Orlando furioso (1928)/Nota/IV. La nostra edizione

IV. La nostra edizione

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Nota - III. Differenze saltuarie da esemplare ad esemplare
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IV

La nostra edizione.

Noi riproduciamo, giovandoci dell’aiuto che possono offrire A, B e gli autogr. (α), l’ultima ediz. curata dall’Autore, e propriamente di C il Tipo 2° (v. Cap. II), dando la preferenza, lá dove gli esemplari discordano, a quelle lezioni che meglio rispondono alle ultime intenzioni del Poeta (v. Cap. III).

L’interpretazione dei segni d’abbreviazione non presenta in genere difficoltá. Solo vogliamo notare che per lo piú nelle forme apocopate della 1a pers. plur. l’Ariosto preferisce l’-n all’-m, es. dián XXXVII 39, 8, tardián I 19, 8, abbián XXV 74, 2, veggián XXXIII 3, 1, XXXIV 88, 6, sián XXXVII 39, 2; troveren VI 78, 1, perderen XXXVIII 56, 2; servián XXXII 99, 3; lascián III 6, 1, XLIII 6, 6, seguitian VII 7, 8, stián XXVI 122, 7 ecc. — mentre sono rarissimi gli ess. come conversiam IV 1, 6, miriam XXXIV 71, 4, abbiam XLII 28, 3; ragionerem XXXIV 57, 1, vedrem V 86, 6; andiam II 60, 5. E però, col Morali, in restiā XLIII 40, 2, abbiā XX 49, 1, debbiā XXVI 85, 3 ecc. si leggerá restian, abbián ecc. Credo si possa similmente avevā XXV 46, 8 risolvere aveván.

Parecchi Edd. son rimasti incerti sull’esatto valore di unqꝫ XXXI 74, 1, XXXV 8, 2. Il Ruscelli in entrambi i luoghi legge unque, Morali e Panizzi unqua: senza dubbio ha ragione il primo (cfr. unqꝫ XXIV 90, 1(:), dunqꝫ I 44, 5, 6 ecc., quantunqꝫ II 13, 7, piacqꝫ 31, 6, tacqꝫ IV 10, 1 ecc.).

Terminando, mi è gradito di potere in un luogo famoso correggere un’inesattezza in cui son caduti tutti gli Edd. Alludo al verso:

ch’all’herbe all’ōbr̃ all’ātro al rio alle piāte (XXIII 109, 5),

ove Barotti, Morali, Panizzi ecc. stampano ombra, lasciando intatto il resto, mentre Ruscelli, sempre coraggioso, va anche piú innanzi: [p. 428 modifica]Ch’a l’erba, a l’ombra ecc. Si capisce quanto sia piú conveniente il plurale (che giá occorre nella st. precedente:

     Liete piante, verdi erbe, limpide acque,
spelunca opaca e di fredde ombre grata),

onde il verso acquista piú ampio respiro; ma non è il caso di farne le difese, in veritá assai facili, perché l’abbreviazione va senza dubbio risolta in suo favore: cfr. honor̃ I 28, 2, par̃ II 2, 2, cor̃ XVII 26, 3, vigor̃ XIX 24, 8, Hettorr̃ 66, 2 ecc. ecc.

Circa la piú conveniente separazione delle parole, che molte volte sono senza ragione unite, o evidentemente male distaccate, basti accennare ai pochi casi controversi, o sui quali si può sollevar qualche dubbio.

L’uso delle stampe e degli autogr. è abbastanza uniforme per ciò che riguarda ben che, poi che, pur che ecc., con tutta probabilitá rispondenti alla pronunzia dell’Autore: e cosí abbiamo stampato, d’accordo coi migliori Editori. Credo invece che mal corrisponda al gusto del Poeta n’encrebbe XV 92, 3, XXXII 91, 7, XXXIX 47, 2, e sia da adottare ne’ncrebbe, che pur s’incontra qua e lá (cfr. XVIII 65, 7, XXXVI 27, 3), perché di encrescere non conosciamo ess., bensí solo di increscere VI 25, 5, XIII 5, 8, XXI 3, 5 ecc.

Occorre piú d’una volta ch’el (artic.) III 41, 6, X 78, 2, XIII 23, 3, XVIII 111, 5, XLV 91, 6, di fronte al normale che ’l. L’art. el nell’ultima ediz. è completamente abbandonato. Notisi ancora, particolarmente significativo:

ch’el sol C (Tipo 1°) che ’l sol C (Tipo 2°) I 37, 8;

e infine che un ch’el a diventa che’l nell’ediz. (IX 76, 6). Non c’è da esitare.

Varietá d’uso s’osserva pure nell’incontro del pron. relat. chi col pron. il: ora chi ’l XVII 7, 6, XXII 39, 8 ecc., ora ch’il II 55, 6, VIII 24, 4 ecc., senza contare gli ambigui chil. Abbiamo adottato chi ’l, sia perché è piú frequente, sia considerando che raramente l’Ariosto usa ch’ (= chi), sia infine per trovarsi chi l α XXXVII 40, 8.

Finalmente per su un notiamo s’un II 41, 7, V 81, 4 ecc., allato a su ’n XXIV 57, 2, XXXV 49, 8 ecc., per non parlare di sun. Forse in questo caso l’Autore preferiva la prima espressione. [p. 429 modifica] Invece nell’incontro in su un pare la vinca la seconda, ma non è sicuro:

in sun AB     in s’un C V 9, 3
in s un A     in sun B     in su ’n C XXIII 52, 8, XXXIII 122, 3.

Riservo da ultimo un caso abbastanza curioso, che si risolve con tutta chiarezza. In due luoghi del poema è nominato il Lambro:

Nel pian da l’Ambra e dal Ticino aperto XXXIII 13, 6.
E che con lui Lambra e Ticin si mesce XXXVII 92, 3.

Nel primo verso gli Edd. hanno corretto: da l’Ambro Ruscelli, dal Lambro Morali; nel secondo han lasciato come sta. Non c’era affatto da ritoccare. Il Poeta ha sempre ritenuto che il nome del fiume fosse l’Ambra. E se andiamo a vedere gli autogr., anche il secondo verso lo troveremo scritto cosí:

E che con lui lambra el ticin si mesce,

cioè: l’Ambra e ’l Ticin. Avvertito forse dell’errore, sulle prove di C con lieve mutamento, cioè togliendo l’artic. anche al maggior fiume, s’acconciò all’uso; ma quanto al verso «Nel pian da l’Ambra e dal Ticino aperto», non volle ritoccare. L’Ariosto, ormai lo sappiamo, corregge quando gli garba.

E veniamo agli errori di stampa, limitandoci, secondo il consueto, a quello che può importare. Molte volte fu omesso il segno d’abbreviazione. Ricordo anello VIII 2, 1, che ritengo sia da correggere. Nota che pur qui annello AB, come annel(lo) ABC III 69, 1, 70, 4, 71, 8, 73, 6, 74, 6, 8, ecc., e osservisi la correzione:

anel B annel C XXIX 64, 7.

