Le Mille ed una Notti/Storia del visir punito

Storia del visir punito

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Storia del marito e del pappagallo Storia del giovine re delle Isole nere
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STORIA

D E L   V I S I R   P U N I T O.


«Era nei tempi passati un re,» cominciò egli, «il quale avendo un figlio appassionatissimo della caccia, permettevagli di prendersi spesso tal divertimento; ma aveva pur ordinato al suo granvisir di accompagnarlo sempre, e non perderlo mai di vista. Un giorno di caccia, avendo i bracchieri scovato un cervo, il principe, credendosi seguito dal visir, si mise dietro alla bestia, e corse tanto, l’ardore lo trasportò sì lontano, che finì col trovarsi solo. Fermatosi, e notando d’aver perduto la strada, volle tornare indietro onde raggiungere il visir, il quale non era stato sollecito abbastanza da seguirlo dappresso, ma si smarrì. Mentre correva da tutte le bande senza tenersi ad alcuna via sicura, incontrò sull’orlo d’una strada una signora di belle forme che dirottamente piangeva. Fermato il cavallo, chiese alla donna chi fosse, che [p. 67 modifica]cosa facesse sola in quel luogo, e se avesse bisogno di aiuto. — Sono,» quella rispose, «la figlia d’un re delle Indie. Passeggiando a cavallo per la campagna, mi addormentai, e sono caduta; il mio cavallo è fuggito, e non so che ne sia avvenuto.» Il giovane principe ebbe pietà di lei, e propostole di prenderla in groppa, ella accettò.

«Mentre passavano vicino ad una casupola, avendo la dama espresso il desiderio di smontare per qualche sua decorrenza, il principe si fermò e lasciolla discendere; e sceso ei pure, si accostò alla casuccia, tenendo il cavallo per la briglia. Ma giudicate del suo stupore quando udì di dentro la donna proferire queste parole: — Rallegratevi, figliuoli miei; vi conduco un giovane ben fatto e grasso;» ed altre voci tosto risponderle: — Dov’è, mamma? vogliamo mangiarlo subito, chè abbiamo molto appetito.» Non ebbe d’uopo il principe di udir altro per conoscere il pericolo in cui versava, ben avvedendosi essere la signora, che dicevasi figlia d’un re delle Indie, un’orca, moglie d’alcuno di que’ demoni selvaggi, detti orchi, i quali si ritirano in luoghi deserti, e servonsi di mille astuzie per sorprendere e divorare i passeggieri. Colto da spavento, balzò in furia sul cavallo, ma comparsa in quel momento la pretesa principessa, e vedendo d’aver fallito il colpo, gli gridò: — Non temete nulla; chi siete? che cosa cercate? — Mi sono smarrito,» rispose il principe, «e cerco la mia strada. — Se vi siete smarrito,» essa ripigliò, «raccomandatevi a Dio; esso vi trarrà dall’imbarazzo in cui vi trovate. » Allora il principe alzò gli occhi al cielo....

— Ma, sire,» disse Scheherazade a questo punto, «io sono costretta a sospendere il mio discorso; il giorno che sorge m’impone silenzio. — Sono ansiosa, sorella,» soggiunse Dinarzade, «di sapere che cosa [p. 68 modifica]sarà avvenuto del giovane principe; tremo per lui. — Ti solleverò dall’inquietudine domani,» rispose la sultana, « e il sultano si degna di lasciami vivere fin allora.» Schahriar, curioso dello scioglimento di questa storia, prolungò ancora la vita di Scheherazade.


NOTTE XVI


Ardeva Dinerzade di tanto desiderio d’udire la continuazione della storia del giovine principe, che destatasi questa notte più presto del solito, e subito rivoltasi alla sorella: — Ti prego,» le disse, «di finire il racconto cominciato ieri; prendo vivo interesse alla sorte del giovine principe, e muoio di paura che non venga mangiato dall’orca e dai suoi figliuoli.» Avendo Schahriar esternato il medesimo timore, — Ebbene, sire,» disse la sultana, «sono a trarvi d’angustie.

