Meditazioni sull'Italia/Seconda parte/Aprile-maggio

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APRILE-MAGGIO

Dei principi della critica

in Vasari

La critica dei moderni è una critica lirica, è una poesia astratta, un arabesco fatto con dei vocaboli più o meno concreti. La critica del Vasari, cioè degli antichi, è una critica che si propone sopratutto uno scopo: far creare gli artisti.

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Dei principi della critica

in Vasari


Firenze, 3 Aprile

Da tre mesi che non mi son mosso da Firenze, ho avuto campo di parlare di Giorgio Vasari con molti critici, scrittori e uomini coltivati, e ho notato con meraviglia che quasi tutti ne dicevano male. Chi lo accusa di essere uno storico frettoloso e impreciso, e chi di essere stato il più nefasto dei critici. Di questo sopratutto gli fanno carico quelli che si occupano di estetica e di storia dell’arte. Quasi tutte le persone di gusto gli rimproverano di non aver capito la bellezza dei primitivi, di aver dato il prestigio del suo nome glorioso alla dottrina che appaia il bello col vero; di aver fatto della storia dell’arte italiana una gigantesca piramide, con il suo amico Michelangelo sulla punta. Forse perchè questi critici sono più imparziali del buon Vasari? Io penso che anche loro, quando scrivono degli articoli, dicono bene degli amici e male dei nemici. E’ un abitudine umana e italiana. Ma a me pare che Vasari sia stato anche giusto. Non capisco davvero perchè i moderni si [p. 128 modifica] rifiutino di riconoscere e ammirare questa vecchia e bellissima onestà di Vasari. In verità il dissidio è troppo vivace perchè non abbia delle cause profonde. Noi italiani abbiamo il vezzo di denigrare i nostri grandi, ma fin quando son vivi. Da morti, di solito li dimentichiamo e li lasciamo in pace.

Firenze, 5 Aprile

Ho letto un libro attraentissimo, ricco di lievito, il «Gusto dei Primitivi», di Lionello Venturi. Anche Venturi non concede al Vasari che un po’ di compatimento benevolo. Ricopio questo brano da pagina 119: «Fare la storia di un artista significa profittare di tutti gli elementi storici, per comprendere e giudicare ciò che vi è di perfetto nell’arte sua. Invece, cosa fa il Vasari? Riconduce tutte le imperfezioni dei secoli XIV° e XV° alla perfezione di Michelangelo, e quindi egli intende compiere opera reale di storico soltanto quando parla di Michelangelo. Tutti, o quasi, gli artisti anteriori sono sacrificati perchè raffrontati non con loro stessi, ma con una perfezione ch’essi non hanno cercata e che è loro estranea.»

Venturi è un critico appassionato; nella sua critica della critica, riduce in polvere tutti quelli che non hanno pensato, come lui, che l’arte e la religione erano quasi sinonimi. «Vasari, scrive Venturi a pag. 110, sentí invece il rapporto fra l’arte e la religione assai meno de’ suoi predecessori, non perch’egli, buon uomo, non fosse anche timorato di Dio, [p. 129 modifica]ma perchè i tempi erano maturi non solo a non sentir quei rapporti, ma anzi a falsarli.»

Venturi condanna dunque Vasari, perchè non ci si ritrova. Penso che Venturi ha ragione di essere appassionato e parziale — i soli critici profondi sono quelli che riescono a essere nello stesso tempo appassionati, parziali e giusti, giusti nel loro ambito. Ma Venturi ha torto di condannare Vasari proprio per la qualità che hanno in comune. Che cosa ha fatto, condannando i primitivi, se non quello che fa Venturi condannando Vasari? Critici appassionati e parziali, non ammettono degli spuntoni oltre il giro della propria definizione. Appunto per questo, anche se i loro principi si contraddicono, dovrebbero intendersi come critici.

Firenze, 7 Aprile

Non capisco perchè, giudicando un critico, pretendiamo che abbia le nostre idee generali.

Ci vuol davvero per far questo tutto l’orgoglio del secolo XX°!

Passano i secoli, mutano i tempi, cambiano i sentimenti. Come si può chiedere a un critico di cinquecent’anni fa, che abbia i nostri stessi principi? Credo di essere riuscito a liberarmi da questo orgoglio. Le verità del pensiero umano non possono essere che verità temporanee. Quando giudico un critico del passato, o anche un contemporaneo, bado piuttosto alla maniera con cui sa servirsi della sua unità di misura, che al valore dell’unità di misura [p. 130 modifica] in sè stessa. In ultima analisi, è quasi la stessa cosa, perchè con una cattiva unità di misura il critico è costretto a sbandare continuamente; ma è molto più umano giudicare del valore di un’idea generale dal successo con cui puó servire nei casi particolari, che non dal suono gradevole o sgradevole della sua formula.

Ammetto dunque tutti i principî generali di critica, anche quelli che non mi piacciono, purché siano professati pubblicamente; ma la maggior parte dei critici contemporanei non ne hanno nessuno e giudicano le opere ciascuno con una unità di misura che stabiliscono lí per lí. Questa deve essere già una delle ragioni che spiega l’accanimento di tutti gli italiani moderni contro Giorgio Vasari. Giorgio Vasari li contraddice continuamente: perchè quando hanno un sistema di idee, risponde loro con un sistema diverso; e quando non l’hanno è peggio ancora, li impaurisce con lo spettro di due o tre principî generali, che sembrano loro minacciosi e incredibili. Ma a me Vasari piace perchè ha avuto delle idee generali, e perchè ha saputo servirsene nella pratica con molta onestà.

Firenze, 10 Aprile

Stamane ho letto un articolo di Giacomo Debenedetti e uno di Emilio Cecchi. In due maniere diverse sono due articoli eccellenti. Questi due critici sprofondano le mani in un libro, come nella pasta frolla; la palpano, spiaccicano, [p. 131 modifica] appallottolano, e finalmente la spianano bene bene, pulita pulita dinnanzi al pubblico. Il libro è trafitto da raggi X. Si deforma e riforma come quei giocattoli di carta giapponese, che a scuoterli mutano di struttura e di tinte. Non è possibile che questo sia lo stesso lavoro di Giorgio Vasari. Li chiamano critici tutti e tre, non so davvero per quale ragione; ma appartengono a due mondi diversi e si prefiggono dei fini inconciliabili.