D’altro lato ritengo sia stato posto per errore in haveā XIV 67, 2, cui corrisponde havea in AB, benché quasi tutti gli Edd. accettino la lez. di C.

Confusione di lettere abbiamo probabilmente in Ottone XVI 17, 8, corrispondente ad Othone di B. Certo l’Ariosto pronunziava Oto III 43, 5 (:), Oton(e), che sempre sono scritti Otho e Othon(e) III 27, 7, 31, 4, VIII 27, 1, XV 8, 8 ecc., VI 33, 6, VIII 28, 2 ecc.

E cosí in un luogo ben noto penso che s’abbia un semplice errore materiale, anziché un prezioso unico da registrar nei [p. 430 modifica]dizionari. Alludo alla tempestosa navigazione di Marfisa e dei compagni prima d’approdare alla cittá delle femmine omicide. Regna ormai sopra il mare, cessati gli altri venti, implacabile tiranno libeccio:

               Questo resta sul mar tanto possente,
          e da la negra bocca in modo esala,
          et è con lui sí il rapido torrente
          de l’agitato mar ch’in fretta cala,
          che porta il legno piú velocemente,
          che pelegrin falcon mai facesse ala,
          con timor del nocchier ch’al fin del mondo
          non lo trasporti, o rompa, o cacci al fondo (XIX 52).

L’ottava (salvo un peregrin 6 divenuto pelegrin), è passata intatta da AB a C: solo da notare che nel v. 3 in AB si leggeva corrente. I commentatori tacciono, forse perché ne san troppo i vocabolari. Ma per quanti tu ne sfogli, altro non trovi che questo: «Torrente dicesi anche la corrente dei marosi. Ar. Fur. XIX 52»; né della strana accezione si riesce a pescare alcun altro esempio. Ora giova osservare, per un rispetto, che l’Ariosto usa sempre torrente solo nel suo consueto significato (cfr. XX 106, 5, 108, 7, XXXVII 110, 1, XXXIX 14, 3); per un altro, ch’egli adopera corrente, contro l’uso generale, benché non manchino ess. (v. i Dizz.), al maschile:

Brandimarte il corrente in giro tolle XXXI 72, 5.

Pertanto io ritengo che l’accennato torrente (XIX 52, 3) non sia che una «lectio facilior» suggerita al tipografo dall’insolito corrente di genere maschile.

A distrazione di stampatore son pur propenso ad attribuire una lezione che si legge nell’esordio dei c. X, ove il Poeta dai casi sventurati d’Olimpia desume saggi consigli di prudenza ad uso del sesso gentile:

               E poi che nota l’impietá vi fia
          che di tanta bontá fu a lui mercede,
          donna alcuna di voi mai piú non sia
          ch’a parole d’amante abbia a dar fede (X 5, 1-4).

Cosí in C, e cosí Morali, Panizzi ecc. Ma l’autogr. ha Donne, e propriamente «Donne alcuna di voi mai piú non sia», senza alcuna virgola: la mancanza di segni ha fatto sí che lo stampatore [p. 431 modifica] leggesse od emendasse Donna alcuna; che cosí parrebbe a primo tratto doversi leggere. Compresa la causa probabile dell’errore, e considerando che il costrutto di C è non meno insolito che inefficace, mentre correggendo otteniamo un’espressione chiara e viva e rispondente al passo (cfr. anche il v. 7 della stanza che segue), non esitiamo ad accogliere la lez. di α. Giá il Ruscelli corresse in questo senso; poi, forti dell’autogr., il Barotti, il Lisio ed altri.

Potrebbe anche essere un errore di stampa, ma si può difendere, quel che si legge nel c. VIII. Alcina, avuto notizia della fuga di Ruggiero, fa dare all’arme e raccoglier la sua gente; ed una parte manda per quella strada che aveva preso il fuggitivo,

al porto l’altra subito raduna
e imbarca, et uscir fa ne la marina A

imbarca: et uscir fa ne la marina B

in barca, et uscir fa ne la marina C VIII 13, 4.

Mentre il Ruscelli, racconciando a modo suo, stampa L’imbarca, gli altri Edd. (Barotti, Morali, Panizzi) accettano la lezione di C. In AB si descrivono le tre azioni successive, raccoglier la moltitudine sul porto, imbarcarla, farla uscire al largo; e cosí ancora ha inteso il Ruscelli, pur senza consultare le prime edd. Non nego che qualche ragione si potrebbe anche avanzare in favore della lez. di C, ma mi par meglio rispondente al senso, che la moltitudine sia radunata nel porto, per subito imbarcarla, anzi che senz’altro in barca: sto dunque col Ruscelli, ma non aggiungo ad imbarca, che sarebbe un arbitrio, il pronome.

Invece, benché non possa nascondere le mie preferenze, vedendo concordi tutti gli Edd. (eccetto Lisio), rispetto una lezione cui forse gioverebbe un piccolo ritocco. Nella feroce isola d’Ebuda, ogni giorno alla vorace orca che viene al lido i crudi abitanti danno in pasto una donna od una fanciulla comprata o rapita da mercanti e corsari che vanno intorno per provvedere alle orribili fauci:

          che mercanti e corsar che vanno attorno
          ve ne fan copia, e piú delle piú belle (IX 13, 1-2).

Qui l’autogr.: «Ve ne fan copia: e pur de le piú belle», cosí nella minuta, salvo che in essa manca il punto doppio, come nella definitiva; e, osserva il Lisio, «assai piú chiaro mi sembra dare in [p. 432 modifica]abbondanza «soltanto» (pur) le piú belle, che darne in maggior quantitá». La trascuraggine di C, se di questo è il caso di parlare, sarebbe stata indotta dal vicino piú.

In gran numero di parole s’osservano omissioni di lettere, o lettere ripetute, o spostamenti. Non so se meritino un cenno i «chari rai» V 5, 5, che ad ogni modo si ricordano perché un Ed., il Lisio, accetta questa lezione di C, e la considera correzione da «chiari rai» AB: mentre per tutti gli altri, con miglior giudizio, si tratta semplicemente d’una svista dello stampatore.

Fonte d’errore certo sono state le minute correzioni interlineari e marginali di cui doveva esser fitto l’esemplare mandato in stamperia. Certi grossi ed evidenti svarioni, come nel verso: Di cui giá il mio cugino Malagigi (: -ino) XLIII 55, 2, furono giá corretti nel Cinquecento, e non occorre spendere parole. Piuttosto meritano ricordo quelle inesattezze sotto le quali è lecito ravvisare buone lezioni definitive, degne d’entrare nel testo. Certo prigioneira XXXVI 20, 8 (che in AB era prigionera) sará da correggere prigioniera (benché non manchino ess. di prigionero -a ABC XXX 39, 7, II 65, 8), poiché altrove abbiamo questa correzione:

prigionera AB          prigioniera C XIV 52, 7,

che appunto spiega l’i fuor di posto1.