«Dopo che la falsa principessa dell’Indie ebbe detto al giovane principe di raccomandarsi a Dio, credendo egli che colei non gli parlasse sinceramente, e lo annoverasse già sua preda, alzò le mani al cielo e disse: — Signore, voi che tutto potete, volgete gli occhi su me, e liberatemi da questa nemica.» A tal preghiera la moglie dell’orco rientrò nella casuccia, ed il principe se ne allontanò a furia; e trovata fortunatameme la via, giunse sano e salvo al re suo padre, al quale narrato avendo il pericolo incorso per colpa del gran visir, adiratosene il re fieramente, lo fe’ subito strangolare... — Sire,» proseguì il visir del re greco, «per tornare al medico Duban, se non vi mettete in guardia, la fiducia che avete in lui vi tornerà funesta; so da buona fonte ch’egli è una spia mandata da’ nemici vostri per attentare alla vita di [p. 69 modifica]vostra maestà. Vi ha guarito, voi dite; eh! chi può accertarvene? Forse non v’ha risanato che in apparenza, e non radicalmente. Chi sa che quel suo rimedio non produca col tempo perniciosi effetti?» Il greco re, ch’era per natura di scarsissima intelletto, non ebbe bastante penetrazione da comprendere la mala intenzione del visir, nè fermezza bastante per persistere nel primo suo sentimento. Quel discorso lo scosse. — Visir; hai ragione,» gli disse; «ei può infatti essere venuto espressamente per togliermi la vita, potendo benissimo farlo mediante il solo odore di qualcuna delle sue droghe. Vediamo che cosa convenga fare in tale congiuntura.

«Quando il visir vide il re nella disposizione che voleva: — Sire,» gli disse, «il mezzo più sicuro e pronto per guarentire il vostro riposo e mettere in sicurezza la vita vostra, consiste, a parer mio, nel mandar subito a chiamare Duban, e fargli balzare il capo, appena sia giunto. — Veramente,» ripigliò il re, «credo anch’io sia questa l’unica via d’antivenire il suo disegno.» Sì dicendo, chiamò un ufficiale e ordinogli d’andare in cerca del medico, il quale, non sapendo che cosa il re volesse, s’affrettò tosto al palazzo. — Sai tu,» gli disse il re al vederlo, «perchè ti feci chiamare? — No, sire,» rispose quello, «ed aspetto che vostra maestà si degni manifestarmelo. — Ti ho fatto venire,» il re riprese, «per liberarmi di te col toglierti la vita.

«Sommo fu lo stupore del medico udendo intimarsi così il decreto di sua morte. — Sire,» diss’egli, «qual motivo può avere vostra maestà di farmi morire? Qual delitto ho commesso? — Seppi da buona fonte,» replicò il re, «che tu sei una spia venuta alla mia corte per attentare alla mia vita; e per impedirlo, voglio toglierti la tua. Ferisci,» aggiuns’egli, volgendosi al carnefice già presente, «e [p. 70 modifica]liberami da un perfido che si è qui introdotto all’unico scopo di assassinarmi.

«A quel comando fatale, ben s’avvide il medico che le onorificenze ed i beneficii ricevuti avevangli suscitati nemici, e che il debol re s’era lasciato smovere dalle loro calunnie; pentissi allora d’averlo guarito dalla lebbra, ma troppo tardi. — Così dunque,» gli diceva, «mi ricompensate del bene che v’ho fatto?» Ma il re non volle ascoltarlo, e reiterò l’ordine allo sgherro di scagliare il colpo mortale. Ricorse allora il medico alle preghiere. — Deh! sire, prolungatemi la vita, e Dio prolungherà la vostra; non fatemi morire, affinchè Iddio non v’abbia a trattare nel medesimo modo.

