Le baruffe chiozzotte/Nota storica

Nota storica

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Atto III
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NOTA STORICA.

Sulla fine del secolo decimosettimo il padre Coronelli ci lasciò nell’Isolario dell'Atlante Veneto (Parte 1, Venezia 1696, pp. 62-66) una breve descrizione della città e del distretto di Chioggia: «.... E ridotta, come si trova al presente, nel circuito di un miglio e mezzo in circa, di forma quasi ovale, divisa da una bella strada lunga circa mezzo miglio, che forma una continuata Piazza, passandovi anche pel mezzo un canale detto Vena. Sopra questo, nove ponti, parte di pietra e parte di legno, danno la comunicatione dall’una all’altra parte, e benché havesse prima i suoi rivi, che andavano alle case de’ particolari, come in Venetia, hoggidi sono quasi tutti atterrati. Resta però la Città circondata tutta dall’acqua; un ponte di pietra, con beli’ arco, e torre antica a mezzogiorno, la unisce con altra Isoletta, dove sono i Conventi de’ P.P. Minori Osservanti e de’ Capuccini:» un lungo ponte, già di legno, la congiunge con Brondolo. «Mezzo miglio lontano, verso levante» vi ha un lido pieno d’ortaglie che «dal suo Porto scorre sin a quello di Brondolo; ed a tramontana» le già famose salme, che ora provvedono soltanto «al bisogno della Città, lontana da Padova 25 miglia ad occidente, altrettanti a tramontana da Venetia». Intorno alle varie occupazioni degli abitanti, l’autore aggiungeva: «Que’ Cittadini, che non sono impiegati nelle cariche del Governo.... s’esercitano in gran parte nella Nautica, gl’altri nella Pesca, e nella coltura delle hortaglie.... Le Donne s’occupano incessantemente nel lavoro de’ merletti, o siano pizzi di filo bianco, trovandone grand’esito nella Dominante, ed in altre Città vicine, dove i loro Mariti o parenti vanno a trafficarli». Maggiori notizie si possono leggere, circa un secolo più tardi, nel tomo III della Topografia Veneta ovvero Descrizione dello Stato Veneto (Venezia, Bassaglia, 1786, pp. 279-288). «Tutto il Distretto contiene circa 30.000 abitanti, una città, un borgo grande e 6 villaggi. Vi si contano 3 porti». Chioggia «è città vescovile non tanto piccola, con belle fabbriche, magnifiche chiese, e circa 20.000 abitanti. Vi si trovano 4 Conventi di regolari, un Conservatorio di fanciulle, un Ospedale per gl’infermi e pellegrini, e 4 Luoghi Pii, con un Monte di Pietà. Tutta la citta è divisa in quattro parrocchie. La città è di forma ovale ed assomiglia nella sua costruzione ad una spina di pesce. La sua lunghezza si stende a 480 passi, e la sua larghezza a 200; girando in circuito circa due miglia italiane. Questa città sarebbe perfettamente isolata, se non fosse congiunta al Lido di Brondolo per mezzo di un ponte di pietra di 43 archi assai stretto, ma lungo 250 passi. Viene divisa in due parti da un largo e navigabile canale, detto della Vena, sopra cui si trovano 9 ponti; e tra questi il primo, all’ingresso della città verso Venezia, è di un arco solo tutto di marmo». «Gli abitanti di Chioggia si esercitano principalmente nel traffico, nella navigazione, nella pesca, nella caccia, e nella coltivazione delle vigne. Le donne anch’esse s’occupano utilmente nel lavoro di merli. Il Lido di Sottomarina [p. 100 modifica]forma quasi un sobborgo di Chioggia con circa 2000 abitanti. Questo Villaggio è situato sopra un lido che separa le Lagune dal mare».

Questa singolare città che vantava origini troiane e romane, rivale di Padova fin che non fu distrutta e arsa dai Genovesi nel memorabile assedio (1379), prima città del Dogado, dopo Venezia, e di Venezia braccio vigoroso, avanzato a mezzogiorno verso il mare, godeva il privilegio di un suo Consiglio Maggiore «composto di soli cittadini originari veneti del distretto», di un Consiglio Minore, di un Cancelliere Grande, nell’abito, nella dignità e negli onori simile «al Gran Cancelliere della Dominante»: sebbene quale capo riconoscesse un rettore nobile veneziano col titolo di podestà (Topografia cit.) Seanche sparirono ormai le vecchie magistrature, e gli antichi usi cedettero ai tempo; seanche la gloriosa tartana («legno grande e robusto, di forma media tra l’antica galeazza e l’attuale trabaccolo») fu sostituita a poco a poco «dalla varia gente dei bragozzi e d’altri legni più agili forse ma non più solidi nè più belli» (Molmenti e Mantovani, Le Isole della Laguna Veneta, Venezia, 1895, p. 96); seanche la tonda o ninzoletto, mezza gonna arrovesciata sul capo, non circonda quasi più il viso delle donne chioggiotte, l’aspetto della città e della popolazione rimane pur sempre caratteristico e originalissimo.

«Non calli e canali intrecciati in un dedalo come a Venezia» raccontano i descrittori moderni, «non prospettive capricciose e strane: ma una pianta regolare, quasi geometrica». Nulla però delle nostre recenti officine industriali: qui siamo nella patria dei marinai. «Alberi, antenne, pennoni di navi, pali da sostenere le reti, pertiche da reggere nasse, cestoni, cordami», barche «d’ogni grandezza e d’ogni foggia» e bastimenti «di gran cabotaggio», «grandi vele latine dipinte d’immagini simboliche, stampate di lettere maiuscole, listate e inquartate come stemmi; remi enormi, che due uomini muovono a fatica, e remi leggieri....; àncore buone da mordere nella sabbia e nello scoglio..... E intorno, su le rive, son magazzini, cantieri, botteghe ingrommate di salsedine; e da per tutto diffuso, anzi connaturato nell’aria, quel tanfo salso che a Venezia si chiama, con termine intraducibile, freschin, e del quale viene or sì or no a consolare le nari qualche esalazione di pece e di catrame» (Le isole ecc., pp. 94-95). Tale la città, delizia e tormento dei pittori; ed ecco dal Molmenti e dal Mantovani ritratti al vivo gli abitanti, gli arditissimi pescatori dell’Adriatico: «Bei tipi questi Chioggiotti: figure aduste e un po’ curvate dalla fatica del remo e della rete, facce arse da tutti i venti del libero mare, scolpite a profili risoluti, a piani vigorosi, con occhi gravi e acuti bruciati intorno dal sole e spesso tormentati da malattie: gente che cammina adagio, con quel curioso oscillare su’ ginocchi che è proprio di chi per usanza cerca l’equilibrio sul mobile piano della barca, con la pacatezza di chi per solito ha da fare un cammino breve e mal sicuro». Portano la «giacca grossa o cappotto grossissimo di lana con l’ampio cappuccio, berrettone di lana rossa o scura, zoccoli di legno, alte calze di lana rimboccate al ginocchio, e in bocca la pipa, la tradizionale, l’inseparabile pipa dal caminetto di creta» (l. c., pp. 96-98). Povere le case, ma pittoresche. Tuttavia i Chioggiotti amano «più la barca che la casa.... Anche nelle giornate di riposo preferiscono sedere su la riva di un canale o sotto una loggia in piazza che starsene rinchiusi nelle stanze affumicate e ammorbate dal pesce fritto» (pp. 102-103. V. un po’ prima, [p. 101 modifica] con tinte alquanto esagerate, Luigia Codemo, Chioggia e Schio, Ven. 1872, rist. in Svago a buona scuola, Treviso, 1880; e Charton Edoardo, Chioggia, dans la Lagune Vénitienne, in Le tour da monde, ult. fasc. 1873: più di recente R. Calzini, L’isola della felicità, in Emporium, luglio 1910; o Gino Piva, I piloti del nostro mare, in Resto del Carlino, 24 genn. 1915).

Ora in mezzo a questo popolo che aveva suoi costumi, sue tradizioni, sue occupazioni, un’indole sua propria, e quasi un suo dialetto, il Goldoni aveva abitato interrottamente fra il 1721 e il 1729, cioè fra i 14 e i 22 anni, in quell’età in cui s’imprimono più fortemente nell’animo le sensazioni. Ne parlò per la prima volta nella prefazione del t. V dell’edizione Pasquali delle sue Commedie (v. vol. I della presente ed., p. 15) che usci l’anno 1763; ne tornò a parlare nella prefazione alle Baruffe Chiozzotte, che uscirono l’anno 1774 nel t. XV, e infine nel capitolo quarto delle Memorie francesi, stampate nel 1787. A Chioggia il giovine Goldoni, come tutti ricordano, capitò improvvisamente alla presenza della madre dopo la fuga da Rimini con la compagnia degli attori comici; a Chioggia segui per qualche tempo il padre nelle visite agli ammalati, finchè per poco non ammalò lui stesso in grazia d’una fanciulla «assai più bella che onesta» (vol. I, p. 18); a Chioggia veniva da Pavia nei mesi di vacanza, e vi leggeva le commedie del Cicognini e del Fagiuoli, e la Mandragola del Machiavelli, e vi scrisse «una quantità di Sonetti» e un panegirico di S. Francesco, e certi «dialoghi comici per alcune fanciulle in un Monastero» (vol. I, pag. 32); qui fece un amaro ritorno quando fu scacciato dal collegio Ghisleri, e qui finalmente entrò negli uffici pubblici quale aggiunto al coadiutore del Cancelliere criminale (vol. I, p. 46), dal gennaio del 1728 all’aprile del 1729, essendo podestà il N. U. Francesco Bonfadini (v. lettera di dedica della Donna di garbo ad Andriana Dolfin Bonfadini: vol. I della presente ed.).