Firenze, 11 Aprile

Sí, Vasari e i critici moderni si può dire che si contrappongano. Ma tutti oggi dovrebbero rileggere Vasari, non già per imparare la storia dei nostri artisti, ma per studiare il quadro di una perfetta civiltà intellettuale. Vasari non è tanto importante come critico d’arte quanto come maestro di civiltà. Maestro e prodotto nello stesso tempo. I fini che si proponeva non avevano a che fare nè punto nè poco con quelli che ci proponiamo noi, e giudicarlo alla stregua dei nostri critici è una fatica inutile e forse ingenua; ma quelli che a noi sembrano i suoi errori e le sue fiacchezze sono invece, dal suo punto di vista, dei segni di gloria, delle prove di grandezza. Mutando i punti di vista, mutano le prospettive. Perchè ci accorgiamo di questo inganno dell’occhio, quando siamo tra le montagne, e non ce ne accorgiamo quando spaziamo attraverso la storia? [p. 132 modifica]

Firenze, 12 Aprile

La critica moderna è uno squisito e sterile struggimento. Non aiuta infatti gli artisti a produrre delle opere d’arte, ma si serve del loro lavoro come gli artisti si servono della natura. L’opera d’arte è per il critico moderno quello che la natura è per l’artista, una falsariga, un pretesto. I critici non hanno pace finché non hanno saputo esprimere, in matasse incandescenti di frasi, il loro sentimento di fronte all’opera d’arte, come gli artisti non hanno pace finché non sanno che il pubblico proverà, dinnanzi alla loro opera d’arte, lo stesso brivido che essi hanno provato di fronte alla natura. I critici moderni precorrono il pubblico, vogliono dipingergli il suo piacere e la sua rivolta dinnanzi all’opera d’arte, prima che l’abbia conosciuta. I critici quasi si spazientiscono di riferire quello che in un’opera d’arte è obbiettivo, quello che in un’opera d’arte si puó riprodurre e riassumere, e smaniano di cogliere tra le maglie eteree delle parole, nella musica irrazionale dei loro periodi, quel quid che non avrebbero il dovere rigoroso di esprimere, il lucore che trema in fondo all’opera d’arte, come la linea cupa del mare trema in fondo a una pianura selvaggia. I critici moderni nascondono sotto una facciata spavalda dei misteriosi scoraggiamenti. I critici moderni, diciamolo finalmente, non sono più critici: sono degli artisti [p. 133 modifica]di seconda mano. La critica è sparita, senza che nessuno se ne sia accorto.

Firenze, 13 Aprile

Ho fatto tutto il viale dei Colli cercando di risolvere questo enigma: perchè è sparita la critica? Quando è sparita? Credo che la critica sia sparita durante il Romanticismo. Baudelaire è un esempio di quelle tragedie intellettuali che sfolgorano nei periodi del trapasso. Dilaniato dal rimorso di un bene che stava per perdere, ma ormai abbacinato dalla speranza di una gioia più squisita, Baudelaire mi sembra in un certo senso la chiave di questo strano problema storico. Perchè la critica è sparita quando il pubblico si è staccato dall’arte. La critica vera era la voce del pubblico, il trait d’union degli artisti e del pubblico. Quando il pubblico si è staccato dall’arte, la critica è rimasta senza fondamento, brancolante, accecata. Per salvarsi, per trovare a sè stessa una ragione di vivere, si è rifugiata su questa strana montagna, dove ora pompeggia; è divenuta lirica per disperazione.

15 Aprile

Ma perchè il pubblico si è distaccato dall’arte? Credo che il pubblico si sia staccato dall’arte, quando l’arte ha fatto del campo in cui doveva spaziare un oceano interminato, una terra universale. Il pubblico di ogni paese ha la forza di [p. 134 modifica] nutrire, qualche volta, l’ispirazione dell’arte, di imporgli un orientamento, di scegliere, di giudicare, di premiare e di condannare gli artisti. Ma questa forza non è infinita; e il pubblico puó seguire il crescere della sua arte fino che l’arte si rassegna a rimanere tra i limiti in cui puó sorvegliarla. Un pubblico come quello del quattrocento può essere il sottosuolo opulento dei suoi pittori e dei suoi scultori, fino a che non si pretenda che ammiri da un momento all’altro e con lo stesso candore e calore, la scultura negra, la pittura giapponese, l’architettura siamese.

Fino al Romanticismo il pubblico poteva sorvegliare un’arte che splendeva in ogni paese come un lago chiuso tra dighe e montagne; ma da quando il Romanticismo ha fatto ruinar le dighe, da quando, il vecchio lago luccicante e tranquillo s’è mutato in un oceano sconvolto da gigantesche maree, corso da profonde correnti, da quando in una esposizione ha avuto da giudicare cinque opere esposte sopra la stessa parete, di cui una aveva trovato un modello in Egitto, la seconda in Grecia, la terza nella Firenze del quattrocento, la quarta nella Roma del cinquecento, la quinta nelle lontane isole del Giappone, il pubblico si è staccato dall’arte, prima perchè l’arte lo aveva irritato, poi perchè lo intimidiva. Da quel momento è morta la critica. Prima, il pubblico era come un navigante che dovesse trovare un punto sopra una carta, avendo la longitudine; il critico non aveva che da fornirgli la latitudine. [p. 135 modifica] Ma da quando il pubblico non ebbe più un meridiano, la critica dovette diventare un’arte di seconda mano per non vedere il suo compito svalutato del tutto. Perchè allora chiamiamo questa l’epoca della critica?