«Il pescatore qui interruppe la sua narrazione, per volgere la parola al genio: — Orbene, genio, tu vedi che quanto accadde allora fra il re greco ed il medico Duban, è pure testè accaduto fra noi due.» Poi continuò: «Il re greco, in vece di piegarsi alla preghiera del medico, il quale scongiuravalo in nome di Dio, gli rispose duramente: — No, no, è di assoluta necessità che ti faccia perire. Potresti togliermi la vita più malignamente ancora che tu non m’abbia guarito.» Intanto il medico, struggendosi in lagrime, e dolendosi amaramente di vedersi sì mal corrisposto del servigio reso al re, si preparò al passo fatale; il carnefice, bendatigli gli occhi e legate le mani, si mise in punto di sguainare la scimitarra. Indarno i cortigiani ch’erano presenti, mossi a compassione, supplicarono il re di fargli grazia, assicurandolo ch’ei non era reo, e rispondendo tutti della sua innocenza. Il re fu inflessibile, e parlò loro in modo che non ardirono insistere. Il medico in ginocchio, cogli occhi bendati e presso a ricevere il colpo che doveva troncargli la esistenza, si volse per l’ultima volta al re, e gli disse: — Sire, poichè vostra maestà non vuol rivocare [p. 71 modifica]il decreto della mia morte, vi supplico almeno di concedermi la grazia di andare sino a casa mia per dar ordine alla mia sepoltura, fare gli ultimi addii alla mia famiglia, dispensar elemosina, e disporre de’ miei libri a pro di persone capaci di farne buon uso. Ne posseggo uno, fra gli altri, di cui voglio far dono a vostra maestà: è un libro preziosissimo, e degno invero d’essere custodito accuratamente nel vostro tesoro. — E perchè è desso tanto prezioso? — Sire,» rispose il medico, «perchè contiene un’infinità di cose curiose, la principale delle quali si è che quando mi avranno tagliato il capo, se vostra maestà vorrà degnarsi d’aprire il libro al sesto foglio, e leggere la terza riga della pagina a sinistra, il mio capo risponderà a tutte le domande che vi piacerà di fargli.» Il re, bramoso di vedere cosa tanto maravigliosa, rimise la morte di lui alla domane, e lo mandò a casa sotto buona scorta.

«Il medico intanto mise in ordine i suoi affari; ed essendosi sparsa la fama che dopo la sua morte doveva accadere un prodigio inaudito, i visiri (1), gli emiri (2), gli ufficiali della guardia, tutta la corte infine si recò il giorno seguente alla sala d’udienza per esserne testimoni. In breve si vide comparire Duban, il quale, inoltratosi con un grosso libro in mano fino ai piè del trono, si fece recare un bacino, su cui spiegò la coperta ond’era avvolto il libro, e questo presentando al re: — Sire,» gli disse, «vi piaccia prendere questo libro, e tagliata che mi sarà la testa, comandate venga posta nel bacino sulla coperta del libro: appena vi sarà, il sangue cesserà di sgorgare; allora aprite il libro, e la mia testa risponderà a tutte le vostre domande. [p. 72 modifica]Ma,» soggiunse, «permettetemi, o sire, d’implorare ancor una volta la clemenza di vostra maestà. In nome di Dio, lasciatevi commovere; vi protesto che sono innocente. — Sono inutili,» rispose il re, «le tue preghiere; e non foss’altro che per udir parlare la tua testa dopo spiccata dal busto, voglio che tu muoia.» Ciò detto, prese il libro dalle mani del medico, ed accennò al carnefice di fare il suo dovere.

«La testa fu recisa sì destramente, che cadde nel bacino, e non appena si trovò sulla coperta, il sangue si rappigliò. Allora, con grande stupore del re e di tutti gli astanti, essa aprì gli occhi, e movendo le labbra, prese a dire: — Sire, apra la maestà vostra il libro.» Il re l’aperse, e trovando che il primo foglio era incollato col secondo, per voltarlo con maggior facilità, recandosi il dito alla bocca, lo umettò di saliva. Così fece fino al sesto foglio, e non trovando alcuna scrittura alla pagina indicata: — Medico,» disse alla testa, «qui nulla è scritto. — Voltate alcuni fogli ancora, «rispose la testa. Il re continuò a voltarne, sempre portando il dito alla bocca, finchè il veleno, ond’era imbevuto ogni foglio, cominciando a fare il suo effetto, il principe si sentì improvvisamente agitato da un trasporto straordinario; gli s’intorbidì la vista, e cadde appiè del suo trono in preda ad orribili convulsioni...»

A tali parole Scheherazade, vedendo il giorno, ne avvertì il sultano, e cessò di parlare. — Ah, mia cara sorella!» disse allora Dinarzade; «quanto mi duole che tu non abbia avuto tempo di finire questa storia! Sarei inconsolabile, se tu perdessi oggi la vita. — Sorella,» rispose la sultana, «sarà quel che piacerà al sultano, ma giova sperare ch’egli avrà la bontà di sospendere la mia morte fino a domani.» In fatti Schahriar, ben lungi dall’ordinare la di lei morte in quel giorno, aspettò con impazienza la [p. 73 modifica]prossima notte, tant’era invogliato di udire lo scioglimento della storia del re greco, e la continuazione di quella del pescatore e del genio.