Nelle memorie scritte in lingua francese il Goldoni aggiunse, prima di descrivere la partenza per Feltre, una storia fra comica e romanzesca d’un suo amore con una bella e ricca educanda del convento delle monache di S. Francesco, la quale non volendo attendere troppo a lungo il futuro dottorino, lo tradì bellamente e si accontentò di sposare il vecchio tutore. Non sappiamo se in questo racconto la fantasia aiutasse il poeta delle Baruffe Chiozzotte. Secondo una tradizione raccolta da G. M. Urbani de Gheltof (ripetuta dal Molmenti, l. c, p. 104, e da altri), il Goldoni abitava proprio «di fronte al monastero di S. Francesco e precisamente nella casa domenicale di Rosalba Carriera, la gentile e meravigliosa pittrice a pastelli»; e la ragazza si afferma a Chioggia che fosse della nobile famiglia Marangoni (C. G. a Chioggia, in Ateneo Veneto, dic. 1883, p. 329). Ma in quello stesso scritto l’Urbani, che tante volte si compiacque di canzonare i propri lettori, dice altre cose alle quali non dobbiamo prestar nessuna fede. Credo opportuno, ciò non ostante, di riferire le sue parole: «L’Archivio Civico di Chioggia possiede in parecchie filze il resoconto dei processi, gran parte dei quali è scritta di pugno del Goldoni. E non è meraviglia se in quelle stesse carte troviamo il tessuto delle Baruffe Chiozzotte, gli elementi necessari ad ispirarle. - Nel 1731 Francesco Rossetti padron di barca intentava un processo a Zuane Varagnolo detto il Cortesan, imputato di insidie amorose alla fidanzata del Rossetti, e di averlo [p. 102 modifica] insultato mortalmente gettandogli un pezzo di zucca sulla faccia, minacciandolo di coltello e di sassate aggiungendo: Senti Checo il mio sopranome è Cortesan, sangue con l’aggiunta di.... te vojo amazzar; altro che.... te vojo amazzar andarò via di Chioza ma te vojo prima amazzar. Sono gli amori di Titanane e di Lucietta, le questioni di Toffolo Zavatta, le sue esclamazioni: Sti baroni, sti cani, sangue de diana, me l’ha da pagare. Nel rendiconto del processo apparisce che il Varagnolo viene condannato, mentre il tipo della commedia si rappacifica mercè l’intervento del coadiutore. - Un altro personaggio che ha qualche importanza nell’azione è quello di paron Fortunato, il quale per difetto di pronuncia si rende comicissimo. Egli che diceva pettè per aspettate, potare in terra de atto pesse, e de faina, trova corrispondenza in altro paron de barca balbo, il quale comparisce in un processo del 1732 redatto pure dal Goldoni». Tutta questa laboriosa e arguta costruzione dell’Urbani precipita d’un colpo, perchè, come molti avvertirono (primo o fra i primi Ernesto Masi, Parrucche e sanculotti nel sec. XVIII, Milano, 1886, p. 67) il Goldoni era già a Feltre fin dal maggio 1729 e a Chioggia non fece mai più soggiorno, sebbene più volte vi facesse un rapido passaggio nei suoi viaggi da Venezia a Ferrara e a Bologna, per via di acqua. Se l’autore delle Baruffe avesse attinto a un episodio reale la tela della commedia, quasi certamente o prima o poi lo avrebbe detto, per quella sua abitudine di fare le confessioni al pubblico. Nelle memorie italiane, dove accenna alla popolazione chioggiotta, dice soltanto: «e que’ pizzi e quelle Donne e que’ Pescatori mi hanno l’argomento somministrato di una Commedia rappresentata sopra le Scene» (vol. I cit., p. 15). E nelle memorie francesi: «...J’avois eu affaire à cette population nombreuse et tumultueuse de pêcheurs, de matelots, et de femmelettes, qui n’ont d’autre salle de compagnie que la rue: je connoissois leurs moeurs, leur langage singulier, leur gaieté et leur malice; j’etois en état de les peindre, et la Capitale, qui n’est qu’a huit lieues de distance de cette Ville, connoissoit parfaitement mes originaux» (P. II, ch. 42). Questo bisogna credere, e nient’altro. Del resto sì misera questione sembra rimpicciolire il Goldoni. La grandezza dell’artista in questa commedia non consiste nel trasportare un avvenimento o un personaggio reale sulla scena, bensi nel trasportarvi i caratteri particolari di un’intera popolazione. Per tale rispetto io non conosco nessuna commedia più vera delle Baruffe chiozzotte, nè più originale.

Nella intestazione della commedia si legge che le Baruffe furono rappresentate «per la prima volta in Venezia il carnovale dell’Anno 1760» (v. edizioni Pasquali, Zatta e tutte le altre antiche o recenti); e tale data trovasi ripetuta nei Mémoires. Ma invano di questa recita si cercherebbe notizia nei documenti del tempo. Soltanto nel numero 95 della Gazzetta Veneta del Chiari, ai 23 gennaio del 1862, si annunziava: «Nel Teatro a S. Luca è imminente la rappresentazione d’un altra Commedia nuova intitolata, in dialetto nostro, Le Chiozotte, e quanto prima ne sentiremo il giudizio del Mondo». E il mondo ha espresso in fatti il suo giudizio; ma ci resta da conoscere quale fosse quello dell’abate bresciano, perchè egli si dimenticò di stamparlo. Poco male: a noi basta che la data del 1762 sia confermata dall’elenco delle recite del teatro di S. Luca, scoperto da Aldo Ravà nell’archivio del Teatro Goldoni (di [p. 103 modifica] proprietà dell’avv. Marigonda). Se possiamo fidarci delle Memorie, la commedia ebbe un esito brillantissimo e fece mirabile effetto; e si distinse fra tutti gli interpreti l’attrice Caterina Bresciani, la celebre Ircana, che sapeva trionfare così nel genere comico più elevato, come nel più basso, secondo la classificazione del nostro autore. Ma, in conclusione, di questo singolare capolavoro non s’accorsero bene da principio i concittadini del Goldoni, nè, a dire il vero, l’autore stesso (v. Maddalena, Bricciche goldoniane [Le Baruffe Chiozzotte], Alessandria 1894, pp. 23-24).

Come si sa, il conte Carlo Gozzi, benchè fosse ammiratore del Berni e del Burchiello, non poteva soffrire le maravigliose commedie dialettali in cui rivive nei suoi più arguti atteggiamenti l’antico popolo delle lagune veneziane, e condannava senza alcuna pietà, tutti insieme, «il Campiello, le Massere, le Baruffe Chiozzotte e molte altre plebee e trivialissime opere del Signor Goldoni». Così scriveva nel 1772, stampando il primo tomo delle Fiabe, nella nota aggiunta al Prologo dell’Amore delle tre melarancie; e nella prefazione al Corvo additava scherzando «le bellezze e le dignità delle Baruffe Chiozzotte, e i contrasti di conseguenza sulle zucche del Signor Goldoni». Certo alludendo al Gozzi e ai seguaci del Gozzi il buon dottor veneziano, da Venezia lontan do mile mia, difendevasi due anni dopo nella prefazione delle Baruffe, quasi chiedendo perdono al pubblico e ai lettori di aver «moltiplicato sopra le Scene questa sorta di soggetti e di argomenti bassi e volgari», e invocava a discolpa l’esempio delle commedie dette tabernariae dai Latini e di quelle dette poissardes dai Francesi; e facevasi forte dell’autorità di M. Vadé e del suo editore. (Gio. Gius. Vadé, 1720-57: la sua commedia più famosa, gli Ingaggiatori, è del 1756. Sulle comédies poissardes del Vadé si veda, p. es., Lenient, La comédie en France au 18.e siecle, Paris, 1888, t. II, cap. 21, M. Albert, Les théâtres de la Foire Paris, 1900, cap. 7 e Maddalena, Bricciche cit., pp. 28-30). Va, va, Carlo Goldoni, i posteri ti hanno ben perdonato: le rozze voci dei tuoi Chioggiotti risuonano da un secolo e mezzo sempre più belle, e la tartana di paron Toni si profila sempre più gloriosa sul cielo e sul mare adriatico. - Ma il Gozzi, com’era suo costume, non volle mai cedere; e anche nella sua più tarda età, aggiungendo nuovi commenti e riflessioni all’ultimo tomo delle sue Opere che porta la data del 1802 (e uscì sulla fine del 1803, o nel 1804), ricordava con compiacenza l’odio del Baretti contro i capolavori goldoniani, giudicati pure dal critico torinese quali «farse triviali e plebee sparse di un indecente costume» (pp. 85, 121 e 140: e Memorie inutili, Venezia 1797, I, 279). Il primo famoso ammiratore delle Baruffe Chiozzotte, di cui ci resti testimonianza, è dunque Volfango Goethe. La sera del 1 ottobre 1786 il grande poeta tedesco, rincasando dopo la recita a cui aveva assistito nel teatro di S. Luca, scriveva nel suo giornale di viaggio: «Ora finalmente posso anche dire d’aver veduto una commedia!». Tutti i personaggi, seguita Goethe, sono gente di mare, e sono resi a meraviglia. Ero stato il giorno prima in quei luoghi e avevo presenti il linguaggio e le maniere degli abitanti. (Noto qui fra parentesi che nella lettera del giorno 9 l’autore racconta in fatti d’essere stato ad ammirare i murazzi fino a Pelestrina «di fronte a Chioggia», ma non a Chioggia stessa, ch’egli vide qualche giorno più tardi, di passaggio. [p. 104 modifica] recandosi in Burchiello per le lagune e per il Po a Ferrara). «Seanche non riuscii ad afferrare lì per lì qualche singola allusione, potei tener dietro benissimo all’insieme». Tuttavia da alcune gravi inesattezze che sfuggono al Goethe nel riferire il riassunto della commedia, e dalla soverchia importanza attribuita al personaggio di paron Fortunato, giustamente il Maddalena ebbe a persuadersi che l’autore del Werther, ignorante del dialetto veneziano «in bocca a Chioggiotti per giunta», non riuscì a capire «gran cosa». (Proprio il contrario afferma Carlo Segrè, Goethe e «Le baruffe Chiozzote», in Saggi critici di letterature straniere, Firenze, 1894, p. 237). A ogni modo cediamo ancora la parola a Goethe: «Non ho mai veduto la gioia che mostrò di provare il popolo vedendo dipintosi al naturale. Risa e grida d’allegrezza dal principio alla fine.... Grandi elogi merita l’autore che ha fatto dal niente il più gradito passatempo del mondo. È una cosa però che riesce al poeta solo ritraendo immediatamente il gaio popolo che lo circonda. La commedia tradisce assolutamente una mano pratica» (versione di E. Maddalena dall’articolo Goethe e il Gold., in Fanfulla della domenica 4 settembre 1892, riprodotto in Bricciche goldon. cit.; per questo episodio v. pure L. Vianello, W. Goethe e Le baruffe Chiozz., nel Primo centenario di C. G., numero unico, Venezia febbr. 1893).

Una lode dedica il poeta tedesco anche agli attori, e specialmente alla prima donna, per la fedele imitazione dei costumi popolari. Credo di riconoscere in questa bella attrice la figlia di Giuseppe Lapy, Luigia, che aveva sposato l’attore Antonio Belloni, con cui passò nell’89, morto già il padre, nella compagnia Battaglia a S. Gio. Crisostomo. Recitavano pure a S. Luca, se ben m’appongo, Anna Perelli, col marito Luigi truffaldino, Teresa Consoli, Laura Checcati, Francesco Martelli e quel Petronio Zanarini, bolognese, che sosteneva le parti di padre e lasciò fama di grandissimo comico. Quattro anni dopo, mutata in parte la compagnia sotto la direzione del Perelli, si leggeva nella Gazzetta Urbana Veneta (27 ott. 1790, n. 86): «La Comica Compagnia a S. Luca, senza mai produrre sino a ieri nulla di nuovo, seppe mantenersi il concorso e l’aggradimento del Pubblico. Il valore della nuova prima donna [Luigia Lancetti] e del celebre Sig. Petronio, che recitò più volte, ne hanno il maggior merito. Delle più vecchie Commedie del nostro Goldoni si udirono con molta soddisfazione, come le Baruffe Chiozzote, i quattro Brontoloni, il Medico Olandese ed altre. Il bello, il vero non invecchia mai. Sappia il Molière dell’Italia, che la sua Patria non si scorda di lui, e che al venir dal Teatro dopo aver udita qualche sua Commedia, si sente a ripetere: — Vale più una di queste scene che tutte le nuove stramberie de’ moderni Autori».