Firenze, 14 Aprile

Penso alla sapienza dei razionalisti francesi. Si ride oggi delle regole in cui volevano chiudere la rivolta al vecchio regime; ma i razionalisti francesi sono stati i soli che hanno capito come si dovesse fare una rivoluzione, non abolendo tutte le regole, ma sostituendone delle nuove. I Tedeschi non avevano previsto i massacri che avrebbero fatto, scatenando sulla terra l’idra incandescente e sublime del Romanticismo.

16 Aprile

Nei secoli antichi, un impulso di fuori che il Ferrerò chiamo’ volontà grande, destinava, durante un certo tempo, a tutti gli artisti la loro parte di strada; e gli artisti se ne contentavano, benchè questa volontà grande, impersonata talvolta in un Re, talvolta in un’idea, talvolta in una tradizione fosse quella stessa che poi si chiamò la critica del borghese. Quando Benvenuto Cellini espose nella loggia il suo Perseo, vennero tutti i borghesi del tempo, che erano duchi e popolani, a giudicare, e appesero ai rilievi del bronzo, dei cartelli riempiti di versi (Baudelaire scriveva che la miglior [p. 136 modifica] recensione di un quadro potrà essere un sonetto o un’elegia) senza che questo plauso o quel dissenso obbligassero Benvenuto a ritenersi incomprensibile a tutti. Quest’unità gerarchica fu spezzata dal vento pazzesco del Romanticismo, quando gli artisti si misero in capo di avere ciascuno un’estetica ad uso personale, un metro diverso da quello altrui e un modello in se stessi. Come sarebbe riuscito, il borghese, a misurare delle opere senza un metro e a giudicarle senza un principio comune? O se voleva rischiarsi alla prova, con la misura sua, l’artista gliene opponeva subito una diversa; cosicché si erano in breve convinti l’uno e l’altro di non potersi intendere.

Da questo stato di cose nacque — moda non ancor morta dei tempi romantici — l’istituzione dell’isolato, dell’incompreso, lo spregio del borghese, da parte di ogni artista che avesse qualche ambizione di originalità. Questa è stata la morte dell’arte, di ogni arte.

17 Aprile

Sfogliando i saggi di Baudelaire sull’arte ho ritrovato, a capo del Salon 1846, un amichevole e solenne appello ai borghesi, che comincia cosí: «Voi siete la maggioranza — numero e intelligenza; dunque siete la forza, che è la giustizia. Continua — «Voi potete vivere tre giorni senza pane; senza poesia, mai; e quelli tra voi che affermano il contrario, s’ingannano; non si [p. 137 modifica] conoscono. L’aristocrazia del pensiero, i distributori dell’elogio e del biasimo, gli accaparratori di cose spirituali vi hanno detto che non avete il diritto di sentire e di godere: sono dei farisei.» Conclude: «Voi siete gli amici naturali delle arti, perchè siete gli uni ricchi, gli altri scienziati. Quando avete dato alla società la vostra industria, il vostro lavoro, il vostro denaro, voi pretendete il vostro compenso in godimenti del corpo, della ragione e dell’immaginazione. Se ricuperate quella quantità di piacere che è necessaria per ristabilire l’equilibrio di tutte le parti del vostro essere, voi sarete felici, sazî e benigni, come la società sarà sazia, felice e benigna, quando avrà trovato il suo equilibrio generale e assoluto.

«Questo libro è dunque naturalmente dedicato a voi, borghesi; giacché ogni libro çhe non si rivolga alla maggioranza — numero e intelligenza — è un libro sciocco».

Ora, per borghese Baudelaire non intende un membro della classe media, bensì, con usanza militaresca, tutti gli uomini del comune che non vestono divisa d’artista: ossia, fuori che alcune eccezioni di persone che vivono in quel mondo senza essere artisti, ma che hanno assunto la loro maniera di giudicare la società intera.

Già nell’introduzione al Salon precedente, Baudelaire scriveva di colleghi artisti, che da parecchi anni si sono esercitati a lanciar l’anatema su questo essere inoffensivo, il quale non chiederebbe [p. 138 modifica] di meglio che di amare la buona pittura, se quei signori sapessero fargliela comprendere, e se gli artisti gliela mostrassero con maggior frequenza.

17 Aprile

E’ cosa nota che negli anni del Romanticismo gli artisti non andavano d’accordo con i borghesi. Dopo tanti secoli di comunanza, pareva che un gruppo si fosse staccato dall’altro, come nei vecchi ulivi, per la consumazione delle malattie, due parti del tronco si spaccano e continuano a verzicare su radici diverse. Anzi, il dissidio si era fatto così profondo che gli artisti non si immaginavano nemmeno più il tempo in cui spettava ai borghesi di giudicarli, e si erano definitivamente persuasi che questo giudizio fosse un privilegio degli iniziati.

Ma ecco che tutt’a un tratto, in mezzo a tanta corrente d’idee, vediamo levarsi e reagire proprio Baudelaire! Questa orgogliosa e impreveduta affermazione d’umiltà; questa fraterna sollecitudine per l’essere che simbolicamente non capisce, ci puó davvero meravigliare o avere l’aria di una presa di bavero, quando pensiamo al privilegio che Baudelaire si era attribuito, fra i contemporanei, d’essere il più scandaloso, il più ribelle, il più demoniaco dei poeti; quando pensiamo al sapore d’indipendenza che aveva per lui quell’atteggiamento di sfida.

Questo appello è dunque ricolmo di ironia? O si [p. 139 modifica] tratta di intenzioni serene? Il problema è grave e attraente.

Bisogna, è vero, ammettere che il sorriso con cui egli si rivolge alla moltitudine non appare assolutamente sincero, e rivela complicati, nascosti, e subdoli pervertimenti critici, troppo sottili perchè un borghese li possa distinguere dall’amabilità. Ma non basta, per spiegar questa, dir che egli, stanco di trovarsi in mezzo ad artisti intenti ogni ora a turlupinare malignamente il pubblico e a rallegrarsi del suo cattivo umore, e ai borghesi stessi, i quali avevano ormai adottato l’aggettivo borghese come un’ingiuria, si sia rifugiato nell’eccezione delle banalità, per sfuggire la banalità dell’eccezione.

