eletto con 61 voti su 428 inscritti; l’avvocato Clemente Giovannardi con 71 voti sopra oltre 460 inscritti; il Marchese Carlo Bevilacqua rappresentava 57 elettori su 417 iscritti; il Conte Giovanni Massei 47 votanti sopra 411 iscritti, il Conte Giovanni Marsili 46 sopra 610; il Marchese Annibale Banzi 28 su 492 e l’avvocato professore Andrea Pizzoli 26 su 519. E bisogna leggere la lettera di dimissione del Pizzoli, per vedere con qual tono parlasse delle intenzioni dei suoi elettori e del Mandato ad esso affidato questo rappresentante di ventisei voti su cinquecentodiciannove elettori iscritti! Dicevo dunque il vero io quando affermavo che il partito dottrinario o moderato, benchè composto di egregi uomini e di alcuni illustri come il Minghetti, il Farini, o valorosissimi come il Pasolini, il Pantaleoni, non esisteva come partito organico e vitale negli stati romani; quando affermavo che esso sorse artificialmente nella luna d miele di Pio IX., visse effimeramente per la potente influenza di Pellegrino Rossi e si dissipò completamente dopo la morte di lui!

       Detto ciò, per dovere di scrittore obiettivo e per rimettere le cose a posto, in omaggio alla santissima verità, sul fondamento di documenti e di cifre, io non solo non mi associerò alle considerazioni che, a proposito del partito moderato romano, fa il Conte D’Ideville, ma anzi quelle considerazioni dovrò relegare, per conto mio, fra i tanti avventati ed erronei giudizi da cotesto scrittore messi fuori, con imperdonabile leggerezza, e di alcuni dei quali ho fatto menzione. Potranno esser vere la inesperienza, la inettitudine e la debolezza di quegli uomini, ma non sono vere la loro ambizione, le loro ipocrisie e gl’intrighi di cui il D’Ideville li accusa, in una nota a pag. 163 del suo libro Le Comte Pellegrino Rossi, ecc, più volte citato.