Per trovare dopo il poeta tedesco uno spettatore e un ammiratore altrettanto illustre, conviene lasciar passare molti anni. Nell’inverno del 1858-59 Riccardo Wagner scriveva a Venezia, nel palazzo Giustiniani, le note del Tristano e si svagava dal lavoro con qualche visita al teatro Camploy, «dove venivano rappresentate molto bene le commedie del Goldoni». Più spesso, come racconta nelle sue memorie, recavasi «alle rappresentazioni diurne popolari al teatro Malibran. Quivi, costando l’ingresso solamente 6 crazie, ci trovavamo tra un pubblico eccellente (la più gran parte in maniche di camicia), per il quale si rappresentavano quasi sempre commedie di carattere cavalleresco. [p. 105 modifica]

Ma un giorno assistei, con mia gran meraviglia e con vera delizia, alla rappresentazione della commedia grottesca Le Baruffe Chioggiotte, che già a Goethe era piaciuta tanto, e che fu data con tale naturalezza che io, per quanto sappia, non so trovar nulla di simile per poterne fare il confronto» (tolgo la citaz. tradotta dal fase. 945, I maggio 1911, della Nuova Antologia, p. 177.— Mi avverte l’amico Ricciotti Bratti che dai 25 dicembre 1858, per tutto il carnovale ’59, il teatro Malibran fu occupato dalla Compagnia acrobatica, ginnastica, mimico, plastica e danzante dei fratelli Chiarini; in questo medesimo periodo recitava sul teatro Camploy la Veneta compagnia drammatica diretta da G. Duse, la quale nelle due ultime serate, lunedi e martedì 7 e 8 marzo 1859, rappresentò le Baruffe chiozzotte).

Ma ormai da gran tempo il pubblico batteva le mani e i critici s’inchinavano al capolavoro goldoniano. Tuttavia è degno di nota che i più vecchi biografi e critici del nostro commediografo, come il Pignatorre, il Meneghezzi, il Carrer e moltissimi altri, non parvero fare alcun caso delle Baruffe Chiozzotte. O forse non osarono parlarne. Gravava ancora sul teatro popolare del Goldoni il famoso giudizio di Carlo Gozzi, che intimidiva i signori letterati: «Moltissime delle sue commedie non sono che un ammasso di scene, le quali contengono delle verità, ma delle verità tanto vili, goffe e fangose, che, quantunque abbiano divertito anche me medesimo animate dagli attori, non seppi giammai accomodare nella mia mente che uno scrittore dovesse umiliarsi a ricopiarle nelle più basse pozzanghere del volgo, nè come potesse aver l’ardire d’innalzarle alla decorazione d’un Teatro e sopratutto come potesse aver fronte di porre alle stampe per esemplari delle vere pidocchierie» (Ragionam. ingenuo, in Opere, Ven. 1772, I, p. 56).

Tanto più bisogna apprezzare questa pagina dimenticata di Domenico Gavi, scritta nel 1826: «Qui una precisione di dialogo, una rapidità, un movimento che più non si può. Ella è per se medesima un niente: piccoli mali umori, punture d’una parola, ed ecco le preste ire scoppiano, e tra le donne e tra gli uomini grande riscaldamento di fantasia, urti di cuore, insolenze, e da scarse scintille incendio formato. Molti attori adopera a un medesimo tempo sopra la scena, e tutti move, anima, fa parlare, e di tutti mai non dimentica nè il carattere, nè il modo in che si trovano. Gli usi, i proverbi, i lazzi, le idee sì consapevoli a quella gente da mare, gli amori di Lucietta e Titta, ingenui e giovanili che inteneriscono, già non perchè abbiavi contrattempi e forti avventure, ma solo perchè la bella e semplice e sempre cara Natura è dipinta, quel contrasto di gelosie, di orgoglio così giudiziosamente toccato, ogni cosa è nitido specchio della verità. Questa commedia è molto difficile da rappresentarsi per la minutissima spezzatura del dialogo, e pel gran movimento e calore dei personaggi. Una sola volta io l’udii dalle scene; e ho temuto non mi si aprisse dal ridere il petto, e mi dolevan le coste, e tutti senza ritegno ridevano» (Della vita di C. G. e delle sue commedie, Milano, 1826, pp. 158-9). Pure non tutto approva: per esempio, nel secondo atto osserva che «Isidoro di troppo fra quelle donne s’intrica, e troppo fa il cortese. L’ultimo atto languisce, fuor solo che talvolta risorge, come vampa che esce da quasi spento incendio; finisce con troppi matrimonii».

Nemmeno credo che fuori delle lagune si recitassero e si gustassero [p. 106 modifica]facilmente le Baruffe. A Venezia sappiamo che sulla fine del settecento si vedevano spesso sul teatro di S. Luca per merito della compagnia Perelli (per esempio ai 10 febbr. 1790, 1O e 11 febbr. 1792, 13 nov. 1796, 8 febbr. 1797: V. Gazzetta Urb. Ven. e Giorn. dei Teatri di Ven., in Teatro moderno applaudito); e qualche volta le recitava a S. Gio. Crisostomo la comp. Battaglia (15 nov. 1794, 21 gennaio 1796: c. s.). Segue poi, nel principio dell’ottocento, una vera e propria lacuna, interrotta da una recita nel teatro San Cassiano da parte della comp. Bressiani (5 nov. 1805) e da altra nel teatro di S. Salvatore, o S. Luca, da parte della comp. Raftopulo (5 febbr. 1806: v. per l’una e l’altra il Giorn. dei teatri comici di Ven. di Velli e Menegatti). Le troviamo quindi nel repertorio delle compagnie Fabbrichesi (S. Gio. Grisost. 23 febbr. 1811), Dorati (S. Benedetto 12 e 14 nov. e 12 dic. 1812; S. Gio. Grisost. 27 febbr., - 5 marzo e 19-22 marzo 1820: v. Giornale dipartimentale dell’Adriatico, Gazz. privilegiata di Ven. e Giorn. dei teatri comici per l’a. 1820.— Quest’ultimo così annuncia le recite: «Le Bar. Chiozz. Commedia di 3 atti di C. G. con arie di musica»), Perotti (S. Luca 12-13 febbr. 1817) e Morelli (S. Benedetto 17-19 sett. 1820; S. Luca 18 marzo 1822, 21-22 ag. 1823, 16-17 febbr. 1824; S. Bened. 28 febbr. - 2 marzo 1825; e ivi, 23 marzo 1825, col titolo Le discordie dei noviziadi Chioggiotti; teatro Gallo a S. Bened., 27-29 febbr. 1828: v. Gazzetta privilegiata).

Ciò è poco: è vero che di moltissime rappresentazioni ogni ricordo è perduto, ma per alcuni periodi abbiamo elenchi completi. Le Baruffe seguirono un po la varia fortuna del Goldoni stesso sul palcoscenico italiano. Intorno al 1830 la fama del nostro commediografo si ridesta in tutta Italia. A Venezia notiamo una recita nel ’29 della comp. Botteghini- Vedova (S. Luca 23 ag.), altra nel ’30 della comp. Modena che destò entusiasmo (S. Luca 18 febbr.: v. Censore universale dei teatri, Milano, n. 16) e altra della comp. Goldoni (t. Gallo a S. Benedetto, 11 dic.); moltissime dopo il ’30 della comp. di Luigi Duse (teatro diurno ai Giardini Pubblici, 21-22 maggio ’30; S. Luca 23-25 nov. ’31; S. Samuele 17-19 dic. ’33, 3 febbr. e 2 maggio ’34; Apollo 12-13 febbr. ’33; S. Samuele 21 e 26 marzo ’40, 17 genn. e 22-25 febbr. ’42; Apollo 19 dic. ’43, 3-4 genn. e 12 marzo ’44, 27-30 genn. e 27-28 febbr. ’45 e 6-7 genn. ’46; Malibran 6 febbr. ’47; t. Goldoni sulle Zattere 15-17 febbr. ’52 e 22 genn. ’53: v. Gazz. di Ven.). E dal capoluogo le recite si spargevano anche nelle più piccole cittadine del Veneto (a Oderzo, per es., nel Trivigiano, le Baruffe si udirono nel 1831, comp. Majeroni e Zane, nel ’33 comp. Capra-Duse, nel ’37 comp. Vedova, nel ’38 comp. Bonmartini, nel ’39 comp. Majeroni: v. C. Musatti, Il Teatro Sociale di Oderzo, Venezia 1914, estr. dall’Ateneo Veneto): passavano oltremare, in Istria e in Dalmazia (a Zara si nota una recita nel 1830, comp. Banzatti-La Tour; altre nel 1836, comp. Pilla-La Tour, nel ’39 comp. Zerri, nel ’41 comp. Vivarelli, nel ’46 comp. Straccia e Térzuoli, nel ’49, nel ’51 ecc.: v. G. Sabalich in Dalmata. 27 febbr. 1907).