È uno sproposito copruono XIV 83, 3 (cui corrisponde coprono AB); che se pure nella seconda ediz. compare truovate IV 55, 5, ritruovaro XII (XIV C) 64, 2, sempre son corretti nella terza, né in alcuna si trova es. di dittongo in penultima di sdrucciolo. Deve trattarsi di questo. Sovente il Poeta corregge copra, scopre ecc. di AB, in cuopra, scuopre ecc. (cfr. VI 71, 3, X 46, 2, XIV 99, 8, XVIII 88, 2 ecc.); ed è pertanto probabile che il piccolo u aggiunto a coprono sia stato mal collocato dallo stampatore.

Son correzioni fuor di posto. Altre son da considerare come correzioni incompiute. Ricordo ciaschadun XLI 29, 7, ove l’insolita forma ortografica fa pensare che ciascadun di AB, ritoccato dall’Autore per farne un ciaschedun, non sia stato inteso a dovere. L’Ariosto non avrebbe mai corretto ciascadun in ciaschadun; di norma s’osserva proprio l’opposto: chara AB cara C XLIII 30, 4, charatteri AB caratteri C IV 38, 2, frescha AB fresca C VII 22, 7 ecc. [p. 433 modifica]

Ho pure motivo di ritenere che qualche emendamento sia venuto a passare da una parola ad un’altra. S’osservi questo verso:

che ti faran piacere il venir mio A
piacer B
piacer il venire mio C IV 9, 4.

Gli Edd. (Ruscelli, Morali ecc.) s’accontentano di correggere venir, senza domandarsi se l’errore non significhi qualcosa che a tutta prima non appare. Noto che, dopo incertezze frequenti nelle prime stampe, l’Ariosto preferisce decisamente nell’ultima, dinanzi a certe parolette come il, in ecc., le forme piene: andar il palafren B andare C I 36, 6, lasciar il campo ABC (Tipo 1°) lasciare C (Tipo 2°) 67, 8, cader in terra AB cadere C II 56, 3 ecc. La menda accennata ci testimonia pertanto una correzione fraintesa, sí che sará meglio leggere: «Che ti faran piacere il venir mio».

I Cinquecentisti ci han lasciato poco o nulla onde si possa trar partito, come giá si diceva, per ritoccare il testo del Furioso. Una testimonianza, ad ogni modo, merita d’essere ricordata. Il famoso passo delle beltá d’Olimpia è nell’autogr. (XI 70):

               Se fosse stata ne le valle Idee
          Vista dal pastor phrigio: io non so quanto
          Venere havesse havuto fra le Dee
          De la maggior bellezza il pregio e il vanto...

mentre in C si legge:

               Se fosse stata ne le valli Idee
          Vista dal pastor Phrigio, io non so quanto
          Vener, se ben vincea quelle tre Dee
          Portato havesse di bellezza il vanto...

La lez. di C, che pur tanto s’avvantaggia su α, contiene un errore. Simon Fórnari nella sua Spositione sopra l’O. F. (Firenze, 1549), dopo essersi ingegnosamente provato a difendere il testo, soggiunge concludendo: «Ma con maggiore agevolezza il nodo si solve sapendo, secondo io hebbi da M. Virginio, il verso essere depravato da’ stampatori, e havere il poeta lasciato scritto: Vener se ben vincea quell’altre Dee» (p. 50). Tutti gli Edd., e credo con ragione, hanno accolto l’emendamento.

Molte cose s’attribuiscono agli stampatori, ma chissá quante volte la colpa è proprio di lui, di messer Ludovico, un distrattone [p. 434 modifica]cosí distratto, che piú non si potrebbe dire. Giá il buon Fórnari vide l’opportunitá d’accompagnare l’Apologia del suo poeta con un capitoletto sopra «alcune contradittioni con le solution loro» (Spositione cit., p. 49 ss.), le quali «solution», naturalmente non sono quelle del Borgognoni. Gli autogr. darebbero ben altro ad un raccoglitore di quisquilie! Ad ogni modo, si tratta d’errori che in gran parte tu correggi a prima vista. Il piú grosso è quello che farebbe andare Ruggiero lá dove non ci risulta che Astolfo avesse un tanto compagno:

tosto ch’entrò Ruggier nel divin loco XLIV 25, 8

.

La svista era giá in B: di chi la colpa? Comunque, giá nel Cinquecento fu opportunamente corretto ’l guerrier, e sta bene.

Se sono frequenti (chiunque ne abbia a render conto, che non si saprá mai, e importa poco) gli errori di stampa, assai piú lunga, a volerla tutta descrivere, sarebbe la serie dei presunti errori, cioè di quelle parole che furono ritoccate dai successivi Edd. con la pia intenzione di far del bene all’Ariosto. Basti un paio d’ess. Tutti ricordano nella scena di Zerbino moribondo ed Isabella l’ottava «Ma poi che ’l mio destino» in cui l’amante versa il suo ultimo e piú amaro strazio:

               Ma poi che ’l mio destino iniquo e duro
          vol ch’io vi lasci, e non so in man di cui;
          per questa bocca e per questi occhi giuro,
          per queste chiome onde allacciato fui,
          che disperato nel profondo oscuro
          vo de lo ’nferno, onde il pensar di vui
          ch’abbia cosí lasciata, assai piú ria
          sará d’ogn’altra pena che vi sia (XXIV 79).

Noi, col Fanizzi, abbiamo accettato onde di C. Il Ruscelli, guidato dalla sua grammatica, corregge ove (ch’era del resto la lez. di AB), e altrettanto fa il Morali. Ma negli scrittori ferraresi onde per «ove» è frequentissimo (cfr. Mambriano I 52, 4, II 16, 3 ecc.), e se anche i grammatici lo condannano, sarebbe facile farne le difese. L’Ariosto s’è permessa una lieve licenza stilistica, per rialzare i suoni d’un verso ch’era un po’ fiacco, e animarlo d’un affetto piú vivo.

Rileggiamo quella celebre introduzione che vanta le virtú [p. 435 modifica] troppo spesso misconosciute delle donne. Detto di quelle che furon valorose in arme, soggiunge il Poeta:

               E di fedeli e caste e saggie e forti
          stato ne son, non pur in Grecia e in Roma,
          ma in ogni parte ove fra gl’Indi e gli Orti
          de le Esperide il sol spiega la chioma:
          de le quai sono i pregi agli onor morti,
          sí ch’a pena di mille una si noma;
          e questo, perché avuto hanno ai lor tempi
          gli scrittori bugiardi, invidi et empi (XXXVII 6).