18 Aprile

Benché questa posa a Baudelaire dovesse sorridere, non trovo in essa una molla così potente, da indurlo a cercare nella folla oscura, e anzi, proprio nelle sue insensibili qualità di ricchezza e di numero, un giudice per le divine trasparenze dell’arte.

In questo atteggiamento, che contraddice tutto il romanticismo suo e dei suoi camerati, per quel riconoscere fuori del loro gruppo una autorità più alta e più legittima che li debba giudicare, in questo rassegnato inchinarsi al borghese, come al solo che possa rappresentare nel mondo moderno tale autorità, si cela una più vasta preoccupazione; e dopo aver meditato su quelle pagine che prima mi [p. 140 modifica] sapevano di umorismo, ho finito per credere che in esse fosse della sofferenza.

Baudelaire pensò forse che una misura esterna potesse giovare alla grandezza dell’arte? Se egli se ne fosse reso conto proprio nel momento in cui artisti e pubblico lavoravano di conserva a infrangere questa misura esterna, col dividersi, la sua sarebbe stata una scontentezza profonda e inquieta, certo più viva che la nostra poichè ormai noi abbiamo fatto la mano a questo continuo divorzio. In ogni caso, solo Baudelaire fra i suoi contemporanei, si accorse che il distacco era compiuto, o si faceva, quando nessuno se ne dava pensiero. E s’accorse che era un pericolo grave, perchè rischiava, come fece, di sbrigliare gli artisti e di incitare, per l’ubriachezza della improvvisa libertà, a lasciarsi andare a tutte le intemperanze, e poi, per lo schifo e la noia di quel deserto, a scivolare nella disperazione della decadenza.

Infatti quell’antagonismo era una rovinosa novità, portata con le rivoluzioni e le repubbliche, dal secolo XIX°.

19 Aprile

La critica dei moderni è una critica lirica, è una poesia astratta, un arabesco fatto con dei vocaboli più o meno concreti. La critica di Vasari, e cioè quella degli antichi, è una critica che si propone sopratutto uno scopo: far creare gli artisti.

Critica modesta, umile e grandiosa. Quanta [p. 141 modifica] rinunzia e austerità in questo proponimento! Ma non è stato soltanto il merito di Vasari: è stato il merito di tutta una civiltà bene ordinata.

Parigi è forse la sola città che sia riuscita oggi a risolvere un controsenso così stridente: essere una città universale, accogliere e spandere per il mondo tutte le forme dell’arte e avere ancora vicino alla critica lirica, un pubblico e una critica che servono da fermento.

20 Aprile

Sono stato a passeggiare sotto le volte degli Uffizi; mi son messo a guardarli dalla Piazza della Signoria, di sotto al David di Michelangelo.

Si faceva notte e la luna ridava agli Uffizi il suo scheletro primitivo, ce ne offriva una essenza. Che eleganza stanca! Gli Uffizi sono veramente l’opera di un critico squisito. Quanti principï ragionevoli e puri si sentono in quelle prospettive di portici, in quei cornicioni e in quelle finestre rettangolari, grandi, parche di ornamenti, in quelle nicchie disposte in fila, dopo ogni arcata, con dentro la statua di un pittore che rimane costretto, nonostante il suo gesto, nella linea dell’architettura! Quest’opera un po’ morta, senza difetti e senza potenza, con un’eleganza preveduta, quest’architettura che non meraviglia, è la prova della grandezza critica di Vasari: gli Uffizi, più che un edifizio, sono un meraviglioso sistema di idee. [p. 142 modifica]

21 Aprile

Vasari non voleva fare, nelle sue Vite, degli edifizi eleganti; ma voleva aiutare gli artisti a creare, voleva spingerli verso una mèta prestabilita, si sentiva una specie di prezioso can da pastore. La critica di Vasari è un complemento dell’arte. Vasari è il lievito messo nel pane; è l’uomo che batte la strada.

22 Aprile

Dicono che Vasari non ha capito i primitivi. Ma perchè mai Vasari avrebbe dovuto capire i primitivi? A che gli servivano? Vasari era un critico militante: non poteva darsi il lusso dei critici moderni, che cercano di essere imparziali. Come critico militante aveva il dovere di incoraggiare gli artisti sopra una strada e dissuaderli, da ogni altra. O felice epoca di limitata ambizione! O secolo beato, in cui non c’era che un secolo! Al sicuro da tutte le nostalgie, aveva abolito la pena che fa di ogni forma il richiamo a mille forme diverse. Innocenti e ignoranti, parziali e appassionati, i pittori d’allora non si sono mai chiesti come valesse meglio di dipingere, gli scultori d’allora non si sono mai chiesti come valesse meglio di scolpire!

La forma si imponeva loro quasi dall’aria, la respiravano.

Come si può pretendere che il secolo che ha dato Leonardo dovesse capire Giotto? Vasari appunto [p. 143 modifica] perchè era un critico intelligente non doveva essere un critico universale.

23 Aprile

Sì, essere un critico parziale non è difficile; molti forse sono ancora parziali, dei critici che oggi credono di essere universali. Ma è difficile esserlo con grazia e giustizia, con onestà e continuità; è difficile aver dei principi e tenersi a quelli per davvero. Un critico parziale, che non abbia dei principï è un critico semplicemente meschino. Vasari ha dei principî.

23 Aprile, sera

E’ ora di riprendere in mano Le Vite e di rileggerle. Stasera c’è un gran silenzio sull’Arno e i lampioni capovolti nell’acqua hanno persino paura di tremolare. Poi che non ci sono ancora zanzare profitteró di questo raccoglimento della città, per accendere la mia lampada e aprire «Le Vite», che ho comperate stamane da un libraio antiquario. E’ un’edizione del 1859, stampata a Napoli su due colonne. La facciata del libro, senza aver l’eleganza delle edizioni del primo ottocento, è austera, magra e ricca di begli spazi; i caratteri sono minutissimi, ma bene incisi, e le maiuscole spiccano su quel fittume di segni gracili per una certa grassezza e morbidezza d’inchiostri. Per un viaggiatore è una grande fortuna aver ritrovata questa edizione, perchè un volume di 685 pagine che [p. 144 modifica] raccoglie tutte le Vite, puó facilmente insinuarsi anche in una valigia colma come una mela granata.