Nel giornale drammatico intitolato I Teatri (di G. Terrario e G. Barbieri), che usciva a Milano, si ricordano alcune recite di questa commedia «veduta le tante volte e gustata come se udita la prima volta», per opera della Compagnia Ducale di Modena (Romagnoli e Bon) sul teatro Re (sett. [p. 107 modifica] e dic. 1827 e nov. ’28). Ma nel ’29 il Barbieri, rimasto solo direttore editore, non risparmiava qualche critica alla Comp. Ducale, e nemmeno al Goldoni: «....Entusiasti noi pure per il Burbero benefico, per il Curioso accidente, per il Molière e per tant'altre commedie che ci costerebbe troppo l'enumerare, ci facciamo però lecito d’osservare che col terz’atto, p. es., e vari altri brani di scene della Putta onorata, e forse anche un po’ colle Baruffe Chiozz., ritorniamo, ne sembra, all’antica burletta; e riceviamo certe lezioni di morale, di convenienza e di buona società che ognuno di noi potrebbe procurarsele in piazza dai fruttivendoli» (t. III, P. I. p. 371). Ahimè! Per fortuna Luigi Prividali, proprietario ed estensore del Censore universale dei teatri, pure a Milano, rallegravasi del grande concorso del pubblico a teatro Re nel settembre ’29, ove due commedie si erano recitate del Goldoni, il Molière e le Chiozzotte: «quella delle B. Chiozz., ch’io venero nel suo genere per un lavoro della più rara eccellenza, è tanto nota ed apprezzata generalmente, che quando si accorda il più alto encomio agli attuali suoi esecutori, e specialmente alla Romagnoli in questa sua parte impareggiabile, nulla resta più a dire» (n. 75). Nel genn. del ’34 la comp. Goldoni, cioè Bon, recitava ancora sullo stesso teatro; e il Barbiere di Siviglia, altro giornale milanese di musica, teatri e varietà, così commentava: «Le B. Chiozz. non si potevano far meglio. Bravissimi tutti. Il Pubblico ne ha riso di cuore, anco quel Pubblico che teme di avvilirsi ad applaudire alle produzioni goldoniane, perchè le piglia per insulsaggini, e le chiama cose appena degne del teatro della Stadera, insomma appena degne della popolaglia, come direbbe C. Botta. E a noi, poveri ciechi! sembrano degne soltanto delle persone colte e di spirito» (a. II, n. 4, art. firmato G. I.). Ma intanto anche altrove si applaudivano, per esempio a Firenze nel ’29 (teatro Alfieri: v. I teatri, lì, p. 826); a Torino (Costetti, Comp. Teatrale Sarda, Milano 1893, p. 100) e a Lucca (comp. Risenti e Solmi: V. Censore Univ., n. 38) nel "33. Nel citato Barbiere uno scrittore torinese diceva, toccando del Goldoni: «Col suo veramente originale quadro fiammingo delle B. Chiozz. ei ci diede il tipo della Commedia contadinesca o peschereccia, come la chiamavano gli antichi fiorentini, unica nel suo genere, in quel genere del quale più verun’altra commedia era comparsa in Europa dopo la tanto famigerata Tancia del Buonarotti (sic)» (a. I, 1833, n. 31). Dopo il 1840 la commedia diventa sempre più familiare e cara al pubblico italiano, ma dobbiamo accontentarci di riferire lo spoglio delle recite nella città nativa del Goldoni, compiuto pazientemente di sulla Gazzetta di "Venezia dall’amico e collaboratore Cesare Musatti: 22 e 23 ott. 1840, Malibran, comp. De Rossi; 15 apr. ’42 ivi, comp. Giac. Nalin; 22 luglio ’43 ivi, comp. Vivarelli; 30 genn. ’45, S. Benedetto, comp. Lipparini; 4 luglio ’45, Malibran, comp. Mingoni, Prosperi e Gandini; 27 ott. ’51, Malibran, filodramm. diretti da C. Hurard; 11 maggio ’52, S. Bened., comp. Bon; 29 maggio 52, nuova sala teatrale a S. Antonino, comp. Bosello; 25 genn. ’53, Apollo, comp. Cesare Asti e Comp.; 21-27 giugno ’55, Malibran, comp. Coltellini e Ristori; 23 ott. ’55, Apollo, comp. già Robetti e Vestri; 9 febbr. ’56, S. Samuele, comp. Lottini; 14-16 dic. ’56, Malibran, comp. Paoli, 22 giugno ’57 ivi, comp. Zoppetti; 23 nov. ’57, Apollo, comp. Boldrini diretta da Aless. Salvini; 7 genn. ’58, S. Benedetto, comp. Asti; 25 e 30 ag. ’58. S. Bened., comp. [p. 108 modifica] Elvira Respini; 6-8 febbr. e 22 maggio ’60, Malibran, comp. Giorgio Duse; 25-29 genn. ’63, Apollo, comp. Duse e Lagunaz dir. da Giac. Landozzi; 22 febbr. ’64 ivi, comica comp. Nazionale; 4 maggio ’64, Malibran, comp. Goldoniana; 18 genn. ’65, Apollo, comica Società Goldon. (ne facevano parte Eleonora Duse, Ettore e Frane. Paladini, P. Lagunaz e P. Vedova); 29 e 31 marzo ’67, S. Bened., comp. Ant. Papadopoli; 2 nov. ’67, Malibran, comp. Tassani e Covi; IO e 15 maggio ’68, S. Bened., comp. G. B. Zoppetti; 2-5 e 20 febbr. ’71, S. Samuele, 7 genn. ’74, Apollo, 19 marzo ’75, Goldoni, 19 e 24 marzo ’76, Rossini, comp. Morolin; 27 apr. ’84 e 6 nov. ’85, Goldoni, comp. E. Zago e C. Borisi dir. da Giacinto Gallina; I nov. ’86, Gold., comp. Zago dir. da Gallina; 2 e 19 febbr. ’87, Rossini, comp. Gaet. Benini; 24 ott. ’87, Gold., comp. Mezzetti; 3 1 genn. e 5 febbr. ’88, Rossini, comp. Enr. Gallina; 14 nov. ’89 e 12-13 nov. ’90, Gold., comp. Zago e Privato; 13 febbr. ’90 ivi, comp. Benim - Sambo; 21 febbr. ’92 ivi, comp. Gallina-Giozza; 6 ott. ’93 e 30 ott. ’99 e 28 ott. 1901, Rossini, comp. Zago - Privato; 13 nov. ’98, 27 nov. l900, 10 nov. 1901,.alibran, c. s.; 21 e 23 nov. 1901, Malibran, comp. E. Zago; 24 ott. 1903, Rossini, c. s.; 9 die. 1906, Malibran, comp. Dora Baldanello dir. da Gius. Pietriboni; 30 genn. 1907 e 22 genn. 1910, Gold., comp. E. Zago.

Quest’ultima recita così veniva annunciata dalla Gazzetta: «Questa sera li maggior capolavoro dialettale di C. Goldoni: Le b. chioz. Carducci scrivendo di questo stupendo concerto di dialoghi, osservò che essa non ha riscontro possibile fra tutte le produzioni comiche popolari prodotte in Italia fino ai giorni nostri. Essa da un secolo e mezzo circa - come la Locandiera - forma la delizia di ogni pubblico pur attraverso le interpretazioni più barbaramente infedeli. Per la rappresentazione d’oggi recitano quasi tutti i migliori elementi della Compagnia e Zago sarà El cogidor». Non occorre aggiungere che altre compagnie ben note rappresentarono le Baruffe: come, per lo passato, la Comp. Ducale di Parma o comp. Mascherpa (C. Musatti, La Casa Nova di G. fischiata, Ven. 1911, estr. dall' Ateneo Veneto), in cui recitavano il Dondini, il Leigheb, Luigi Gattmelli (caratterista lodato nella parte di coadiutore: v. I teatri, I 126), Maddalena Pelzet e, più famosa di tutti, Adelaide Ristori. Forse qualcuno ricorda ancora di aver veduto «Tommaso Salvini vestire i panni di Titta Nane» (G. Piazza, Gold. a Trieste, nel Piccolo, 25 febb. 1907). Nei tempi recenti merita ricordo la recita di alcune scene a Trieste nel Febbraio 1907 (Liceo Tartini, filodrammatici: Il Piccolo, 25 febbr.), in occasione del secondo centenario della nascita del grande commediografo. In quello stesso anno Ferruccio Benini offriva il capolavoro goldoniano al pubblico di Napoli (teatro Sannazaro) e di Roma (teatro Apollo).

Del resto se le rappresentazioni non furono più numerose e se anche oggi questa commedia non risale sul palcoscenico così spesso come la Locandiera, come i Rusteghi, come molte opere minori del Goldoni, bisogna pensare alla difficoltà de! dialetto, qui certo più grave, e a quella gravissima dell’azione stessa. Se non è perfetto l’accordo fra gli attori e se l’imitazione dei costumi popolari non conserva il tono conveniente, le Baruffe Chiozzotte non si possono nè godere, né apprezzare. Pur troppo questo capolavoro ebbe sempre a soffrire dei terribili guai da parte degli interpreti. Scriveva sdegnato Alamanno [p. 109 modifica] Morelli ne! 1862: «...Onde avverrà ciò che più volte ne fu dato di vedere, cioè di trasformare il più stupendo Fiammingo in una mal imbrattata insegna di osteria, e portare le B. Chiozz. a tanta viltà di rappresentazione da non conoscervi più neppure la mano dell'autore, variandone e aggiungendo brani interi del dialogo». E poche pagine dopo: «Belle sono le scene di Eugenia e Fulgenzio negl’'Innamorati, e belle ancora quelle di Tita-Nane e Lucietta nelle B. Chiozz.: ma disgraziatamente poche volte si sono vedute rappresentare senza che fossero esagerate le prime, e rese insopportabili le seconde» (Note sull’arte drammatica rappresentativa, Milano 1862, pp. 128 e 136). Il coro degli ammiratori delle Baruffe andò crescendo nella seconda metà del secolo scorso, soprattutto intorno al 1880, quando incominciò il fervore degli studi goldoniani, e l’arte rifioriva giocondamente sulle lagune. Per primo Raffaele Nocchi, nel 1856, le introduceva m una breve scelta di commedie goldoniane (Comm. scelte, Firenze, Le Mounier), premettendovi un garbato giudizio: " Questa commedia, tenuta dall’Autore per non più che uno scherzo, ritrae tanto limpidamente il vero, da farla riporre fra le migliori.... Chi poi credesse facile porre in scena, in tutto il suo candore, l’umor brioso, leggero, e quasi fanciullesco di que’ buoni popolani, non ha che a provarsi in qualche impresa somigliante. Ma Goldoni era specialmente atto, per la semplicità dell’indole sua, a riflettere, per così dire, colla purità dello specchio, nature ed affetti tanto pronti a patire quell’alterazione, che diventa una specie di travestimento. Si porrà osservazione anche all’agevolezza con la quale egli padroneggia il suo argomento, movendo e contrapponendo quasi a schiere i personaggi, senza meno però mostrare a suo luogo spiccato ciascuno di loro; dimodoché, per usare il linguaggio de’ pittori, ogni menomo particolare risalta agli occhi con chiarezza, resa maggiore da que’ larghi partiti, che conferiscono ad abbracciare facilmente l’insieme. Ma vale meglio di ogni osservazione il lasciarsi andare con animo disposto alle semplici e liete impressioni di questo genere di componimenti».

Ignazio Ciampi, nella sua "Vita artistica di G., scritta ne! 1860 (Roma) e dedicata alla Ristori, se ne sbrigò con poche parole: «Nelle B. Chiozz., nel Ventaglio, nei Pettegolezzi ed in altre, scorre quest’allegra e vivace vena la quale può ammirarsi, ma non imitarsi efficacemente giammai, se non da quello che nasca si come il Gold, fu temperato. E tali commedie lo rendono appunto singolare ed originale» (p. 38). Meglio nelle sue Lezioni di letteratura italiana Luigi Settembrini: «...Dove l’esterna osservazione bastava, e non c’era bisogno di andare al profondo, il G. fece opera di maravigliosa e durevole bellezza... Considerate le B. Chiozz.: quelle donne e quei marinai sono come bambini che si mutano ad ogni ora: quello che si vede è tutta la vita loro, è tutta la verità: però il contrasto che diviene baruffa si scioglie facilmente e la commedia piace e ci è cara perchè ci ritrae tutta intera la natura di quelle persone» (Napoli, 1872, t. Ili, 162-3).

Ma ecco Pompeo Molmenti, il quale con fine senso di artista e di veneziano apre la serie degli scrittori moderni: «Nelle B. Chiozz., mirabile bozzetto di costumi, l’arte è vinta dalla natura. Quei popolani accattabrighe, quelle femmine ciarliere e pettegole sono così felicemente rese che nulla più. C’è l'aspetto ben definito del paese: ci sembra camminare per le strade di [p. 110 modifica] Chioggia e respirare l’acre brezza dell’Adriatico. Quanta furberia di condotta in quelle scene deliziosamente umoristiche tra i popolani e il coadiutore del cancelliere criminale!» (C G., Ven. 1880, p. 101). Bene anche Ernesto Masi: «...Nelle commedie in dialetto veneziano» il Goldoni «padroneggiando lingua e stile al pari dei caratteri e delle situazioni comiche, raggiunge tale eccellenza d’arte, di verità, di naturalezza da far assorgere. a rappresentazione umana e generale tipi e costumi del popolo veneziano. E non ne reco altro esempio che le B. Chiozz., dove il G. riesce a quello che parrebbe impossibile alla commedia, a darci lo sfondo, la prospettiva, il paesaggio, su cui i suoi personaggi si muovono, e ci par quasi di vedere l’aria aperta del lido e di aspirare le brezze e le salsedini del mare» (introd. alle Lettere di C. G., Bologna 1880, p. 78).