Ruscelli e Morali correggono e gli onor, per non aver capito che il verso significa «i pregi delle quali sono morti agli onori», cioè, non hanno il lor debito riconoscimento; il Panizzi lascia come sta, e fa benissimo.

Un costrutto molto naturale per chi ha qualche famigliaritá coi nostri vecchi scrittori:

               Orlando un suo mandò sul legno, e trarne
          fece pane e buon vin, cacio e persutti;
          e l’uom di Dio, ch’ogni sapor di starne
          pose in oblio, poi ch’avvezzossi a’ frutti,
          per caritá mangiar fecero carne,
          e ber del vino, e far quel che fêr tutti (XLIII 196),

è riuscito ostico ai moderni (Morali, Panizzi), che han corretto: «all’uom di Dio». Nota che la lez. è identica in tutte e tre le edd.

Se in questi e in altri luoghi è evidente la ragione del conciero, ve n’ha pure di quelli che non si spiegano. Ne cito uno solo. Dopo la disfida di Lampedusa, i guerrieri vincitori vanno ad un vicino scoglio, allo scoglio dell’eremita, ove sentono da lui alti conforti ed esortazioni a passar mondi per questa morta gora

          c’ha nome vita, che si piace a’ sciocchi,
          et alla via del ciel sempre aver gli occhi (XLIII, 195).

Cosí in ABC, e cosí nell’ediz. Ruscelli. Invece Morali e Panizzi: «alle vie del ciel». Perché?

Sciolte le abbreviature, staccate le parole, liberato il testo dagli errori, che sono numerosissimi, se anche solo s’è accennato ai pochi sui quali è lecito qualche dubbio, conviene che si discorra dell’ortografia seguita nella presente edizione. [p. 436 modifica]

Abbiamo naturalmente distinto l’u dal v, messo dell’ordine nelle maiuscole, ecc. Su altre innovazioni, che sono altrettanto ovvie, dirò poche parole, incominciando dall’h. Soleva dire messer Ludovico, che «chi leva la h all’huomo, non si conosce uomo, e chi la leva all’honore non è degno di onore». E piú altre cose soggiungeva, per testimonianza del Giraldi2, in difesa della h. Lasciamo stare questa grave sentenza (noi, di cosa senza valore, diciamo che non vale un’acca), e basti notare che, liberandosene a tempo e luogo, l’ortografia italiana s’è fatta piú agile e sicura di quella d’altre lingue romanze. Piú d’una, dietro vane superstizioni latineggianti, senza giovare alla pronunzia, offende con le inevitabili contraddizioni la storia, e all’ignorante presenta continue occasioni d’errore. La poesia è suono e spirito, né fu scritta per divertir l’occhio, salvo quella che giuoca sugli acrostici, le rappresentazioni bizzarre ecc., che del resto non è poesia.

Ciò che stava bene ed era opportuno nel Cinquecento, in quell’etá cosí classicheggiante, che se tollerava il volgare, lo faceva solo a condizione che fosse coperto d’un paludamento romano, oggi potrebbe spiacere, anzi recar danno all’opera, che è fra le piú vive della nostra poesia. Alleggerire il Furioso di questa vana scorza è doveroso, e l’hanno inteso i migliori, e non occorre insistere.

Tuttavia in un punto ho fatto, se si vuole, della pedanteria; ma non me ne pento. Rispetto, col Morali e col Panizzi, l’h- di hara XLIII 58, 6, se anche molti fra i moderni preferiscano ara: voglio lasciare a questo audacissimo latinismo, non mai usato, se ne togli quest’es., dai classici italiani, le sue antiche sembianze, sí che nemmeno per un istante possa essere frainteso dal lettore. Prima di finirla con l’h, sebbene qui il latino non c’entri, aggiungo che i moderni, dandole spietatamente la caccia, hanno regalato all’Ariosto un errore d’ortografia in una lingua ch’egli sapeva: se chiama col suo nome spagnuolo il grande navigatore, perché guastarglielo? Ho dunque stampato: Hernando Cortese XV 27, 5.

Se il testo è stato alleggerito delle h inutili, parimente i rari y son resi con i, e con c il k di kalende XVII 68, 3, XXXIII 27, 6. Si risolve in f il ph; e pt, solo in Neptunno VIII 54, 2 (ma Nettunno XI 44, 8, XV 19, 8, XLV 112, 4), bd in subditi [p. 437 modifica]XXXIII 106, 7 (ma suddito -i XLIV 102, 2, XXXVII 117, 3 ecc.), dm in admette XXIV 38, 7 (ma Ruscelli ammette), nm in inmantinente VI 16, 6 (ma immantinente II 55, 5, VIII 12, 7 ecc.), dv in inadvertenza II 39, 3, XI 7, 5 (ma advertenza XX 2, 3, XXVII 4, 3, inavvertita 4, 3 ecc.), saran resi rispettivamente con tt, dd, mm, vv. Solo sovienmene XXXII 2, 7, pur conoscendo tiemmi XX 63, 3, conviemmi XXX 17, 3, non fu, d’accordo coi migliori, ritoccato.

Piú lungo discorso converrá dedicare allo z. Circa la pronunzia dell’Ariosto, nelle rime è distinto molto bene, secondo l’orecchio toscano, il suono sordo dal sonoro; la sola infrazione parrebbe sozzo (: mozzo : gozzo XXI 54), sozze (: nozze : mozze XLVI 109), ma tale non è, sia che ci si riferisca all’uso dei classici, o al dial. di Siena, se non addirittura al fiorentino del tempo3.

Quanto al suo proprio uso ortografico, contro il Fortunio e il Bembo che quasi senza eccezione pongono la lettera geminata, si vede dagli autogr. che il Poeta, salvo qualche distrazione, scrive per un rispetto mezo (medius), per un altro pezzo ecc. La distinzione accennata s’osserva pure in C con altrettanta regolaritá (estremamente rari gli errori come Azi III 32, 1, fatteze XLIII 16, 7, attizar XI 46, 6, che era scritto bene in α, attiza (: -izza) XXXV 71, 2, XLII 56, 3), e del resto non è infrequente presso gli stampatori del Cinquecento4; e però possono sorprendere le grafie sozopra XIV 128, 7, XVII 96, 4 ecc. (ci si attenderebbe sozzopra, che invece occorre una sol volta, XVIII 182, 8), e Svizer(o) -i XXXIII 36, 5, XVII 77, 2, 74, 6, XXXIII 43, 3, di cui non so darmi esatta ragione.

Questa particolaritá ortografica non riuscí nel Cinquecento, e tanto meno appresso, ad imporsi, e si comprende, chi pensi che, mentre considera solo una categoria di sorde e sonore, ha per di piú il difetto di mancare d’un mezzo adeguato d’espressione. L’uso della lettera geminata, sia pure con qualche incertezza, ha dunque finito per trionfare.