NOTTE XVII


Per quanto curiosa fosse Dinarzade di udire il resto della storia del re greco, non si destò essa questa notte sì di buon’ora come il solito; anzi era quasi giorno quando disse alla sultana: — Mia buona sorella, ti prego di continuare la maravigliosa storia del re greco; ma di grazia, sollecitati, perchè il giorno è già vicino.»

Scheherazade riprese tosto il suo racconto al passo in cui l’aveva lasciato il giorno precedente. — Sire,» disse, «il pescatore continuò così: «Quando il medico Duban, o a meglio dire la sua testa, vide che il veleno faceva il suo effetto, e che il re aveva sol pochi momenti di vita: — Tiranno,» gridò, « ecco in qual modo sono trattati i principi che, abusando della loro autorità, fanno perire gl’innocenti. Iddio tosto o tardi ne punisce l’ingiustizia e la crudeltà.» Ebbe finite appena la testa queste parole, che il re cadde morto, ed essa pure smarrì il poco di vita che ancor le rimaneva.

«Sire,» proseguì Scheherazade, «tale fu la fine del re greco e del medico Duban. Ora è d’uopo far ritorno alla storia del pescatore e del genio; ma non val la pena di cominciarla, essendo già giorno.» Il sultano, di cui tutte le ore erano regolate, non potendo ascoltarla più oltre, si alzò; e siccome voleva udire assolutamente la continuazione della storia del genio e del pescatore, avvertì la sultana di prepararsi a narrargliela la notte susseguente.

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NOTTE XVIII


Dinarzade questa notte s’indennizzò della precedente, poichè destatasi molto prima di giorno, pregò tosto Scheherazade di raccontare il seguito della storia del pescatore e del genio, cui il sultano non meno di lei bramava ascoltare. — Eccomi pronta,» rispose la sultana, «a contentare la curiosità d’entrambi.» Allora, volgendosi a Schahriar: «Sire,» proseguì ella, «finita ch’ebbe il pescatore la storia del re greco e del medico Duban, ne fece l’applicazione al genio che sempre teneva chiuso nel vaso.

«— Se il re greco, » diss’egli, «avesse acconsentito a lasciare in vita il medico, Dio avrebbelo lascialo pur vivere anch’esso; ma perchè rigettò le sue più umili preghiere, Dio lo punì. Così pure fu di te, o genio; se avessi potuto placarti ed ottenere da te la grazia che ti domandava, avrei ora compassione dello stato in cui ti trovi; ma poichè, malgrado il grande obbligo che m’avevi per averti messo in libertà, hai persistito nella deliberazione d’uccidermi, io pure, alla mia volta, sarò spietato. Voglio adunque, lasciandoti in questo vaso, e gettandoti di nuovo in mare, toglierti l’uso della vita sino alla fine de’ secoli: è questa la vendetta che pretendo fare su te. — Pescatore, buon amico mio,» rispose il genio, «ti scongiuro di nuovo a non fare azione sì crudele. Pensa non essere virtù il vendicarsi, ma laudevol cosa è invero render bene per male; non trattarmi come Imma trattò una volta Ateca. — E che fece Imma ad Ateca?» chiese il pescatore. — Oh! se brami saperlo,» rispose il genio, «aprimi codesto vaso: credi tu ch’io abbia la voglia di contar storie in una sì angusta prigione? Novellerò fin che vorrai, quando [p. 75 modifica]mi avrai di qui tratto. — No,» disse il pescatore, «non isperare ch’io ti liberi; ma cessi ormai il ragionare; torna dunque in tondo agli abissi. — Un’altra parola, pescatore,» gridò il genio; «ti prometto di non farti alcun male; anzi, t’insegnerò un mezzo di diventare opulentissimo.» La speranza di trarsi dalla miseria disarmò il pescatore. — Potrei ascoltarti,» gli disse, «se si potesse far calcolo sulla tua parola: giurami, pel santo nome di Dio, che farai di buona fede quanto dici, ed io ti aprirò il vaso. Credo che non sarai tanto ardito da violare un tal giuramento.» Il genio lo fece, ed il pescatore levò subito il coperchio del vaso. Ne uscì tosto il fumo, ed il genio, ripigliata la sua forma nella stessa maniera dell’altra volta, la prima cosa che fece fu di gettar il vaso nel mare con un calcio. Quell’atto spaventò il pescatore. — Genio,» gli disse, «che cosa significa ciò? Non volete osservare il giuramento testè fatto? E dovrò ripetervi le parole del medico Duban al re greco: Lasciatemi vivere, e Dio prolungherà i vostri giorni?