Innamorata delle Baruffe chiozzotte mostrasi Vernon Lee, che rievoca con la fantasia le scene della commedia, e poi si domanda: «E’ realtà questa?... Abbiam visto arrivar la barca e scaricare il pesce?... E la tempesta di grida, di strilli, e lo strepito e il pestar dei piedi? Fummo davvero testimoni di questi incidenti della vita peschereccia sull’Adriatico? No; non abbiam fatto che aprire un vecchio volume dove dice: Le B. chiozz.» (Il settecento in Italia, ed. ital.. II, Milano 1882, p. 277). E anche in altre pagine celebra quel meraviglioso quadro di vita giornaliera, in cui rivivono «la strada, la spiaggia e la marina» (p. 257) e loda la grazia, la vita, la verità' della Locandiera e delle Baruffe (p. 282) e chiama Goldoni «l’incomparabile autore del Ventaglio, della Locandiera e delle B. chiozz.» (p. 287). Quasi contemporaneamente Ferd. Galanti nel suo libro su C. Goldoni e Venezia nel secolo XVI li (Padova, 1882, p. 25 1 ) scriveva: «Il soggetto di questa commedia, dice lo stesso Gold., è un niente. Ma a questo niente vi ha dato il suo soffio e ha fatto, nel suo genere, un capolavoro... Sì; questa commedia è un niente...; essa non ha azione, non ha novità di accidenti, non tende a nessun alto scopo, non è, si può dire, neppur commedia, è solo un gioco di scene, ma qual gioco! E’ un quadretto, non più, ma fatto con tale vivezza di tipi, di movenze, di particolari, di colorito che non par pittura, ma realtà. Le scene delle baruffe e quelle dei testimoni innanzi al Coadiutore criminale sono, nel genere popolare, tra le più belle che il nostro poeta abbia scritte. Quei padroni di barca, quei pescatori, quelle lavoranti di merletti, ciarlone accattabrighe, ma buone, si trovano ancor oggi a Chioggia e quel Coadiutore del Cancelliere criminale, al quale tutti danno il titolo di lustrissimo, che recita la parte semiseria in quel baccano indiavolato, è pur esso un tipo comico e ci fa pensare al giovane Gold, coadiutore di cancelleria a Chioggia.»

A proposito di quest’ultima osservazione, ripetuta da molti altri, ricorderò come anche il Guerzoni accennando all’ufficio che il futuro commediografo esercitò a Chioggia, affermasse con evidente esagerazione: «Nelle B. Chiozz. vedrete tutti questi personaggi tali e quali come fosser vivi» (Il teatro italiano nel sec. XVIII, Milano 1876, p. 159). Alcuni anni dopo Giorgio Barini esaminava nel Fanfulla della domenica, (XIX, n. 46. 14 nov. 1897) il personaggio di Isidoro e concludeva: «E ammissibile che un uomo come il Gold. anche con le debolezze che in lui dobbiamo riconoscere, potesse pensare di far cadere un’onesta giovane in una rete come quella che Isidoro sta tendendo [p. 111 modifica]a Checa?, Il Barini stesso risponde: «Io non so proprio persuadermene». Ma al Barini si potrebbe opporre, se non fosse anche questo un problema ozioso, che il Goldoni, come ogni altro artista, ritrasse in Isidoro solo una parte di se stesso, quella che egli volle: lasciò in Isidoro un ricordo, e niente più. Del resto egli non dice mai che il giovine coadjutore, a cui piaceva divertirsi e fare del bene a tutti, specialmente alle belle ragazze, avesse di proposito delle mire disoneste. Anzi paron Vincenzo e Titta Nane e donna Libera ci sembrano un tantino maliziosi nelle loro allusioni; e anche tale diffidenza dell’uomo del popolo verso il lustrissimo e profondamente vera.

Nel 1883 usciva lo scritto citato di G. M. Urbani de Gheltof, dove fra l’altro si racconta delle primissime recite delle Baruffe sul teatro di S. Luca: «Pel pubblico la commedia ottenne tutte le simpatie, ma non la pensavano così i Chioggiotti, vituperati, secondo il lor modo di vedere, troppo gravemente. Furon varie le discussioni, e finalmente un poeta da dozzina interpretò il sentimento popolare con alcune strofette che incominciano: Goldoni, se a dir mal vu ve metė, – De Cioza, de sti loghi benedeti, — Convien che in fin de i conti recordè – Che i vostri amici xe sta sempre schieti – Amici che nei casi de bisogno, – Ne le vostre disgrazie v’ha aiutà. - E spesso, questo a dir no me vergogno - De gran disgrazie infina i v’ha salvà». Sì fatti versi, secondo l’Urbani, si trovano fra i manoscritti Cicogna del Museo Civico di Venezia, ma non si sa in quale codice. «A queste accuse ingiuste, le quali pare si diffondessero per tutta la città a cura di un abate Vianello, il Gold. risponde con una lettera indirizzata al Podestà di Chioggia nel 16 giugno 1761: – Eccellenza. Carlo Goldoni avvocato veneziano umilissimo servo di V. E. le rende noto che avendo avuto l’occasione di far rappresentare nei teatri di Venezia una sua comica produzione intitolata le Baruffe Chiozzotte, certo abate Vianello va diffondendo per tutta Chioggia la voce essere quella una satira alla città. Che pertanto arrivarono al Goldoni lettere anonime e composizioni satiriche che egli crede siano scritte ad istigazione del predetto abate. Perciò il supplicante umilmente domanda a V. E. che sia ammonito il Vianello dal recargli ulteriori fastidi onde continuare a godere di quella pace che per giustizia soltanto può derivare. - Grazie». La copia della lettera, afferma in nota l’Urbani, «esiste nell’Archivio Civico di Chioggia: e sulla fede dell’Urbani la ristamparono il Masi nell’Illustrazione italiana (XI, n. 5, 3 febbr. 1884) e lo Spinelli nei Fogli sparsi del Goldoni (Milano, 1885, p. 59). «C’era e dura tuttora la credenza in Chioggia» continua il De Gheltof, «che il Gold. avesse intenzione maligna per mettere sulla scena il suo popolo, perchè soffrì dai chioggiotti gravi disgusti amorosi». — Sappiamo già di quali amori si tratti.

Lo stesso anno 1883 comparve quasi alla macchia un umile foglietto anonimo, pieno zeppo di errori, intitolato C. Goldoni a Chioggia (firmato B molle: una copia, certo rarissima, spedita da Chioggia allo stesso Urbani, è ora posseduta dal conte Federico Pellegrini): nel quale, coi frammenti delle Memorie interpretati dio sa come, si vuol provare l’odio e l’ingratitudine del commediografo veneziano verso la città di Chioggia. «...Il Goldoni aveva desiderata, aveva sollecitata la mano di una educanda di S. Francesco, bellissima, ricchissima ed amabile, con cui forse passare la noia che gli recava Chioggia. [p. 112 modifica]— Ah, la delusione del buon boccone chioggiotto sfuggitogli, boccone che lo avrebbe rimesso in istato, fu quella che gli fece dettare le troppo famose barruffe... Esse fùr dettate dalla vendetta, con cui gli piacque sattollare la libidine dei nostri eterni derisori». — Siamo dunque in pieno romanzo. Ed ecco perchè «nell’occorrenza dell’inaugurazione di una statua in Venezia a Goldoni» la sola Chioggia «deve stonare nell’accordo generale» delle lodi «al creatore della commedia italiana».

Ora chi badi un po’ al tono della lettera che il Goldoni avrebbe scritto al Podestà di Chioggia, e più ancora osservi la data, pensa subito che si tratti di uno di quegli scherzi cari all’Urbani; ed è tentato di attribuire ad amena invenzione dello stesso anche i versi citati. Che gli abitanti di Chioggia si offendessero nel 1762 per la recita delle Baruffe non si può affermare, per mancanza di prove. Io credo che solo più tardi, specialmente per colpa degli attori che adulteravano il testo della commedia, e per la malizia di qualche burlone, si volesse scoprire un’intenzione satirica dove affatto non c'era. Chi non vede nel foglietto anonimo del 1883 l’ispirazione di Urbani de Gheltof? E non rise il buon commediografo dei Veneziani stessi, nei Pettegolezzi e nel Campiello? Egregiamente il Molmenti e il Mantovani ammonirono che le «Baruffe non sono una satira diretta e voluta» dei Chioggiotti, «ma una vera e propria commedia a cui i costumi di Chioggia crescono originalità e vivezza. Il Goldoni scelse de’ tipi burleschi tra i Chioggiotti come avrebbe potuto sceglierli nel popolo di qualunque altro paese: i ricordi della sua dimora giovanile nell’isola gli servirono mirabilmente a intrecciare quel festivo gioco di azioni e di dialoghi che è pur tra i capolavori più freschi della nostra letteratura. Sicchè i cittadini di Chioggia dovrebbero anzi gloriarsi che il loro popolino abbia così felicemente inspirato il sommo commediografo... Non è dunque da accusare il Goldoni, ma da accusare e da condannare sono i comici moderni, i quali tutti, anche i migliori, falsano il carattere della gaia commedia trasformandola in una caricatura continuata, aggiungendo lazzi e motti e trivialità senza fine al genuino testo del poeta, guastandone in somma l’opera e svisandone le intenzioni per più dilettare la gente di gusto vile» (Le isole ecc. cit., p. 105).