Torniamo al Furioso. Il Ruscelli stampa come C, salvo a correggere qualche incongruenza (cfr. III 32, 1, XLIII 16, 7 ecc.), e a conformare alla norma sozzopra XI 128, 7 ecc. e Svizzero [p. 438 modifica]XXXIII 36, 5 ecc. Dei moderni, mentre il Morali (col quale m’accordo, perché, ripeto, la scempia e la doppia non suggeriscono oggi al lettore quello che gli stampatori del Cinquecento intendevano di suggerirgli) conforma l’ortografia all’uso corrente; il Panizzi ripete in tutto C, e persino nei manifesti errori. Per qualche nome di grafia incerta, come Ezellin(o) III 33, 1, 32, 8, Ezzellin XVII 3, 2, e in pochi altri, per ovvie ragioni d’opportunitá, come Bevazano XLVI 15, 7, Obizo III 32, 1, 38, 7, 40, 3, Guasparro Obizi XLVI 15, 5 (anche il Fortunio vuole si scriva cosí), Bozolo XLVI 7, 1, e poi Buzea XXXIII 99, 2, Eviza 98, 6, Feza 99, 1, Zizera XXX 10, 2, si ritenne conveniente seguire C.

Per concludere, abbiamo dunque ammodernato lá dove il testo senza suo danno, anzi vantaggiosamente, viene a presentarsi in forma piú snella e piú chiara; serbandoci d’altra parte rispettosissimi, e forse piú di quanti Edd. ci abbiano preceduti, in tutto ai suoni della poesia dell’Ariosto.

E cosí, se per es., ti, tti in parole come spatio I 38, 5, condition II 73, 5, destruttion I 6, 6, instruttion IV 21, 4, differentia I 23, 3, attention 49, 1 ecc. si traducono senza esitazione; solo per il dubbio che l’Autore seguisse ancora la vecchia pronunzia5, abbiamo conservato mercantie XVIII 135, 2. E coi piú diligenti Edd. si stampa Dictea XX 14, 8, 15, 2, absorto ABC XIV 6, 5, XLIII 174, 5, Absalone XXXIV 14, 5, Clitemnestra XX 13, 2. E persino in un caso fu da noi restituito un tratto latineggiante particolarmente caro al Poeta. Altro non trovi nel libro, e son parole usate sovente, che absente, absentia ABC XVIII 2, 1, 27, 7 ecc., XXI 22, 2, XXVIII 16, 5 ecc., salvo un assente XLIV 13, 4. È probabile che sia dovuto ad arbitrio di stampatore: notisi che anche qui l’autogr. ha absente.

Infine, come han fatto i migliori Edd. delle Satire e del Furioso, si conserva et innanzi vocale, con tutta probabilitá rispondente alla pronunzia dell’Autore (vedi le ottime osservazioni del Morali nella Pref., p. xxxii n.).

Nel ritoccare il testo, come giá s’accennava, abbiamo proceduto con gran cautela; e se raramente s’è vista l’opportunitá di dare alle parole altra forma da quella che presentano in C, le ragioni ormai sono conosciute. [p. 439 modifica]

Chi esamina minutamente il Furioso vede che siamo ben lontani da quell’unitá idiomatica che s’osserva per es. nelle Prose del Bembo. Il perché fu giá accennato. L’Ariosto si creò, senza preoccupazioni di scuola, un magnifico strumento d’espressione, molto originale e molto a lui caro; ed obbedí ai grammatici, ma di mala voglia e a capriccio. Scriveva come il suo genio gli dettava, e poi correggeva qua e lá e lasciava correggere. Ma una revisione, a dir cosí, sistematica, tale da accontentare un pedante, non s’ebbe mai. E cosí troviamo espressioni che sanno molto del dialetto, che in un luogo son corrette, in altri no, mentre pure fra la seconda e la terza ediz. si sa che trascorse un decennio.

Sarebbe agevole, almeno nella gran maggioranza dei casi, uniformare. A questo partito s’attenne il Ruscelli, senza curarsi affatto d’indovinare i gusti dell’Ariosto (o dei suoi consiglieri); poiché, come grammatico infallibile, correggendo era ben sicuro di rendere un gran servizio al suo poeta. Fu ben pettinato, e se lo meritava, a tacer d’altri, dal Morali (Introduz., p. vii ss.). Piú rispettoso si dimostra il Barotti, ma in ogni caso è pur egli ben lungi da una rigorosa fedeltá; né piú del Barotti può vantarsene il Reina. Chi per primo ritornò scrupolosamente all’ediz. del ’32 fu il Morali, se pure in parecchi luoghi muta senza avvertire, ed in altri avvertendo, e non sempre forse con ragione. Dietro le sue orme cammina quel valoroso filologo che fu il Panizzi, superandolo in esattezza.

Inutile dire che fu da noi rispettata in tutto, o quasi, la gran varietá che s’osserva nella lingua di C, certi di far cosa gradita a chi intenda gustare nella sua purezza la poesia dell’Ariosto.

Continue sono le lusinghe che offre il testo del Furioso a quelli che un poco sentono la vanitá di correggere. E sarebbe, ripetiamo, cosí facile. Basterebbe andar dietro alla «consuetudo corrigendi»: il male si è che con l’Ariosto le consuetudini contano piú o meno. Cito solo un es. Il Morali trova in C qualche sanza XXIII 90, 2, 120, 1, XXV 11, 1, e corregge senza. Egli dovette pensare che ai sanza delle prime edd. l’Ariosto diede la caccia, e ne rimutò non so quanti: parrebbe dunque abbastanza legittimo il procedimento. Ma nota che il Poeta, pur buttando a mare molti sanza, si guardò bene dal rifare in quelle ottave che gli piacevano, ove era caduto sulla rima (cfr. XVIII 27, 5, XX 20, 5, XXXII 99, 1 ecc.). Si vede dunque quanto sia pericoloso voler mettere dell’ordine, se ordine si può chiamare, in questa faccenda. [p. 440 modifica]

Non che proprio tutto si debba lasciare come sta. Di fronte al normale Algiere, un Algere XIV 116, 7 si corregge senza difficoltá, e cosí Fiordeligi VIII 88, 7, cosí Dodon XLI 4, 5, Unghiardo XLV 11, 8, Marsiglio XIV 107, 8. Le ragioni sono ovvie: si tratta di distrazioni, di chiunque siano, o del sopravvivere di certe abitudini ortografiche contro ogni volontá dell’Autore, come per ciò che riguarda Marsiglio. In AB il re di Spagna è generalmente chiamato Marsiglio, qualche rara volta Marsilio (XIV (XVI C) 71, 2, XVI (XVIII C) 41, 3). Ora, ciò che prima era eccezionale diventa normale nell’ultima ediz., come si vede da molti luoghi:

Marsiglio AB Marsilio C I 6, 1, XXV 7, 3, XXXIX 74, 1 ecc., e soprattutto dalla circostanza, che quante volte occorreva in rima, tante il passo fu mutato (cfr. XVIII 31, 5, 156, 3 ecc.). E tuttavia, come s’accennava, ancora un Marsiglio da B cade in C. Le intenzioni dell’Ariosto non lascian luogo a dubbio6. Ma dove proprio non si riesce a scoprire un intento chiaro, anzi è certo che il Poeta ondeggiava tra questo e quel suono, perché ritoccare? S’osservi per es. Ingilterra XIX 56, 6, Inghilterra II 25, 7, VI 45, 5 VIII 25, 5, X 72, 8, 75, 6 ecc., Ingleterra IX 16, 4 (anche α), Inghelterra 93, 1 (c. s.), XXVI 31, 7. Il Morali ha sempre corretto Inghilterra.

