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Ma un giorno assistei, con mia gran meraviglia e con vera delizia, alla rappresentazione della commedia grottesca Le Baruffe Chioggiotte, che già a Goethe era piaciuta tanto, e che fu data con tale naturalezza che io, per quanto sappia, non so trovar nulla di simile per poterne fare il confronto» (tolgo la citaz. tradotta dal fase. 945, I maggio 1911, della Nuova Antologia, p. 177.— Mi avverte l’amico Ricciotti Bratti che dai 25 dicembre 1858, per tutto il carnovale ’59, il teatro Malibran fu occupato dalla Compagnia acrobatica, ginnastica, mimico, plastica e danzante dei fratelli Chiarini; in questo medesimo periodo recitava sul teatro Camploy la Veneta compagnia drammatica diretta da G. Duse, la quale nelle due ultime serate, lunedi e martedì 7 e 8 marzo 1859, rappresentò le Baruffe chiozzotte).
Ma ormai da gran tempo il pubblico batteva le mani e i critici s’inchinavano al capolavoro goldoniano. Tuttavia è degno di nota che i più vecchi biografi e critici del nostro commediografo, come il Pignatorre, il Meneghezzi, il Carrer e moltissimi altri, non parvero fare alcun caso delle Baruffe Chiozzotte. O forse non osarono parlarne. Gravava ancora sul teatro popolare del Goldoni il famoso giudizio di Carlo Gozzi, che intimidiva i signori letterati: «Moltissime delle sue commedie non sono che un ammasso di scene, le quali contengono delle verità, ma delle verità tanto vili, goffe e fangose, che, quantunque abbiano divertito anche me medesimo animate dagli attori, non seppi giammai accomodare nella mia mente che uno scrittore dovesse umiliarsi a ricopiarle nelle più basse pozzanghere del volgo, nè come potesse aver l’ardire d’innalzarle alla decorazione d’un Teatro e sopratutto come potesse aver fronte di porre alle stampe per esemplari delle vere pidocchierie» (Ragionam. ingenuo, in Opere, Ven. 1772, I, p. 56).
Tanto più bisogna apprezzare questa pagina dimenticata di Domenico Gavi, scritta nel 1826: «Qui una precisione di dialogo, una rapidità, un movimento che più non si può. Ella è per se medesima un niente: piccoli mali umori, punture d’una parola, ed ecco le preste ire scoppiano, e tra le donne e tra gli uomini grande riscaldamento di fantasia, urti di cuore, insolenze, e da scarse scintille incendio formato. Molti attori adopera a un medesimo tempo sopra la scena, e tutti move, anima, fa parlare, e di tutti mai non dimentica nè il carattere, nè il modo in che si trovano. Gli usi, i proverbi, i lazzi, le idee sì consapevoli a quella gente da mare, gli amori di Lucietta e Titta, ingenui e giovanili che inteneriscono, già non perchè abbiavi contrattempi e forti avventure, ma solo perchè la bella e semplice e sempre cara Natura è dipinta, quel contrasto di gelosie, di orgoglio così giudiziosamente toccato, ogni cosa è nitido specchio della verità. Questa commedia è molto difficile da rappresentarsi per la minutissima spezzatura del dialogo, e pel gran movimento e calore dei personaggi. Una sola volta io l’udii dalle scene; e ho temuto non mi si aprisse dal ridere il petto, e mi dolevan le coste, e tutti senza ritegno ridevano» (Della vita di C. G. e delle sue commedie, Milano, 1826, pp. 158-9). Pure non tutto approva: per esempio, nel secondo atto osserva che «Isidoro di troppo fra quelle donne s’intrica, e troppo fa il cortese. L’ultimo atto languisce, fuor solo che talvolta risorge, come vampa che esce da quasi spento incendio; finisce con troppi matrimonii».
Nemmeno credo che fuori delle lagune si recitassero e si gustassero fa-