Anche Edgardo Maddalena commentando l’articolo dell’Urbani concludeva: ’I buoni pescatori di Chioggia ebbero ed hanno torto, perchè le scene delle Baruffe, lontano da satira che questa volta sarebbe piccina, sono fotografie, ed è pur lecito affermare che mai forse sulla scena la natura fu tanto graziosamente sorpresa, nè con più serena arte elaborata» (Bricciche gold, cit., p. 9). Voglio infine far noto come il Goldoni, tre mesi appena dopo la recita della commedia, nell’abbandonare per l’ultima volta la patria che non doveva più rivedere, scegliesse la via delle lagune e risalutasse Chioggia, la città della sua adolescenza, i cui ricordi, tuttora vivissimi alla mente, andava rievocando nelle prefazioni della bella edizione Pasquali: la città che avevagli prestato la scena meravigliosa per creare e donare all’Italia, pnma della partenza, un capolavoro che fosse degno dell’autore della Locandiera e dei Rusteghi (del viaggio da Venezia a Ferrara toccò brevemente il Goldoni in un capitolo al N. U. Nicolò Balbi: v. C. Musatti, Gold, a Ferrara nell’aprile 1762. Ven. 1908, estr. dall’Ateneo Veneto. Soltanto ci tocca ritardare di almeno sei o sette giorni la partenza di G. da Venezia, che da una lettera all’Albergati [p. 113 modifica] e da un cenno della Nuova Gazzetta Veneta ritenevasi comunemente avvenuta il dí 15 aprile). Continuiamo quindi la rassegna degli ammiratori delle Baruffe chiozzotte. Anche per Giuseppe Costetti è questo un capolavoro «in cui l’ambiente marino è reso con tal perfezione che se ne respirano le acri salsedini» (La Compagnia R. Sarda cit. 1893 pag. 102). Edgardo Maddalena, nel suo citato articolo su Goethe e Goldoni, dice che se il poeta tedesco «fosse stato in caso di seguire il dialetto caratteristico, esuberante di vita e di sale, avrebbe ammirato esclusivamente il geniale lavoro del poeta, onde tutta la commedia si disegna mirabilmente armonica nei personaggi e nelle parti»; e aggiunge che quello che il Goethe chiamò un gradito passatempo «è viceversa un capolavoro d’arte perfetta accanto ai Rusteghi, l’unica commedia forse senza mende delle cinque o sei del suo autore che aspirano alla palma del nostro teatro». Due anni dopo, ritornando sul medesimo tema, dimostra ancora che le Baruffe non sono un semplice gioco di scene. «Il soggetto delle B. è poca cosa, è vero... Ma si domanda che cosa ci sia di più nei Rusteghi o nel Todero, o nel Burbero «le B. hanno questo di più che il soggetto è in una fusione perfettamente armonica collo sfondo e l’amore - si noti questa - il Gold, ce l’ha dipinto di rado altrove con tocco più vivo e più caldo che nell’episodio principale di questa commedia... Nell’indimenticabile scena al secondo atto tra Lucietta e Titta-Nane che si respingono a vicenda, si colmano d’improperi e benchè nessuno dei due possa trattenere le lacrime non vogliono nè l’uno nè l’altro a me pare di veder condensata con economia mirabile tutta l’arguta tela degl'Innamorati... E benchè il soggetto stesso non dia gran che d’azione sulla scena e pure tanto movimento, nel dialogo tanta vivezza da far pensare a quel Ventaglio, così famoso per questo lato» (Bricicche cit. pp. 22-23.

Ernesto Masi ristampando le Baruffe in una Scelta di commedia di C. G. e facendovi precedere una lunga Nota preliminare ripete le antiche lodi. Notevole ciò che avverte nell’esame dei caratteri popolari. «Da quel profondo osservatore che è il Goldoni sa bene che nella commedia popolare «dev’essere minore diversità di tipi ma intonazione generale più uniforme... C’è quindi un fondo comune nelle indoli quei baruffanti, uomini e donne, e non c’è se non l’età e l’esperienza che temperino e modifichino quel fondo comune e rendano per esempio Paron Toni, Paron Forunato e Paron Vincenzo un po’ più prudenti e assennati di Tita Nane, di Beppo e di Toffolo Marmottina. Fra questi ultimi poi, Titta Nane è un po’ più spavaldo di Beppo e Toffolo è meno franco e leale degli altri due. Niente di più. Minor, ancora le gradazioni fra le donne. Vecchie e giovani tutte pettegole, gelose, rissose invidiosa irruenti malediche e se la moralità di Madonna Libera e delle sue sorelle Orsetta e Checca trasparisce un po’ inferiore a quella di Madonna Pasqua e di Lucietta, se quest’ultima più sinceramente appassionata di Orsetta e di Checca ciò non dipende se non dalla maggiore o minore rettitudine e autorità dei capi delle due famiglie, Paron Toni e Paron Fortunato il primo dei quali vale indubbiamente più dell’altro» (vol. II pp 123-4). In un articolo ispirato dalla raccolta del Masi, Enrico Panzacchi con entusiasmo proclamava: «I Rusteghi, la Casa nova, le Baruffe Chiozzotte sono [p. 114 modifica] veri capolavori, nei quali l’arte goldoniana, tolta di mezzo la inferiorità della forma, va tranquillamente a sedersi in faccia all’arte del grande Molière; e nella specializzata verità dei caratteri e nel brio multiforme dei dialoghi, sto anch’io con coloro che credono che lo sorpassi» (Un ritorno a G., in Tribuna, 26 sett. 1897). Rincalzava di nuovo in una recensione il Maddalena: «L’originalità dei Rusteghi e delle Baruffe dove la gloriosa arte del Gold. raggiunse l'apice della perfezione, è incontestabile; né c'è barba d’erudito che possa provargli aver egli attinto questa volta ad altre fonti che alla vita» (Rassegna bibl. della lett. Ital V, f. 9-10, ag. 1897, p. 206). E Giacinto Gallina, morto nel ’97, aveva scritto: «Quest’è una tra le più popolari e le più note commedie del Gold. e suscita sempre il più schietto buonumore sebbene conti quasi un secolo e mezzo di vita. L’azione si svolge tra i pescatori, i padroni di barca, i popolani di Chioggia. Tutta la commedia è un quadretto di costumi, un idillio di pescatori fatto con una tale vivezza di tipi, di particolari, di colorito da sembrare realtà, più che pittura» (Pel 2° centenario della nascita di C. G., num. unico del Teatro Manzoni, Milano, 25 febbr. 1907, p. 60).

Così dunque il posto assegnato dai moderni scrittori alle Baruffe si trova accanto ai Rusteghi, fra le commedie del Goldoni che ottengono maggior consenso d’ammirazione, come la Casa nova, la Locandiera, il Burbero benefico, e come, a seconda dei gusti e delle predilezioni, il Ventaglio, gli Innamorati, Sior Todero, il Campiello. Continuo a citare. «Le B. Chiozz.» dice Giacinta Toselli «sono opera di un ingegno originale... La vaghezza del dialogo limpido e schietto, l’esuberanza di vita e di comicità, per cui la commedia si disegna mirabilmente armonica nei personaggi e nel linguaggio, il colorito di freschezza popolare che non s’altera mai, mostrano nell’autore genialità di concepimento, arte schietta e vigorosa di rappresentazione... E difficile esaminare scena per scena la commedia, ove ogni parola, ogni esclamazione riflette un moto dell’animo... Lucietta, una delle creazioni femminili più vive del Goldoni, e un bel fiore rigoglioso, l’amore ride sulle sue labbra e vi ritrova accenti profondamente soavi, ella passa libera come il vento del mare, gelosa, amante, gaia. Ma le isole marine, colla ricchezza della vegetazione e l’aspetto sereno del paesaggio, foggiano gli abitanti in guisa speciale, rozzi e insieme profondi, violenti e semplici, come i popoli primitivi. Nelle brusche esclamazioni, nel dialogo spezzato, nella mancanza d’una forma larga ed organata, voi vedete riflettersi la potenza mentale del popolo, simile a quella di un’arte nascente». E aggiunge ancora: «Le B. anno questo di più fra le altre commedie dialettali; lo sfondo si riflette nelle parole dei personaggi, le passioni popolari si disegnano sobrie e vive nelle scene vivaci; sembra indovinarvi sia il concetto primo degli Innamorati, sia la rapidità d’azione del Ventaglio, tanto famoso per questo lato» (Saggio d’uno studio estetico e stilistico delle commedie goldoniane dialettali, Venezia, 1904, pp. 69 e 71). Una scrittrice più nota Maria Ortiz, bene esperta del teatro e degli studi goldoniani, esclama: «Vedetelo nelle B. Chiozz.: con mezzi semplicissimi, tanto semplici che si sarebbe imbarazzati a additarli, egli riesce maravigliosamente a dar alla sua commedia quello sfondo di mare che l’allieta tutta, riesce, non si sa come, a farvi sentir dentro l’alitar fresco delle brezze adriatiche... Senza forse neppur proporselo, è riuscito a darci una pittura di ambiente così [p. 115 modifica] netta, fresca, vivace, che potrà aver l’eguale, ma non certo la superiore» (Commedie esotiche del G., Napoli, 1905, p. 38). Un tedesco, R. Schmidbauer, loda le bellissime scene di gelosia di Titta Nane e Lucietta, e l’arte comico - naturalistica del venezianissimo poeta (Das Komische bei G., Mùnchen, 1906, p. 74). Domenico Oliva grida con entusiasmo: «L’arte e la vita si confusero così da formare un sol tutto e avemmo i Rusteghi, le Baruffe, il Campielo, le Donne gelose, Una delle ultime sere di carnovale. Qui il G. non superò tanto il suo tempo, quanto il nostro: a tanta distanza d’anni noi ci sentiamo arretrati ancora» (Giornale d’Italia, 24 febbr. 1907). Filippo Mounier ricama sulle Baruffe una delle sue pagine poetiche: «Dans une odeur de salure, tout un coin de pécheurs de l’Adriatique a surgi. Toute l’antique petite cité maritime, aussi grouillante et primitive que Venise à ses origines, a apparu»; e finisce copiando le ultime parole di Vernon Lee ( Venise au XVIII siecle, Paris 1907, pp. 248-9). Anche Alberto Boccardi rimane sedotto dalla «malia dell’ambiente. Soffia dal mare la salubre aria salmastra: è odore di reti che odorano al sole... Si disegnano a poco a poco le invidie, si tradiscono le gelosie, si accentuano le maldicenze... Sublime arte la tua, o immortale Goldoni!» (num. unico Teatro Manzoni 1907, cit., p. 82).