Nei pochi ritocchi io tengo conto specialmente della circostanza ben nota, che l’Ariosto non passa quasi mai da un’espressione giá «italiana» in B o in α, a quella dialettale. Quando corregge, di norma segue la via opposta. Ad AB è ritornato il Panizzi sostituendo dormeno ad un insolito dormano IX 3, 7. Per spiegare questo dormano si può far l’ipotesi che l’Ariosto nello esemplare di B dato in stamperia abbia corretto dormeno in dormono, che è conforme alle sue abitudini, e la correzione sia stata fraintesa. Per questo ho accolto il ritocco del Ruscelli e del Morali; ma si poteva lasciar come sta, considerando che la lez. di C è condivisa da α.

Le maggiori difficoltá per il critico vertono sulle scempie e le doppie. La ragione della nostra incertezza nasce da questo, che i limiti tra le responsabilitá del Poeta e quelle dei suoi [p. 441 modifica] stampatori, ch’erano suoi compatrioti o di quelle parti (gli regalano gato IV 23, 1, tuti XVII 124, 1, fato XXI 46, 7, asciuto (: -utto) XL 10, 6, asciuti XV 40, 6, frascheto (: -etto) XVIII 143, 3, cicaleta XIV 40, 6 ecc.), sovente non si possono tracciare con una linea sicura.

Ad ogni modo, tenendo ben presenti i suoi gusti quando scrive e quando corregge, e applicando quei criteri cui s’accennava; d’alcune espressioni anormali, che assai probabilmente non sono da attribuire a lui, o sono semplici distrazioni, si può, anzi credo si deve liberare il testo del Furioso. Eccone un elenco: apresso XXXVIII 36, 8: ma appresso B, e cosí in α (XXXVII 40, 2, 85, 6 ecc.); s’aprende XLV 30, 5: ma s’apprende α; accetasse XXIX 9, 8: ma accettasse B; rassetossi XXXIV 69, 3: ma rassettossi B; affretar X 49, 3; s’affreta XXX 26, 6: ma se affretta B, e cfr. affrettai α IX 92, 8; spicar XLIV 15, 8: ma spiccar α; minacie XXII 61, 6: ma minaccie B; abbraciare XI 62, 7: ma abbracciare α; dislaciato XLI 98, 5: ma dislacciato B; guerregiar IX 23, 2: ma guerreggiar α; assasino XXI 51, 6: ma assassino B, e cfr. assassin α IX 75, 8; falace XXXIII 63, 3, ma fallace B; oribil 12 80, 6: ma horribil α X 30, 4, XI 36, 8. Inoltre: asseddiati XXIV 108, 6: ma assediati B; riccordo XXVI 113, 3: ma ricordo B; procacciargli XLV 6, 6: ma cfr. procaccia α XXXVII 65, 6; litto XXII 5, 6 (e cosí XXXIII 39, 8): ma lito B, e cfr. lito α IX 60, 1, X 18, 3 ecc. Superfluo poi aggiungere che certi nomi che occorrono con frequenza sono stati ricondotti alla forma consueta: cosí Albraca XI 3, 8; Rugiero VI 64, 3; Feraú II 22, 7, XII 11, 3, 59, 77, XXVII 31, 8, 69, 7; Circasia XII 41, 1, XIX 31, 1Aggramante XXXIII 77, 4; Mattalista XVI 67, 5; Affrica XLIV 19, 4: Fallerina XLI 74, 8; Pinnabel XX 115, 2, Dordonna XLVI 119, 6. Non che l’Ariosto abbia raggiunto, nemmeno per Ruggiero, una forma ortografica definitiva: ma le sue intenzioni risultano bene da C; e in ogni caso gli si rende indubbiamente un servizio correggendo. E parimente, quando nella stessa stanza, o persino nello stesso verso, l’espressione ortografica è varia, né se ne vede la ragione, e forse manca, abbiamo ritoccato: fugia XIV 124, 6, allogiarvi XXXII 65, 8; diffendi XVIII 149, 3; Tessira XIV 13, 6.

Gli Edd., anche i piú scrupolosi, in questa faccenda delle doppie e delle scempie si son creduti pienamente liberi di fare a [p. 442 modifica]modo loro. Cito solo un paio d’ess. È arbitrario cappel(lo) per capel(lo) IV 46, 7, III 56, 2, XII 79, 7, XLVI 11, 2; che cosí scrive sempre l’Ariosto. E del pari Mecca di Morali, Panizzi ecc. per Meca XV 95, 3; che di questa pronunzia s’hanno molte prove, né diversamente si legge nella Spositione del Fórnari, né diversamente stampa il Ruscelli, che pure accomodava le doppie alla toscana. E sempre s’osserva la scempia in Ada XVII 4, 8, XXXVII 92, 4 (anche α), Giaradada XXXIII 38, 2. E gli Edd. correggono: perché? È inutile continuare. Son piccolezze, ma in tal numero, che finiscono poi per dar nell’occhio.

Qualche volta, nella furia di ritoccare, gli Edd. han fatto dire al Poeta cose che non pensava. Nell’episodio di Olimpia, mentre della donna appena uscita dal pericolo grande Oberto contempla le belle nuditá, Amore scaglia la sua temprata saetta

          contra il garzon, che né scudo difende
          né maglia doppia né ferigna scorza (XI 66, 5-6).

Ruscelli, Morali, Panizzi correggono ferrigna; solo il Lisio lascia come sta. Credo anch’io sia meglio seguire C, che è confermato da α, e intendere scorza, o armatura (cfr. XIX 63, 5), non giá «di ferro», ma «di fiera», pensando a certi impenetrabili usberghi, come la scagliosa scorza, la dura scorza di Rodomonte (XVIII 9, 3, XXVI 123, 3), fatta d’una pelle di drago (XIV 118, 2, e cfr. XLVI 119, 1). Occorre altrove ferrigno «di ferro», ma è scritto con la doppia (XLII 1, 1).