«La tema del pescatore fe’ ridere il genio, il quale gli rispose: — No, pescatore, ti rassicura: gettai in mare quel vaso sol per divertirmi e vedere se ne avresti paura; ma per convincerti che voglio mantenerla parola, prendi le reti e seguimi.» Ciò dicendo, si mise a camminare innanzi al vecchio, il quale, carico delle sue reti, lo seguiva con certa qual diffidenza. Passarono davanti alla città, e saliti in cima d’un monte, scesero quindi in un’ampia pianura, e si diressero verso uno stagno situato tra quattro colline.

«Giunti sulla sponda dello stagno, il genio disse al vecchio: — Getta le reti e piglia pesce.» Il pescatore non dubitò di prenderne, vedendone grandissima quantità nello stagno; ma quello che sommamente lo sorprese, fu l’osservare esservene di quattro colori diversi, cioè bianchi, rossi, turchini e gialli. [p. 76 modifica]Calò le reti e ne pigliò quattro, ciascuno de’ quali era d’uno di quei colori. Siccome non ne aveva mai veduto di simili, non poteva saziarsi dall’ammirarli, e stimando di poterne ricavare una somma considerevole, ne sentiva grande allegrezza. — Prendi quei pesci,» gli disse il genio, «e va a presentarli al tuo sultano: ei ti darà più denaro che tu non n’abbia maneggiato in tutta la tua vita. Potrai venire ogni giorno a pescare in questo stagno; ma ti avverto di non gettar le reti che una volta sola al giorno; altrimenti mal te ne avverrà; bada bene all’avvertimento che ti do, e se lo segui a puntino, te ne troverai contento.» Ciò detto, battè col piede la terra, che s’aprì, e si rinchiuse dopo averlo inghiottito.

«Il pescatore, risoluto di seguire in tutto i consigli del genio, si guardò bene dal gettare una seconda volta le reti, ed avviatosi alla città, contentissimo della pesca, andava facendo mille riflessioni sulla sua avventura. Corse poi difilato al palazzo del sultano per presentargli i suoi pesci...

«Ma, sire,» disse Scheherazade, «veggo il giorno; bisogna che mi fermi qui. — Sorella,» disse allora Dinarzade, quanto sono sorprendenti gli ultimi casi che ci narrasti! Dubito assai che tu possa d’or innanzi raccontarne altri che lo siano di più. — Mia cara sorella,» rispose la Sultana, «se il sultano mio padrone mi lascia vivere fino a domani, son persuasa che troverai il seguito della storia del pescatore ancor più maravigliosa del suo principio, ed incomparabilmente più gradevole.» Schahriar, curioso di sentire se il resto della storia del pescatore fosse qual promettevalo la sultana, differì ancora l’esecuzione della legge crudele ch’erasi imposta.

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NOTTE XIX


Verso la fine della decimanona notte, Dinarzade, chiamata la sultana, le disse: — Sorella, sono impazientissima di udire il seguito della storia del pescatore; raccontala di grazia, intanto che comparisce il giorno.» Scheherazade, permettendolo il sultano, ripigliò allora di tal guisa:

— Lascio pensare alla maestà vostra qual fu la sorpresa del sultano al vedere i quattro pesci presentatigli dal pescatore. Li prese un dopo l’altro per considerarli attentamente; ed ammiratili a lungo: — Prendete questi pesci,» disse poi al suo primo visir, «e portateli all’abile cuoca mandatami dall’imperatore de’ Greci; m’immagino che non saranno men buoni di quel che sono belli.» Il visir li portò in persona alla cuoca, e nel consegnarglieli le disse: — Ecco quattro pesci recati in questo momento al sultano; egli vi ordina di prepararglieli.» Eseguita la commissione, tornò al sultano suo padrone, che lo incaricò di dare al pescatore quattrocento pezze d’oro di sua moneta, il che puntualmente fu fatto. Il pescatore, il quale non aveva mai posseduta una sì gran somma tutta in una volta, non capiva in sè dalla gioia, e risguardava tale felicità come un sogno; ma conobbe quindi ch’era reale pel buon uso che ne fece, impiegandola nei bisogni della famiglia.