G. Ortolani scrive pure commosso; « Io cerco qualche cosa nella storia del teatro che somigli alle B. chiozz. e non trovo mai. Carlo Goldoni esplorò a fondo, nelle radici più minute, il segreto delle anime semplici, e lo portò vivo sopra le scene, con una potenza di verità che fa quasi male. L’umile idillio di Titta Nane e di Lucietta, turbato e interrotto, agita e commuove, dopo i due cuori innamorati, l’intero paese: come l’invisibile onda che d’improvviso cresce e s’allarga smisuratamente; e l’intero paese, il popolo delle lagune, invade schiamazzando il palcoscenico. La tartana di paron Toni ci porta il salso odor dell’Adriatico: del mare che gli stranieri solevano chiamar Golfo di Venezia, e Trieste quasi non c'era. Un’apparizione nuova e vigorosa, un rude dialetto di pescatori entrano nell’arte e nella letteratura d’Italia per un miracolo che mal sappiamo comprendere» (Per una scena d’amore nelle B. Chiozz., in Marzocco 25 febbraio 1907; v. pure Della vita e dell’arte di C. G, Ven. 1907, pp. 109-113). Pietro Toldo, mettendo a nuovo confronto i due rappresentanti del teatro comico di Francia e d’Italia, avverte: «C'est dans Les Rustiques, dans les Bagarres de Chiozza, dans La femme aubergiste, dans ces tableaux d’intérieur, dessinés avec une finesse merveilleuse, qu’ il faut étudier l’art de G.: si celui-ci n’a pas su donner Alceste, Molière n’aurait pas su peindre non plus Lunardo, Mirandolina, Titta Nane e Lucietta, personnages dont le poète italien a étudié le fond de l’àme avec cette philosophie naturelle, qui nait de l’observation directe de la vie et qui se passe parfois des Gassendi... L’auteur des Baruffe et des Rusteghi n'a aucune dette envers Molière» (L’oeuvre de Molière etc, Turin, 1910, pp. 374 e 399). Ecco poi il vecchio De Gubernatis: «Nessun fonografo avrebbe potuto render meglio le voci del popolo di Chioggia; nessun fonografo darcene il brio, lo spirito, la grazia, come ha fatto incomparabilmente il Goldoni, il quale non era di certo ipocondriaco ne’ giorni ne’ quali si divertiva a scrivere le esilaranti B-Chiozz.... Tutto in esse ci appar vero, vivo e spigliato; la festività è continua, e paesaggio, costume, linguaggio vi pigliano un’animazione [p. 116 modifica] straordinaria, talora quasi indiavolata» (C. Gold., Firenze, 1911, pp. 306 e 309). Finalmente G. B. Pellizzaro, dopo aver ripetuto, come il Galanti, che il Goldoni nelle Baruffe trasse dal niente un capolavoro, afferma pure: " Manca un intreccio vero e proprio, è un succedersi di scene, che sono tanti quadretti vivi e balzanti, e formano nel loro insieme un quadro dei più coloriti e reali che si possano immaginare. E l’amoroso idillio di Tita Nane e Lucietta che si svolge fra i pettegolezzi, le lame dei coltelli, le sassate e l’interrogatorio alla cancelleria criminale, con le scenate d’ira e di gelosia, è il colmo della maestria e della verità» (La vita e le opere di C. G., Livorno, 1814, p. 58). Ritroviamo dunque in tutti, da più diverse parti, le stesse impressioni, gli stessi giudizi e quasi le stesse parole. Pare quindi strano che il Rabany nel suo grosso volume sul commediografo veneziano si dimenticasse di parlare delle Baruffe, benchè ne facesse tarda e non completa ammenda nell’appendice al testo: «L’intérét des Disputes de Chioggia ne réside pas dans l’intrigue, qui est sans importance. C'est plutôt un tableau de moeurs populaires, une photografìe instantanée de gestes et de groupes, quelque chose d’analogue aux Tribunaux comiques de Jules Moineaux» (C. Gold., Paris, 1896, p. 369). Basta questo mirabile paragone per dimostrare che il biografo del Goldoni non ha letto le Baruffe chiozzotte o ha capito molto meno di Volfango Goethe. Nemmeno Giulio Caprin nel suo libro intitolato al Goldoni concede uno spazio degno a questa singolarissima commedia; pur tuttavia giudica le Baruffe un capolavoro e le pone vicino ai Rusteghi, alla Casa nova, al Sior Todero (C. Gold. ecc.. Milano, 1907, pp. pp. 169 e 301): e similmente Nunzio Vaccaluzzo, nella introduzione alla sua recentissima scelta di commedie goldoniane (C. Gold., Messina 1914, p. 32, 70, 77). Attilio Momigliano, indagatore profondo dell’arte comica di C. Goldoni, nessun esame dedicò finora a questa commedia; e solo accontentasi di scrivere nella prefazione della recente antologia goldoniana: «Gli oggetti e le persone formano un tutto, hanno un’anima sola... Le vie di Chioggia sono fotografate ne Le baruffe ch., insieme con quei letichini e con quelle comari: e i due elementi, disgiunti, morirebbero» (Le opere di C. Gold, scelte e illustrate, Napoli, 1914). Ma nella scelta che fece dall’opera intera del commediografo veneziano non lasciò posto a nessuna scena delle Baruffe. La difficoltà del testo dialettale, quantunque arricchito di note spiegative dall’autore stesso, nocque, come abbiamo veduto, alla fortuna della commedia. Qualche tentativo ci fu di trasportare sulle rive dell’Arno e sul golfo di Napoli le baruffe dei pescatori chioggiotti. Nel principio del secolo scorso a Firenze la tipografia Bonducciana travestiva «per il Teatro Toscano» alcuni capolavori goldoniani; e uscirono nel 1808 Le Baruffe Pignonesi, Commedia in tre atti in prosa, tratta dalle Baruffe Chiozzotte del celebre Sig. C. Goldoni avvocato veneziano. È questa una versione fedele, soltanto la scena si svolge «al Pignone in riva all’Arno nei contorni di Firenze»; paron Toni diventa Domenico «padrone di navicello», Lucietta diventa Gigia (Luisa), Titta Nane si chiama Pierino navicellaio. Fortunato "parla presto senza l’r», Isidoro trasformasi Federico «cancelliere del Commissario del questore», Maso invece di zucca vende le stiacciatine, e così via. Nella prima scena Settimina e Gigia «lavorano di cappelli di paglia da una parte», Angiola fila, Caterina cuce una camicia» e Rosa, detta Ricottina. «lavora calze dall’altra». Nulla [p. 117 modifica] manca nemmeno qualche ribobolo toscano a sostituire le caratteristiche espressioni chioggiotte: ma il capolavoro è sparito, non resta che una stupida e noiosa caricatura. (Non so se a questa o ad altra riduzione italiana, che fallì miseramente sulla scena, allude Carletta (Valeri) nella Nuova Rassegna, 12 nov. 1893). " Sorte migliore incontrò a Napoli Filippo Cammarano. «Il Cammarano, più che autore, nel vero senso della parola» dice Ed. Scarpetta, «fu un riduttore fortunato di parecchie commedie del Goldoni; e di queste sue riduzioni due fecero specialmente la fortuna del teatro e dell’impresario; e furono: Li funacchere de lu Muoio Piccolo (Le baruffe ch.) e L'acqua zurfegna (Il ventaglio) > (Da S. Carlino ai Fiorentini, Napoli 1899, p. 77.- Vedasi anche Salv. di Giacomo Cronaca del S. Carlino. 2 ed., Trani 1895, pp. mi, 398 401-2) Ma di tale tentativo non sono in grado di giudicare. Vero e che di una riduzione napoletana Oreste Giordano ricordò l’esito disgraziato (v. La Regione, 25 giugno 1910). Piuttosto soggiungerò come di recente le Baruffe inspirassero un’opera al maestro Benvenuti, eseguita nel carnevale del 1895 sul Teatro Pagliano di Firenze (Serate italiane. 3 febbr.), e un'altra al maestro Bersezio nel 1905 (Il Campo, Torino, 12 marzo), e una suite al maestro Leone Sinigaglia, eseguita più volte a Vienna e altrove (Nuova Antologia. 16 marzo 1909, p. 366). Ma una sorte più gloriosa toccò al capolavoro goldoniano, se il suo ricordo sorrideva per caso alla mente di Riccardo Wagner, quando descrisse la famosa baruffa nel secondo atto dei Maestri cantori. Un Prologo alla Baruffe Ch. del Goldoni in versi martelliani, intitolato Goldoni a Chioggia, scrisse Giulio Piazza per la comp. Zago «recitato al Teatro filodrammatico di Trieste le sere del 6 e 7 di febbraio 1893 dall'attore G. Privato»: nel quale si descrive il solito ritorno del commediografo veneziano dal mondo di là e si rievocano i noti ricordi di Chioggia (v. Raccolta di monologhi, n. 106, Firenze 1902).

Abbiamo trovato qua e là, anche tra gli stranieri, più di un innamorato delle Baruffe chiozzotte; altri ammiratori potremmo aggiungere (v. per es. Howells, Venetian Life, Tauchnitz, 1683, p. 168; Sauer, Geschichte der italienischen Literatur, Lipsia, s. a., p. 440: l’autore lodando l’interpretazione della comp. Morolin dice questo il più bel lavoro del Gold., e trova il secondo atto insuperabile [Maddalena. Bricciche cit., p. 23; la Neue Freie Presse, 7 luglio 1892, all’indomani di una recita della comp. Gallina, - voleva dare tra le molte commedie popolari a questa la preferenza»: ivi]; M. Mignon, Études de Littérature Italienne, Paris 1912, p. 153). Nel Gondoliere di Venezia uscì l'anno 1842 (22 genn., n. 4) la versione francese della scena 12 del secondo atto, di un Leopold C..., preceduta da una breve introduzione in cui si dice «Ora una traduzione c’è venuta alle mani, inedita tuttavia, delle B. Chiozz. commedia non inferiore a verun’altra per certo, quanto alla difficoltà del potersi convenientemente tradurre. E di questa avendo noi tratto una scena, pensammo farne dono a' nostri lettori». Ma non pare che l’intera commedia venisse mai in luce. Nè conosciamo traduzioni in altre lingue. Solo nel nov. 1911 H. C. Chatfield-Taylor pubblicando nella rivista The drama di Chicago uno studio sul naturalismo veneziano del Goldoni, il quale fa parte del volume recente dedicato dallo stesso al commediografo veneziano (Goldoni. [p. 118 modifica] A Biography, New York 1913), volgeva in inglese la famosa scena di Lucietta e di Titta Nane nel secondo atto. «Di tutte le commedie del Goldoni» afferma lo scrittore, americano «nessuna è così vibrante di vita come le Baruffe chioggiotte... E questa in fatti un’opera di teatro quale forse non fu mai scritta al mondo per il passato». Per la prima volta fuori d’Italia si proclamava la grandezza del capolavoro di Goldoni, come dice pure Chatfield-Taylor, della prima commedia «in cui con fedeltà e con affetto si rispecchia il popolo minore»; e questa voce venne d’oltre oceano. Poco tempo dopo, nell’agosto del 1914, la medesima rivista (The Drama, n. 15) stampava una completa traduzione inglese della commedia per opera di Carlo Lemmi, a cui precedono alcune pagine del traduttore su Papà Goldoni e le sue commedie veneziane. Benché non mi sia lecito recare giudizi, sembrami felice destino che dopo quasi due secoli le rudi passioni dei pescatori chioggiotti osino provarsi nel linguaggio dei marinai che popolano i porti smisurati di Londra e di Nuova York.

E ora percorriamo un poco il capolavoro goldoniano. Fin dalla prima scena l’autore mette insieme, raccolte in una calma apparente, le cinque donne della commedia, la moglie cioè e la sorella di paron Toni, la moglie e le due cognate di paron Fortunato, che devono poi separarsi con gran sussurro, quasi in due schiere nemiche, fino alle ultime scene. Parla prima Lucietta, il personaggio qui più evidente, che più tardi chiude pure la commedia; e comincia con quelle parole che tutti conosciamo «Creature, cossa diseu de sto tempo?», le quali ci fanno subito pensare alla tartana di paron Toni che sta per entrare in porto: al misterioso protagonista, come dissi altra volta, che deve provocare col suo arrivo la gran tempesta del dramma chioggiotto. E già dalla prima scena, dove subito si delineano i caratteri delle donne, sappiamo dell’amore di Lucietta e di Titta Nane, e della gran voglia che ha Checca di maritarsi. Ma giunge Toffolo Marmottina (sui nomignoli dei personaggi delle Baruffe vedasi David Levi Morenos, I sopranomi dei pescatori veneti, Venezia 1909) a turbare quella quiete, e scoppiano per un pezzo di zucca le gelosie e i dispetti fra Lucietta, la più ardita e vivace delle compagne, e Checca. Udiamo presto correre le ingiurie fra le due famiglie, ma le cinque donne si rappacificano a un tratto all’arrivo della tartana con gli uomini. Mirabile è tutto questo preludio per vivacità, verità e colore: il Goldoni maneggia da molti anni questi caratteri femminili e queste scene, ma ora la sicurezza dell’artista è perfetta.