24 Aprile, mattina

Ho riletto Vasari tutta la notte. I principï di Vasari sono chiarissimi e continuamente esposti. Principio fondamentale, come è noto, è l’imitazione della Natura. Parlando della terza età dell’arte, quella in cui fiorirono Michelangelo, Leonardo e Raffaello, scrive «nella quale mi par poter dire sicuramente che l’arte abbia fatto quello che ad una imitatrice della natura è lecito poter fare e che ella sia salita tanto alto, che più presto si abbia a temere del calare a basso, che sperare oggimai più augumento» (Proemio alla parte II, pag. 131).

Ho già avuto campo di rilevare in un altro libro come questa «imitazione della natura» fosse una formula convenzionale, con cui i pittori del Risorgimento si intendevano, e che significava tutt’altra cosa.

Ma a parte questo, l’Imitazione della Natura era più che altro un eccitamento a creare. La Natura è senza nessun dubbio il solo stimolo che abbia un pittore, il quale deve dipingere le cose visibili con l’occhio. Non mi pare che Lionello Venturi dia abbastanza peso al classicismo di Giorgio Vasari. Vasari disse spesso che si doveva imitar la natura con la tecnica dei classici; respingeva così la maniera di dar forma a questa materia e non consentiva a [p. 145 modifica] tutte le fantasie fatte sul tema della natura, ma solo a quelle che erano condotte secondo l’insegnamento dei classici. Questo è già come dire che la natura è il fine generico, lo stimolo creativo, e che Vasari più che ai cosiddetti realisti potrebbe essere riavvicinato, dal punto di vista della teoria, ai neo-classici, al Winkelmann, a Lessing. Dire: «riproduciamo la natura con lo stile dei Romani,» non vuol dire soltanto «imitiamo la natura». (La natura in questo caso diventa il fine generico, il sottinteso.) Soltanto un filosofo o un letterato, quando ascolta questa formula, puó far caso della prima parte: «imitiamo la natura» ; un pittore non porge orecchio che alla seconda «con lo stile dei classici». Che la natura sia il primo modello di un pittore, chi puó dubitarne?

Non per nulla, in uno dei suoi proemi, Vasari scrivendo dell’arte, prima della scoperta di tutte le statue greche, dice:

«Quel certo chè, che ci mancava... lo trovarono poi, dopo, gli altri (gli artisti), nel veder cavar fuori di terra certe anticaglie citate da Plinio delle più famose, il Laocoonte, l’Ercole e il Torso Grosso del Belvedere; così la Venere, la Cleopatra, lo Apollo e infinite altre, le quali nella loro dolcezza e nelle loro asprezze, ci piacciono per i termini carnosi e cavati dalle maggiori bellezze del vivo,» e per gli atti, che non in tutto si storcono, ma si vanno in certe parti movendo e si mostrano con una [p. 146 modifica] graziosissima grazia». (Vasari, Proemio alla III. Parte, Pag. 248).

25 Aprile

Fine: imitazione della natura. Mezzo: la tecnica dei classici. I principî di Vasari sono semplici, come tutti i principi di quel tempo avvezzo più a fare che a strologare; ma sono chiari — o almeno erano chiari per i contemporanei di Vasari, che sapevano vederci intorno tutto quello che non ci vediamo noi.

Stabiliti i principî generali dell’arte Vasari si preoccupa di mettere in chiaro che cosa siano per lui la pittura, la scultura, e l’architettura, e come e in qual punto un artista possa raggiungere, in quelle arti, la perfezione. Questa coscienziosità mi sembra molto ammirevole. Un critico che vuol barare al gioco non ha nessun interesse di impastoiarsi in tante definizioni.

Fierezze e vivacità, rilievo proprio e naturale, e altrove diligenza e morbidezza, o grazia e perfezione, o graziosissima grazia, o leggiadrissima vivacità, o contorni carnosi. Vasari gira intorno a un sentimento cercando di coglierlo con delle parole che non hanno ancora la precisione che ci vorrebbe. Ma a chi voglia fare un piccolo sforzo di adattamento, l’ideale pittorico di Vasari non può essere oscuro. Si chiarirebbe ancora di più se uno volesse studiare come Vasari l’ha messo in pratica. [p. 147 modifica]

26 Aprile

Ho letto oggi l’articolo di un critico, il quale diceva malissimo di un libro di cui avrebbe dovuto dir bene; e non sto a dire quanti ne ho letti, in cui si diceva benissimo di libri, dei quali il critico avrebbe dovuto dir male! I critici sono troppo liberi di fare queste piccole truffe. In nome di che principio si possono prendere in castagna? Dinnanzi alla sterminata vacuità del loro sistema di idee, chiunque deve arretrare. Vasari invece va incontro alla storia col petto scoperto. Dopo aver definito con parole chiare, se pur grossolane, che cosa è l’Arte, e che cosa sono le Arti, divide i tempi in tre epoche, che sono come tre scalini della perfezione — una divisione gerarchica.

Dalla perfezione somma del Cinquecento si discendeva verso la barbarie di secolo in secolo. Questo punto di vista si ritrova nel proemio alla III. parte, dove, a proposito degli artisti del quattrocento, scrive che le scoperte delle statue greche «furono cagione di levare via una certa maniera secca e cruda e tagliente, che per lo soverchio studio avevano lasciata in quest’arte Piero della Francesca etc., i quali per sforzarsi cercavano fare l’impossibile dell’arte con le fatiche, e massime negli scorti e nelle vedute spiacevoli, che siccome erano a loro dure a condurle, cosí erano aspre a vederle. Ed ancora che la maggior parte fussino ben disegnate e senza errori vi mancava pure uno [p. 148 modifica] spirito di prontezza, che non ci si vide mai, e una dolcezza nei colori unita che la cominció a usare nelle cose sue il Francia Bolognese e Pietro Perugino:» (Pag. 249).