Poche parole sulla punteggiatura. Se osserviamo le prime 10 ottave di AB, vedremo qualche rara virgola in A, cui corrisponde il punto doppio in B (1, 4, 5, 3, 7, 6, 8, 8, 8), che a sua volta talora aggiunge il segno che ad A mancava (10, 7), altre l’omette (7, 1). Piú innanzi troviamo la stessa condizione di cose. A questi punti, come s’accennava, va aggiunto l’interrogativo, per lo piú segnato bene (I 19, 5, 44, 5, 6 ecc.), benché non manchino bizzarrie (26, 7-8).

Senza dubbio A e B rispecchiano abbastanza fedelmente le abitudini dell’Autore. Il quale, quando componeva, non puntava i suoi scritti, o solo di tempo in tempo, a capriccio, badando appena al punto interrogativo. Gli autogr. s’aprono con una serie di 10 ottave nelle quali invano tu cercheresti il piú piccolo puntolino. Poi qualche rara virgola, qualche punto doppio (che fa lo [p. 443 modifica]stesso), e l’interrogativo dove occorre. Tuttavia nelle belle copie mette un po’ piú di cura, segnando persino l’apostrofo; ma ricade ad ogni passo nelle solite distrazioni. La puntazione che s’osserva in C, del tutto insufficiente, credo sia in gran parte dovuta a lui.

Il Ruscelli interpunge bene da grammatico, e, secondo l’uso dei tempi, tempesta i versi di segni: sono i segni che usiamo ancor noi, salvo che manca quasi affatto il punto doppio e affatto lo esclamativo8. Tutte le ottave si chiudono col punto fermo.

Spetta al Morali il merito d’avere appuntato per primo con gran cura il testo del Furioso. Parrá forse ad alcuno ch’egli abbondi nei segni; ma ritengo che in generale abbia fatto bene.

L’Ariosto può anche sembrare scrittore facile, alla prima apparenza. Ma la sua è una facilitá tutta d’elezione e di grazia, lontana dal parlare corrente ed usuale. Il suo discorso poetico chiede alla voce continue pause e sfumature, che segnino i riposi e il variare di quella fantasia cosí volubile a un tempo, e cosí calma e pacata, cosí compiaciuta dei particolari piú rari e minuti, della dovizia dei toni, del perenne rifiorire delle rime, e fin quasi della bellezza delle parole. Però la stampa vuole una puntazione adeguata, copiosa e sottile, che aiuti l’occhio a non perdersi negli ampi disegni e nelle ambagi dell’ottava, lo richiami ai piú piccoli tratti che hanno rilievi e incanti particolari: insomma illumini sulla pagina le libertá, le grazie, talvolta anche le insidie di una sintassi che tiene del latino non meno che del volgare aulico e del dialetto.

Noi ci siamo per lo piú attenuti all’ediz. Morali, salvo ad alleggerire qua e lá o del tutto ad allontanarcene, sempre quando ci parve che l’intelligenza del testo e l’arte ne avessero a guadagnare. Cito un paio di passi.

In VI 20, 8 il Morali e il Panizzi, con lungo seguito, pongon la virgola in fondo al verso, cioè dopo molli. Ma è superfluo dire (cfr. L’O. F. di L. A., con note di A. Romizi, Milano, 1900) che le pianure, i colli, le acque e i prati non posson logicamente essere soggetti di facean riparo (21, 5). I vv. 7-8 della st. 20 descrivono con largo giro la prima visione lontana, quasi panoramica, dell’isola incantata; nella seguente, l’isola s’avvicina, si [p. 444 modifica]determina, il paesaggio prende aspetti piú intimi, e direi, piú famigliari. Ad ogni buon conto (si cita per quel che vale) noto che dopo molli in C abbiamo il punto fermo.

In XI 65, 8 certi Edd. dopo lume segnano semplicemente la virgola (Morali) o il punto e virgola (Patrizzi). Credo stia meglio il punto fermo, come ha C. La comparazione si chiude nel cerchio della stanza: l’ottava seguente non vede piú che Amore tutto intento all’opera sua.

Quando Melissa per trarre in inganno Agramante e fargli rompere il duello che si combatte disuguale fra Ruggiero e Rinaldo, si presenta a lui con le sembianze di Rodomonte, fra l’altro fa dire al re d’Algeri:

               Non si lassi seguir questa battaglia
          che ne sarebbe in troppo detrimento.
          Su Rodomonte sia, né ve ne caglia,
          l’avere il patto rotto e ’l giuramento XXXIX 6 1-4.

L’inciso «né ve ne caglia» è tra due virgole in ABC. Ora ad alcuni pare che i vv. 3-4 significhino «si lasci a Rodomonte il peso della battaglia, e a voi non importi l’avere rotto le convenzioni e i giuramenti», e, come giá il Morali, interpungono cosí:

          Su Rodomonte sia; né ve ne caglia
          l’avere il patto rotto e ’l giuramento.

Credo sia meglio, avvicinandomi al Papini, intendere piuttosto: «Ricada su Rodomonte, e non datevene pensiero, la responsabilitá di queste colpe».

In A, sia pure con omissioni e contraddizioni, sono segnati gli accenti. Credo sian dovuti allo stampatore, quando considero che ancora negli autogr. non se n’ha traccia. Si comprende che l’accento, nell’uso del tempo, ha solo il fine di distinguere la tonica. È per lo piú un accento grave, salvo che sull’i, che preferisce l’acuto. Oltre l’uso moderno, ha l’accento I 2, 8, II 17, 1, I 32, 6; manca in che «perché», in ben che I 15, 6, forse rispondenti alla pronunzia dell’Ariosto, in perche I 7, 1, 14, 6; come ne è privo negli incontri si che I 4, 8, 20, 3, si come I 18, 7; e sempre ne mancano ne 2, 2, 3, 7, se 37, 5, 44, 2, piu 4, 1, 9, 3, giu 13, 7. Questo è quanto s’osserva di norma. Non si hanno accenti nelle successive edizioni originali. Pertanto nei luoghi dubbi conviene ricorrere ad A. [p. 445 modifica]

Mi sbrigo in fretta di due parole sulle quali non occorre insistere, trattenendomi un po’ di piú sopra un altro punto, che credo d’una certa importanza. Non s’è badato che A stampa Leri XVI (XVIII C) 185, 8, come senza dubbio pronunziava l’Ariosto: e cosí, a tacer del Ruscelli che non andava troppo pel sottile, persino i diligentissimi Morali e Panizzi leggono Leri, seguiti dal solito codazzo. In XXIII 24, 6 molti Edd., leggendo estimo, fanno esprimere al Poeta come suo un apprezzamento ch’egli intendeva d’attribuire a Bradamante: ce ne assicura l’extimò di A, avvertito dal Panizzi. non dal Ruscelli né dal Morali.