«Ma, sire,» proseguì Scheherazade, «dopo avervi parlato del pescatore, debbo parlarvi eziandio della cuoca del sultano, che siamo per trovare in un grande imbroglio. Puliti ch’ebbe i pesci recati dal visir, li pose sul fuoco in una casserola coll’olio per friggerli, e quando li credè abbastanza cotti da un lato, li volse dall’altro. Ma, o prodigio inaudito! appena [p. 78 modifica]furono rivoltati, il muro della cucina si spalancò, e ne uscì una giovane di ammirabile bellezza e statura maestosa, vestita d’una stoffa di raso a fiori all’uso d’Egitto, con orecchini, una collana di grosse perle e braccialetti d’oro guarniti di rubini; la quale, tenendo in mano una bacchetta di mirto, si accostò alla casserola, con grande meraviglia della cuoca, che a tal vista rimase immobile, e percuotendo uno de’ pesci colla punta della bacchetta, gli disse: — Pesce, pesce, sei tu nel dover tuo?» Non avendo il pesce risposto, essa ripetè le medesime parole, ed allora i quattro pesci alzarono tutti insieme il capo, e dissero distintamente: — Sì, sì; se voi contate, noi contiamo: se pagate i vostri debiti, noi paghiamo i nostri; se voi fuggite, noi vinciamo e siamo contenti.» Finite ch’ebbero tali parole, la giovane rovesciò la casserola, e rientrò nella fessura del muro, che si richiuse tosto e tornò nel medesimo stato di prima.

«La cuoca, spaventata di tutte quelle maraviglie, rinvenuta dal suo terrore, andò a raccogliere i pesci caduti sulla bragia; ma trovandoli più neri del carbone, e fuor di stato d’essere serviti al sultano, n’ebbe gran dolore, e mettendosi a piangere direttamente: — Ahi!» sclamò, «cosa sarà di me? Quando racconterò al sultano ciò che ho veduto, son certa che non vorrà credermi; e chi sa in qual furia monterà egli contro di me!

«Mentr’ella così affliggevasi, entrò il gran visir e le chiese se i pesci fossero pronti. Gli narrò essa allora l’accaduto; e quel racconto, come ognun può credere, lo sorprese assai; ma senza parlarne al sultano, inventò una scusa per contentarlo, e mandò sul momento a cercare il pescatore, arrivato il quale: — Pescatore,» gli disse, «portami quattro altri pesci simili a quelli che già recasti.» Il vecchio non gli comunicò quanto avevagli raccomandato il genio; [p. 79 modifica]ma per dispensarsi dal somministrare in quel giorno i pesci domandati, addusse a pretesto la lunghezza della strada, e promise di recarli il giorno dopo.

«In fatti, partito il pescatore durante la notte e giunto allo stagno, vi gettò le reti, e ritirandole vi trovò quattro pesci, ciascuno d’un colore diverso come i primi. Se ne tornò quindi subito, e recatili al gran visir pel tempo stabilito, il ministro li prese, e li portò nuovamente in persona nella cucina, ove rinchiusosi solo colla cuoca, cominciò questa ad allestirli in sua presenza, e poi li mise sul fuoco, come fatto aveva coi quattro altri il giorno precedente. Cotti che furono da una parte, quando li ebbe voltati dall’altra, il muro della cucina si aprì di nuovo, e comparve la medesima dama colla sua bacchetta in mano, la quale, accostatasi alla casserola, battè uno dei pesci, gli volse le medesime parole, ed essi, alzando la testa, diedero tutti la stessa risposta.

«Ma, sire,» aggiunse Scheherazade interrompendosi, «ecco il giorno che spunta, e m’impedisce di continuare. Le cose che v’ho contato sono, a vero dire, singolarissime; ma se sarò in vita domani, altre ve ne dirò assai più degne della vostra attenzione.» Schahriar, stimando che la continuazione dovesse essere molto curiosa, risolse di udirla la notte seguente.


NOTTE XX


— Mia cara sorella,» sclamò Dinarzade secondo il suo solito, «ti prego di continuare e finire la bella novella del pescatore.» La sultana prese tosto la parola in questo tenore:

— Sire, risposto ch’ebbero i quattro pesci alla giovane dama, ella rovesciò ancora la casserola con un [p. 80 modifica]colpo della bacchetta, e si ritirò pel medesimo sito della parete ond’era uscita. Il gran visir essendo stato testimonio del caso: — Questa è troppo sorprendente,» disse, «e troppo straordinaria cosa per farne mistero al sultano; corro subito ad informarlo del prodigio.» E in fatti andò a fargliene un rapporto fedele.