La sua ammirazione pei suoi contemporanei riappare là dove canta la gloria di Leonardo e del Rinascimento, splendidi, sontuosi, fastosi e pieni di grazia, contro la povera, segaligna robustezza dei primitivi.

«Ma lo errore di costoro (i primitivi) dimostrarono poi chiaramente le opere di Leonardo, il quale, dando principio a quella terza maniera, che noi vogliamo chiamar la moderna, oltre la gagliardezza e bravezza del disegno, ed oltre il contraffare sottilissimamente tutte le minuzie della natura, cosí appunto come elle sono, con buona regola, miglior ordine, retta misura, disegno perfetto e grazia divina, abbondantissimo di copie e profondissimo di arte, dette, veramente alle sue figure il moto e il fiato. (Proemio alla III parte, pag. 249).

25 Aprile

Poi che Vasari voleva imitar la natura con la tecnica dei classici, poi che smaniava per quella dolcezza, morbidezza, carnosità e disinvoltura, che gli sembran la vera grazia del Signore ai pittori, logicamente doveva preferire il Cinquecento al Quattrocento, e il Quattrocento ai primitivi. Che cosa avrebbe trovato, nei primitivi, di quello che indicava agli artisti come fine supremo? Vasari, [p. 149 modifica] critico sistematico e animatore, doveva condannare i primitivi. Se non li avesse condannati, tutta l’opera sua sarebbe stata un non senso. E li condanna infatti. (Proemio alla Parte III pag. 248).

Ma se trova, tra i primitivi, qualche pittore che si avvicina al suo ideale di perfezione, Vasari si intenerisce e commuove, e non puó stare alle mosse fino che non l’ha coronato d’alloro, fino che non l’ha appartato in una nicchia dorata.

Ho letto stamani una pagina su Giottino, che mi sembra veramente la prova più confortevole dell’onestà di Vasari. Dice che imitó Giotto, ma che la sua maniera fu «molto più bella di quella del maestro». (Pag. 114). E della Tavola della Deposizione, che descrive con parole incandescenti, scrive: «E’ cosa meravigliosa a considerare, non che egli penetrasse con l’ingegno a sí alta immaginazione, ma che la potesse tanto bene esprimere col pennello».

Per quanto appartenga ai dannati di quel secolo rude, che fu il Trecento, Vasari concede a Giottino non soltanto l’ispirazione, ma anche la tecnica. Perchè?

«Perciocchè i panni, i capelli, le, barbe e ogni altro suo lavoro furono fatti e uniti con tanta morbidezza e diligenza, che si vede che egli aggiunge senza dubbio l’unione a quest’arte e che la ebbe molto più perfetta che Giotto suo maestro e Stefano suo padre avuta non aveano». [p. 150 modifica]

26 Aprile

Sí, Vasari era onesto e chiaro. Aveva dei principî e nel giudicare si teneva a quelli. Contribuiva dunque, con i suoi scritti, a stabilire un ordine nel mondo dell’arte; insegnava al pubblico a giudicare gli artisti. Ma un vero critico — un critico animatore — non può contentarsi di far da telaio ai gusti del tempo suo. Vasari ha fatto di più. Non ha battuto soltanto delle strade. Ha voluto suggerire, spingere, accendere gli uomini. Vasari, insomma, è il critico che sa e vuole ammirare.

26 Aprile, sera

Chi sa perchè s’è tanto perso il sentimento delle regole psicologiche! Qualche ufficiale sa ancora che per rincuorare i soldati bisogna lodarli; qualche maestro sa ancora che per far studiare i discepoli bisogna lodarli; ma nessuna critico, nessun lettore in Italia ha l’aria di rammentarsi che per aiutare la letteratura e l’arte bisogna lodare gli artisti.

29 Aprile

Ho cominciato a parlare di questo con degli amici. Mi hanno risposto che ammirando non si puó scegliere; che in un clima di ammirazione succede agli artisti come la notte ai gatti, che son tutti di un colore. E’ uno sbaglio: si puó scegliere soltanto ammirando. Vasari non è forse il [p. 151 modifica] miglior modello di una infatuazione della lode? Vasari ha sommerso tutti gli artisti di cui ha avuto campo di scrivere sotto un fiotto maestoso di elogi. Ma quante gradazioni di colori in quello che può sembrare a un lettore disattento il medesimo tono!

Vediamole. Cominciamo dai primitivi, che non amava. Perchè non condannarli in blocco? Vasari invece si sforza, anche là dove una maniera tagliente e severa spiace al suo bisogno di dolcezza, al suo amore di morbido, di ammirare, di distinguere, di graduare, di trovare, per ogni pittore, una lode appropriata, un attributo, un aggettivo, un verbo amichevole. Immagino il suo orrore per Cimabue! Ma degli affreschi di Assisi non esita a dire: «La qual opera veramente grandissima e ricca e benissimo condotta dovette, per mio giudizio, in quei tempi far stupire il mondo, essendo massimamente stata la pittura tanto tempo in tanta cecità.» (Vita di V. Cimabue, pag. 62).

Cosí, scrisse di Duccio:

«Attese costui all’imitazione della maniera vecchia e con giudizio sanissimo diede oneste forme alle figure, le quali espresse eccellentissimamente nelle difficultà di tal arte». (Pag. 118).

E dichiara che Simone Memmi fu «eccellente pittore». Ma quanto a Gaddo Gaddi, non lo mette sul piano di quei tre. Ammette soltanto che «fece molte opere ragionevoli, le quali lo mantennero sempre in buon credito e reputazione». (Pag. 78). [p. 152 modifica]

E di una madonna di Margaritone conclude:

«della quale opera è da tener conto». (Pag. 79).

Se di Cimabue dichiara che fece un’opera «grandissima e ricca e benissimo condotta» e di Duccio che «si espresse eccellentissimamente» e di Simone Memmi che «fu eccellente pittore» — di Gaddo Gaddi scrive che fece «molte opere ragionevoli».