Se per queste quisquilie A fu a torto dimenticato, in un’altra questione, che invece ha una certa importanza, io penso che sia stato frainteso. Il Morali, incerto sul modo di leggere pote, che tante volte occorre nel poema, accentuò quando ad esso pote corrisponde in A un puotè, potè (VII 34, 5, XVI 39, 1, XXI 54, 8 ecc., XXIII 69, 1), e quando l’accento sia richiesto dal ritmo (XXI 62, 4, XXIV 104, 3 ecc.), ed a capriccio qua e lá (XLI 102, 5, XLIII 186, 4); in ogni altro caso la mancanza d’accento nei puote di A fa sí ch’egli stampi pote riproducendo C.

Bisogna avvertire che l’Ariosto nella prima ediz. usava, oltre a puoté, poté, e con lo stesso significato, puote. In B, e poi piú decisamente in C, il passato remoto non ha altra forma che poté; in altri termini, il Poeta non usò piú il pres. con valore di perfetto. Cosí, per citar solo due ess., ad un:

piú non lo puote la sorella udire,

corrisponde in BC:

non lo pote piú la sorella udire XXXIII (XXXVI C) 76, 8.

Ancora, nella prima ediz.:

fe’ Brandimarte ciò che puote, e quando
non puote piú diede alla furia luoco,

riuscirá emendato:

ciò che pote fe’ Brandimarte, e quando
non pote piú    .   .   .   .   .   .    BC XXV (XXVII C) 33, 5-6.

E finalmente:

e dopo ancora mai segno di riso
non puote far, né d’allegrezza in viso A

 

far non pote, né d’allegrezza in viso BC XXXVII (XLI C) 32, 8. [p. 446 modifica]

S’osservino da ultimo tre versi nuovi o rinnovati in C:

          per questo non pote nuocergli al volto XXIV 104, 3

          Altrimente Tanacro riportarla
          a casa non pote, che s’una bara XXXVII 57, 2

          piú tosto che pote da lui levosse XLV 85, 2.

In tutti questi versi non occorre dire che il Morali stampa poté. Ma se l’accento sul puoté di A o il ritmo non glielo comanda, fa dir pote all’Ariosto.

Ebbene, non esito ad affermare che quando il Morali, leggendo in A:

               In Rodi, in Cipro, per cittá e castella
          e d’Africa e d’Egitto e di Turchia
          il re cercar fe’ di Lucina bella,
          né fin l’altrier aver ne puote spia,

e poi in BC:

          né fin l’altrieri aver ne pote spia XV (XVII C) 65,

stampa pote, e non poté; mentre a tutta prima ti pare che faccia opera di fedele editore, in realtá va contro le intenzioni dell’Autore. Se da tutti i versi ove il ritmo ce ne assicura, risulta che l’Ariosto, dopo le incertezze della prima ediz., si decise per il perf. poté; anziché attribuirgli negli altri passi, che per mero caso non hanno in lor difesa l’accento, un perf. pote (che offende le abitudini idiomatiche del Poeta, sia per la mancanza del dittongamento, sia in quanto, come pres. in funzione di perf., rappresenta una fase da lui superata), sará opportuno applicare ai casi dubbi, dubbi per il Morali, l’insegnamento che ci è offerto dai luoghi sicuri. L’Ariosto abbandonando i vecchi puote, puoté con ugual significato di perf., seguí i consigli che gli dava il suo meglio acuito senso della lingua, e la parola dei grammatici. Si conclude pertanto che mentre in A avevamo puote (può) pres., e puoté, poté, puote perf.; poi in B, e decisamente in C trionfa puote, può (con qualche rarissimo po) pres., poté perf.: superfluo dire che un buon incitamento a mantenersi in queste posizioni, giá, del resto, conquistate, venne al Poeta dalle Prose (c. 61 b, 65 b).

In una quarantina di luoghi (VIII 52, 4, 65, 1, 70, 6, XII 45, 1,XIII 25, 2, XVI 21, 7, 42, 4, 67, 7 ecc.), per non avere [p. 447 modifica] interpretato bene A, il Morali stampa pote, che certo non risponde alla grammatica dell’Ariosto. Ma quando un errore si veste di parvenze scientifiche, la sua fortuna è assicurata. Cosí vediamo seguirlo il Panizzi, pur cosí sagace, e Giacinto Casella e il Papini, autori di pregevoli commenti, e non so quanti altri9.

L’opera nostra è finita. Questa nuova ediz. del Furioso si può per parecchie ragioni veramente chiamar nuova. Oltreché furon definiti i caratteri dei due tipi dell’ediz. del ’32, oltreché abbiamo fatto guadagno, col confronto di molti esemplari, d’un bel numero di nuove lezioni; non solo diamo un testo fedele quanto piú ci è stato possibile, ma in ogni caso fu messo il Lettore in condizione di giudicare, senza di che ogni edizione, per buona che sia, lascia il tempo che trova.

Mi sia concesso di rivolgere i miei rispettosi ringraziamenti a S. E. il Principe Trivulzio e al chiariss. Sign. March. Camillo di Soragna, per avermi concesso d’esaminare a tutto mio agio i tesori delle loro Biblioteche. Ringrazio ancora il prof. Vittorio Rossi del suo gentile aiuto, e gli egregi Bibliotecari di Bologna, Ferrara, Firenze, Venezia, che mi hanno agevolato il lavoro. Al prof. Luigi Torri e al dott. Gino Levi della Nazionale di Torino non so esprimere la mia riconoscenza, se non dicendo ch’essa è pari alla loro bontá e cortesia, cioè grandissima.

Santorre Debenedetti.

  1. Nell’ediz. di AB fatta dall’Ermini, sia in II 65, 8 che in XII (XIV C) 52, 7 è stampato per errore prigioniera.
  2. Dei Romanzi, in Scritti estetici cit., I, 141.
  3. F. D’Ovidio, Un curioso particolare nella storia della nostra rima, nel vol. Versificazione italiana, Milano, 1910, pp. 82-3, 127.
  4. Cfr. D’Ovidio, Nuovi appunti sulla storia dello zeta, in Studi.. a Pio Rajna, Firenze, 1911, pp. 236-7.
  5. Due appunti, ma converrebbe fare altre ricerche, in Arch. glottol. ital., XV 67, XVI 161.
  6. È altrettanto sicuro — si vede dalle correzioni e dai versi rifatti — che l’A. rifiutò da ultimo il plur mano. L’unico superstite, mano XLIII 169, 8, è corretto man dal Ruscelli, mani, che sta meglio, da Panizzi e Morali.
  7. L’Ermini stampa Ferrau.
  8. Inutile aggiungere che in questa, come nelle altre vecchie edd., non è segnata la dieresi: si sa che i nostri stampatori incominciano ad usarla (parlo dei versi volgari) solo alla fine del sec. XVIII.
  9. Giá il Ruscelli stampava opportunamente potè; e cosí avrebbe fatto il Lisio, che pure tenta una dimostrazione (VIII 52, 4 n.), la quale, in fondo assennata, ha il difetto di non tener conto, né di quello che ci insegna il Bembo, né dell’accento ritmico, che risolve il problema.