Tutto ciò che sta per succedere sul palcoscenico è ormai chiaro e logico come nella vita. Nella scena quinta ammiriamo la grossa barca di paron Toni e sentiamo l’odore del pesce che si scarica. Scopriamoci davanti a Carlo Goldoni. Cielo e mare sorridono all’audacia del nostro commediografo. Abbiamo un bel pensare al naturalismo dei nostri scrittori di novelle, abbiamo un bel rievocare i canti carnascialeschi e berneschi, abbiamo un bel citare i drammi rusticali, la Fiera del Buonarroti o i libretti dell’opera buffa napoletana: questo spettacolo è nuovo nell’arte e nelle lettere nostre, è lieto, è moderno: è la vita. Ben possono ora venire il Parini e il Manzoni, e il romanticismo e il realismo, e tutto quel che si vuole. — Nelle scene seguenti le donne che avevano promesso di non parlare, prima quelle di paron Toni, poi quelle di paron Fortunato, sfogano il rancore mal represso, svegliando la gelosia e l’ira nel petto degli uomini. Invano i più vecchi portano una parola di calma: Beppo non [p. 119 modifica] vuol più saperne di Orsetta e Titta Nane vuol lassare Lucietta: ma Toffolo Marmottina la pagherà per tutti. Queste varie scene, armonicamente legate con l'abilita propria del Goldoni, si muovono con vivacità straordinaria profondendo tesori di dialogo e rivelando nuovi caratteri: bellissimo quello onesto e impetuoso di Titta Nane e felice la macchietta di paron Fortunato, qualora non sia esagerata nell’interpretazione. Ormai la grande baruffa è preparata: a scatenarla viene sulla scena Toffolo. Il grande commediografo lo introduce inconscio affatto della tempesta imminente, anzi pentito di essersi seduto accanto a Lucietta ("La xe novizza, co ela no me n'ho da impazzare») e solo desideroso di vedere la Checca e di domandarla in isposa. Ma esce Beppo e vuol scacciarlo. L’uno ha il coltello, l’altro tira dei sassi. Escono Toni, Pasqua, Lucietta e gli altri; tutto il palcoscenico si riempie di uomini, di donne, di schiamazzi, di urli, finche dopo molto gridare e spingere i baruffanti rientrano nelle case, la strada torna quieta e silenziosa, e Toffolo parte ultimo con la minaccia della querela: «Sangue de diana! che li vôi querelare». - Questo primo atto dal dialogo rotto e pittoresco, dalle figure di una verità sorprendente e commovente, è una meraviglia di dramma popolare e basterebbe da solo alla gloria d’un autore. Col secondo atto entriamo nella Cancelleria criminale di Chioggia, e il pensiero corre involontariamente a Carlo Goldoni. Dobbiamo qualche volta farci forza per non illuderci di rivedere sotto le spoglie di Isidoro (l’umile deus ex machina del vecchio teatro) il giovane aggiunto del coadiutore Stefano Porta di Feltre, presso il cancelliere Egidio Zabottini. La prima scena, cioè la deposizione di Toffolo, abbonda di umorismo, e anche le altre scene del processo, cioè l’esame dei testimoni, fanno ridere, ma non è più questa la grande arte goldoniana, la grande commedia italiana. Questo atto, troppo lungo e prolisso qua e là, resterebbe molto al di sotto del precedente, se fra una udienza e l’altra presso la cancelleria, non tornasse ad apparire e a rinfrancarci l'anima la strada aperta di Chioggia, con le sue casupole, con le sue donne, con le sue reti, con le seggiole di paglia e gli scagnetti, con qualche lontano profilo d’albero o di vela. Nelle scene 2-6 culmina il dramma d’amore e di gelosia di Lucietta e di Titta Nane; e sono forse queste le più originali e le più belle del Goldoni e di tutto il teatro italiano. Scrissi già, or sono alcuni anni: «La scena terza del secondo atto è una delle più belle scene d amore di tutti i teatri, nè teme alcun famoso paragone.... Questa non è più commedia: sono brani di cuore umano, è sangue del popolo: grida piuttosto che dialogo, che si ripercuotono di terra in terra, dove sono uomini e amano, da tanti secoli» (l.c.).

Il dramma popolare riprende nel terzo atto in mezzo la via, dove prima Beppo e poi Titta Nane escono di nuovo, vincendo la paura degli zaffi, per sfogare le loro gelosie, per continuare i loro amori; e tra le donne, ancora protagoniste Lucietta e Checca, scoppiano nuove insolenze, e ancora il palcoscenico si riempie di popolo. Una intera moltitudine appassionata diventa ancora l’unico attore. Di che non vi ha esempio in tutto il teatro francese e italiano, anzi in tutta l’arte italiana, prima del Goldoni, se non in certe meravigliose tele del Quattro e del Cinquecento, che sono quadri e poemi e drammi ad un tempo. - Ricordare a tal proposito Li despiette amoruse, commedeja pe [p. 120 modifica]musica da rappresentarese a lo Triato Nuovo chist’ anno 1731 (melodramma napoletano, che ha fra i personaggi un Titta: P. Toldo, L’oeuvre de Molière cit., p. 430, n. 3); ricordare le solenni bastonature finali e generali del teatro dell’arte, sembrami profanazione. I precedenti, sì, ci sono in parte, ma nell’opera stessa del Goldoni, nei Pettegolezzi, nel Campiello, dovunque l’autore trasporta i suoi personaggi all’aria aperta. Finalmente nella stanza privata di Isidoro avviene la pace fra gli uomini. Pur troppo l’azione allungasi troppo e languisce a quando a quando, ma non mancano spunti vivacissimi di caratteri e di dialogo. Capita sul più bello Beppe ad annunciare la nuova baruffa femminile, e tutti partono di corsa per le proprie case. La commedia si svolge di nuovo e ha fine sulla strada, dove ebbe principio. Sporgono dalle finestre sbraitando Lucietta e Orsetta, e volano le ingiurie. L’arrivo degli uomini accenderebbe una contesa più calda e più pericolosa, se Isidoro con la sua presenza e col suo consiglio non contenesse quella folla baruffante. A riunire le due famiglie di paron Toni e di paron Fortunato, a ridare per qualche tempo la calma al paese, occorrono dei buoni matrimoni, quali si annunciano all’aprirsi della commedia: Checca, non potendo acquistare il cuore di Titta Nane, si accontenterà di sposare l’innamorato Toffolo; Beppe farà pace e nozze con Orsetta; Lucietta, anche la fiera Lucietta, la più bella figura femminile del teatro goldoniano dopo Mirandolina, cederà piangendo e avrà da Titta Nane il perdono e la mano. «Il piccolo mondo si rasserena, come il suo cielo e il suo mare: tutto quanto il paese partecipa in fine alla pace dei due innamorati» (l. c.).

Queste ultime scene, se si tolga qualche ripetizione, qualche lungaggine, sono di una freschezza, di una vivacità, di una verità inarrivabili: scene commosse e mirabilmente umane. Così Carlo Goldoni ha creato il grande capolavoro comico popolare, di cui ne fra gli antichi nè fra i moderni si trovano non dirò rivali, ma nemmeno esempi degni. (Apro qui una lunga parentesi. Ci sono commedie del Goldoni, dice Maria Ortiz, e sono le migliori, in cui «il vero protagonista è l’ambiente: così nella Bottega del Caffè, nel Campiello, nelle Massere, nel Ventaglio, nelle gloriose Baruffe Chiozzotte, infine»:(Gold, e la Commedia dell’arte, in Cultura 1 nov. 1912. La signora Marchini-Capasso, parlando di un’operetta giovanile per musica del G., la Fondazione di Venezia, ebbe a notare: «Ci troviamo per la prima volta fra i pescatori delle lagune con Besso, vecchio padre, Dorilla e Niso, amante sempliciotto, che più tardi compariranno nel quadro molto più ampio delle Barufe ciozote, completandosi in più fini sfumature, e moltiplicandosi in numerosissimi caratteri secondarii»: 1. e, pp. 191-2. Ed Emilio del Cerro osservò che il G. nella Putta onorata volle ritrarre «la vita dei barcaioli veneziani così caratteristica, così vivace, così pittoresca. Non la studiò punto nella commedia degli altri, ma dal vero, e la riprodusse con tale esattezza, con tale brio, che quelle scene possono prender posto accanto a quelle famose delle B. Chiozz.:» Nel regno delle maschere, Napoli. 1914, p. 357. E Gino Damerini scrisse che i litigi e «i discorsi scambiati da un balcone all’altro» nel Campiello, «in cospetto dell’unico personaggio silenzioso, il pozzo, preludiano alla mirabolante orchestrazione dialogica - e non mi so spiegar che rubando la terminologia alla critica musicale!- delle B. Chiozz., dei Petegolezi de le done [p. 121 modifica] delle Massere, delle Morbinose: il Campiello tende a fermare con i caratteri di una classe del popolo veneziano, la serenità dell’ambiente in cui il popolo veneziano viveva lungi dai romori assordanti delle compagnie sprofondate in un’orgia continua di colore, di sensazioni, di piaceri, di raffinatezze»: Gazzetta di Ven., 9 febbr. 1908. - Ma assai più ci sarebbe da dire su tale argomento). Lo creò senza sforzo, senza mai rettorica, con genio giocondo e quasi inconsapevole. Lo creò, come doveva, in dialetto, in quel glorioso dialetto che fu quasi una lingua per molti secoli, parlato dal Po alle Alpi di Germania e su tutta la sponda orientale dell’Adriatico, in quel dialetto che oggi stesso a Venezia nessuna persona colta vuole abbandonare negli usi della vita privata. Ed esaltò, senza parere, le passioni e le virtù dei popolo, di un popolo primitivo, e quindi un po’ rissoso, ma veramente onesto. Chioggia può bene vantarsi delle Baruffe chioggiotte. Scrissi altra volta: «Un popolo capace di queste passioni, così rozze, così ingenue, così sincere, è un popolo buono. E Carlo Goldoni, l’ex aggiunto coadiutore, si permette di ridere un poco, ma conosce bene la virtù dei Chioggiotti e immortalmente la celebra. Questi, che così amano, sono gli uomini del mare, i più arditi pescatori dell’Adriatico, per cui crebbe gloria alle navi veneziane: e così amarono da secoli, e così ameranno fin che la tartana di paron Toni dagli scogli dell’Istria e della Dalmazia torni felicemente alle sue lagune, e viva l’aspro dialetto che allietò un dì l’arte di Goldoni».

G.O.


Le Baruffe chiozzotte furono stampate la prima volta a Venezia nel 1774, nel I. XV dell’edizione Pasquali. Uscirono poi ancora a Venezia nelle edizioni Savioli e Pitteri (XV, 1780) Zatta (cl. I, X, 1789) Garbo (X. 1796), a Torino (Guibert e Orgeas XII, 1777), a Bologna (a S. Tomaso d’Aquino, 1786), a Lucca (Bonsignori XXIIl, 1790), a Livorno (Masi XXIV, 1792) e forse altrove nel Settecento. — La presente edizione seguì accuratamente il testo più corretto delle edizioni Pasquali e Zatta. Valgono per la vecchia grafia del dialetto veneziano, che non si può e non si deve costringere a norme costanti di perfetta unità, le solite osservazioni.