E con che sottigliezza, elasticità di parole, ricchezza di formule dà il suo posto a ogni artista del quattrocento.

Scrisse di Ghirlandaio:

«Domenico di Tommaso del Ghirlandaio, il quale per la virtù e per la grandezza e per la moltitudine dell’opere si può dire uno dei principali e più eccellenti maestri dell’età sua, fu dalla natura fatto per essere pittore; e per questo, non ostante la disposizione in contrario di chi l’avea in custodia (che molte volte impedisce i grandissimi frutti degl’ingegni nostri, occupandoli in cose dove non sono atti, deviandoli da quelle in che sono naturati), seguendo l’istinto naturale, " fece a sè grandissimo onore ed utile all’arte ed ai suoi, e fu diletto grande dell’età sua». (Pag. 216).

Disse di Cosimo Rosselli:

«Il qual Cosimo, sebbene non fu nel suo tempo molto raro ed eccellente pittore, furono nondimeno l’opere sue ragionevoli». (Pag. 210).

Disse di Paolo Uccello:

«Paolo Uccello sarebbe stato il più leggiadro e [p. 153 modifica] capriccioso ingegno che avesse avuto da Giotto in qua l’arte della pittura, se egli non avesse voluto troppo minutamente tirar le cose: oltre che bene spesso si diventa solitario, strano, malinconico e povero, come Paolo Uccello, il quale, dotato dalla natura di un ingegno sofistico e sottile, non ebbe altro diletto, che l’investigare alcune cose di prospettiva difficili ed impossibili». (Pag. 142).

Disse di Donatello:

«E dando opera all’arte del disegno, fu non pure scultore rarissimo e statuario meraviglioso, ma pratico negli stucchi, valente nella prospettiva, e nell’architettura molto stimato; ed ebbono l’opere sue tanta grazia, disegno e bontà, ch’esse furono tenute più simili all’eccellenti opere degli antichi Greci e Romani, che quelle di qualunque altro fusse giammai». (Pag. 168).

Vasari ha per tutti un po’ di ammirazione; maggiore per quelli che si avvicinano al suo ideale dell’arte: Ghirlandaio, in cui si comincia a sentire la famosa «morbidezza» del Cinquecento, gli piace più di Paolo Uccello «ingegno sofistico e sottile». Donatello gli pare già quasi perfetto, perchè «ebbono l’opere sue tanta grazia, disegno e bontà, ch’esse furono tenute più simili all’eccellenti opere degli antichi Greci e Romani, che quelle di qualunque altro fusse giammai».

Nè si può dire che un artista per il fatto che appartiene alla fortunata epoca d’oro, sia sempre [p. 154 modifica] grande per Vasari. Anche quando spazia in quella «terza epoca» in cui dovrebbe essere abbacinato dallo splendore delle opere d’arte fatte tutte secondo il suo sistema e così numerose e opulente, Vasari tiene gli occhi ben aperti, giudica, ammira, distingue, sottodistingue.

Le opere del Rosso fiorentino...«di bravura non hanno pari, e senza fatiche di stento son fatte, levato via da quelle un certo tisicume e tedio, che infiniti patiscono per far le loro cose, di niente parere qualche cosa». (Pag. 334).

30 Aprile

Chi potrebbe dire che Vasari non sa dare a ogni artista la sua giusta misura? Da Michelangelo a Margaritone d’Arezzo tutti gli artisti hanno per Vasari del merito; ma tutti ne hanno uno diverso.

In verità l’ammirazione stessa chiede al critico un qualche svariare e digradare di tinte, per non affogare in sè stessa, per non inaridirsi in un fasto generico e grigio. Il bisogno di ammirare conduce subito il critico al bisogno di giudicare; la gradazione è lo scheletro di questo sentimento. L’autore cerca degli attributi per esprimersi, e d’istinto costruisce una scala con il soccorso del vocabolario. Il critico avvilente ha meno bisogno di questo soccorso dell’aggettivo appropriato. La stroncatura trova in sè stessa le sue risorse, e poiché ogni opera può sempre essere abbassata più facilmente che [p. 155 modifica] non glorificata il critico tende a evitare, per pigrizia, di costruire una scala di valori che non gli servirebbe, sul momento, che a impicciarlo. Ma a parte questo, Vasari ha potuto dare a ogni suo giudizio delle proporzioni cosí studiate perchè giudicava tutti gli artisti con un solo metro. I critici moderni, e sopratutto i malcontenti critici italiani, giudicano ogni opera alla stregua di un ideale che stabiliscono lí per lí, purché l’opera non l’abbia raggiunto. Mi ricordo di un romanzo di avventure, in cui un personaggio valicava le Ande attaccato a due condors giganteschi, guidandoli con due brandelli di carne eternamente appesi dinnanzi al becco. Cosí fanno, in genere, i critici: senza vedere quello che c’è, criticano un libro per quello che dovrebbe essere, allontanando, a mano a mano che s’ingrandisce l’opera, il fine che dovrebbe raggiungere. Non si può cosí distinguere un’opera dall’altra, poiché tutte le opere sono degli uccelli che corrono dietro a dei brandelli di carne e tutta la vita letteraria non sembra che un cimitero di ideali sciupati. Gli scrittori non sono spinti nè a ingrandire il loro mondo nè a rendere le loro opere più perfette, poiché sentono che nessuno vorrà tener conto del loro sforzo. Muoiono infatti le fondamenta della critica: le categorie. Perchè si possono stabilire un certo numero di vaste «categorie, nelle quali ogni artista è l’ultimo o il primo; e il critico quando giudica un artista, e lo glorifica come primo o lo censura come ultimo, deve prima di tutto stabilire se è il primo dell’ [p. 156 modifica] ultima categoria o l’ultimo della prima; ma non può far questo se non ha un metro unico con cui stabilire, anzitutto, le categorie; e il pubblico non potrà mai capire il valore preciso della sua critica, finché vedrà lodati dei mediocri, perchè il critico li considera i primi dell’ultima categoria (ma non lo dice), e censurati dei grandi, perchè il critico li considera gli ultimi della prima.

Ma che crede il critico di fare, scombinando le idee del suo pubblico a questo modo? Pensa forse che il pubblico s’accorga di queste categorie, che egli non ha avuto la forza intellettuale di stabilire perchè gli mancava un sistema di idee, e che sente ribollire nebbiose in sè stesso? Il pubblico non le vede davvero, e scambierà l’abile ciarlatano per il grand’uomo e il grand’uomo per il ciarlatano — e la colpa è dei critici.

4 Maggio

Gli amici mi dicono: Vasari sapeva ammirare. Sta bene. Ma credi tu che ammirando fosse consapevole del suo merito? Credi tu che sapesse la virtù animatrici delle sue lodi?

In questi giorni l’ho riletto quasi tutto. Posso rispondere di si. Vasari voleva ammirare. Ce lo dice fra l’altro egli stesso nella vita di Lorenzo Ghiberti.

«Nè è cosa che più desti gli animi delle genti e faccia lor parere meno faticosa la disciplina degli [p. 157 modifica] studi che l’onore e l’utilità che si cerca poi dal sudore delle virtù, perciocchè elle rendono più facile a ciascuno ogni impresa difficile e con maggior impeto fanno accrescere le virtù loro quando le lodi del mondo si inalzano. Perchè infiniti che ciò sentono e veggiono, si mettono alle fatiche per venire in grado di meritare quello che veggiono aver meritato un suo compatriota; per questo anticamente o si premiavano con ricchezza i virtuosi o si onoravano con trionfi ed immagini.»

E nel Proemio alle Vite scrive: «Conciossiachè io ho piuttosto Voluto, con queste rozze fatiche mie, incoraggiando gli egregi, render loro in qualche parte l’obbligo che io tengo alle opere loro, che mi son state maestre ad imparare quel tanto ch’io so, piuttosto che malignamente vivendo in ozio, esser censore delle opere altrui, accusandole e riprendendole come alcuni spesso costumano». (Proemio, pag. 6).

Tutto quello che ho scritto di Vasari in questo mese di maggio l’ho trovato formulato in una piccola frase, nel proemio alla seconda parte delle vite:

«Mi sono ingegnato non solo di dire quel che hanno fatto, ma di scegliere ancora discorrendo il meglio dal buono e l’ottimo dal migliore». (Pag 131).

Vasari vuol scegliere, graduare: distingue il meglio dal buono, l’ottimo dal migliore; ma vuole [p. 158 modifica] ammirare, perchè non ammette nemmeno il caso che ci sia del cattivo, del peggiore, del pessimo.

Perchè Vasari s’è messo a scrivere le Vite?

«E per più contento di molti amici fuor dell’arte, — scrive — ma all’arte affezionatissimi, ho ridotto in un compendio la maggior parte dell’opera di quelli che ancor son vivi, e degni di esser sempre per loro virtù nominati; perchè quel sospetto che altra volta mi ritenne, a chi ben pensa, non ci ha luogo, non mi proponendo se non cose eccellenti e degne di lode; e potrà forse essere questo uno sprone che ciascun seguiti d’operare eccellentemente e d’avanzarsi sempre di bene in meglio di sorte, che chi scriverà il rimanente di questa istoria potrà farlo con più grandezza e maestà, avendo occasione di contare quelle più rare e più perfette opere, che di mano in mano dal desiderio di eternità incominciate, e dallo studio di si divini ingegni finite, vedrà per innanzi il mondo uscire dalle vostre mani. Ed i giovani che vengono dietro incitati dalla gloria (quando l’utile non avesse tanta forza) s’accenderanno per avventura dall’esempio a divenire eccellenti». (Proemio, pag. 1).

E ancore nel proemio alle Vite:

«E ci potrà forse anche questa considerazione accrescer l’animo anche a virtuosamente operare, e vedendo la novità e grandezza dell’arte nostra, e quanto sia stata sempre, da tutte le nazioni e particolarmente dai più nobili ingegni e pregiata e premiata, spingerci e infiammarci tutti a lasciare il [p. 159 modifica] mondo adorno di opere spessissime per numero e per eccellenza rarissime». (Proemio pag. 2).

5 Maggio

Com’è dolce la primavera a Firenze! Se non fosse che ogni tanto, in qualche rigurgito troppo intenso di caldo, quando il tepore si muta in ardore, ci si sentisse cadere troppo rapidamente nell’estate, il mese di maggio sarebbe fatto apposta per godersi, passeggiando, il fasto solatio di Via Tornabuoni, l’eleganza abbagliante del Ponte Santa Trinità, o l’incandescente silenzio di S. Francesco a Fiesole. Sul Ponte S. Trinità, sotto le statue delle stagioni, delle donne vendono dei corbelli pieni di fiori e sopratutto di fiori viola, che hanno l’aria di rapprendere in coaguli più densi di colore, l’aria dei Lungarni. Le donne, con le guance ravvivate, luccicano passando dall’ombra al sole come delle api con le ali d’oro. La città, la luce, le donne tutte hanno qualcosa di provvisorio. Si vedono delle collane di gesti comporsi attraverso le strade in uno scintillio di colori festevoli, e un po’ chiassosi, e disfarsi agli angoli come per un incantesimo. Si vive in uno stato di beatitudine, accresciuta da non so che ansia. La mattina, i campanili e sopratutto il campanile di Giotto sembrano fatti di una materia rosa, gelida e quasi fragile, per il sole che li coglie di sbieco, quando è ancora obliquo; e la sera, sul sagrato di Santa Maria Novella, dei bambini giocano gridando mentre una stella brilla in quel [p. 160 modifica] quadrato di cielo verde, che s’apre sopra la cappella degli Spagnoli. E’ una giornata in cui un uomo, qualunque cosa faccia, pensa ad altro. Non ho più voglia di scrivere, nè di meditare. E’ meglio andare a zonzo.