«Sommamente sorpreso il sultano, dimostrò molta premura di vedere anch’egli simile portento. A tal effetto, mandato a chiamare il pescatore, — Amico,» gli disse, «non potresti portarmi altri quattro pesci di vario colore?» Il pescatore rispose al sultano, che se sua maestà volesse concedergli tre giorni per fare quanto desiderava, egli prometteva di accontentarlo; ottenutili, andò per la terza volta allo stagno, nè fu meno felice delle altre due, che al primo gettar delle reti pigliò quattro pesci di vari colori. Non mancò di portarli subito al sultano, il quale n’ebbe tanta maggior gioia, in quanto non aspettavasi di averli sì presto, e gli fece contar nuovamente quattrocento pezze d’oro. Non appena ebbe il sultano i pesci, li fece portare nel suo gabinetto con tutto il necessario per cucinarli; e rinchiusosi col gran visir, il ministro li preparò, poscia li pose sul fuoco in una casserola, e quando furono cotti da un lato, li volse dall’altro. Allora si aprì il muro del gabinetto, ma in vece della bella giovane, videro uscirne un Negro, vestito da schiavo, di gigantesca altezza e grossezza, il quale teneva in mano un grosso bastone verde. S’inoltrò costui fino alla casserola, e toccando col bastone uno dei pesci, con terribil voce gli disse: — Pesce, pesce, sei tu nel tuo dovere?» A tali parole alzarono i pesci la testa, e risposero: — Sì, sì, ci siamo; se voi contate, noi contiamo; se pagate i vostri debiti, noi li paghiamo; se voi fuggite, noi vinciamo, e siamo contenti.

«Profferite appena dai pesci quelle parole, il Negro [p. 81 modifica]rovesciò la casserola in mezzo al gabinetto, e ridusse i pesci in carbone. Poi si ritirò fieramente, e rientrato nell’apertura del muro, questo si rinchiuse ed apparve nel medesimo stato di prima. — Dopo ciò che ho veduto,» disse il sultano al gran visir, «non mi sarà possibile d’avere l’animo tranquillo. Quei pesci significano di certo qualche cosa di straordinario, di cui voglio venir in chiaro.» Mandò a cercare il pescatore, e fattolo venire al suo cospetto: — Pescatore,» gli disse, «i pesci che ci hai recati mi danno molta inquietudine. In qual sito li hai tu presi? — Sire,» quegli rispose, «li ho pescati in uno stagno che giace in mezzo a quattro colline, al di là del monte che di qui si vede. — Conoscete codesto stagno?» chiese il sultano al visir. — No, sire,» rispose il visir, «non ne ho mai udito parlare; eppur sono sessant’anni che vo a caccia nei dintorni ed oltre quel monte.» Chiese allora il sultano al pescatore a qual distanza fosse lo stagno dal suo palazzo; ed avendogli costui risposto non esserne lontano più di tre ore di cammino, dietro tale asserzione, e giacchè restava ancora giorno bastante per giungervi prima di notte, il sultano comandò a tutta la corte di montare a cavallo, prendendo a guida il pescatore.

«Salirono tutti la montagna, e scendendone, videro con molta sorpresa una vasta pianura, che nessuno sin allora aveva notata; infine giunsero allo stagno, che trovarono situato infatti fra quattro colline, come aveva riferito il pescatore; e l’acqua essendone limpidissima, osservarono che tutti i pesci erano simili a quelli dal vecchio recati al palazzo. Fermossi il sultano sulla sponda dello stagno, e mirati alcun tempo con ammirazione i pesci, domandò agli emiri ed a tutti i cortigiani se fosse possibile che non avessero mai veduto quello stagno sì poco distante dalla città. Risposero che non ne avevano mai udito parlare. [p. 82 modifica]— Poichè tutti convenite,» disse allora egli, «di non conoscerlo, e ch’io non sono meno stupito di tale novità, sono determinato a non rientrare nel mio palazzo, se non ho saputo prima per qual ragione si trovi qui questo stagno, e perchè vi sieno entro soltanto pesci di quattro colori.» Ciò detto, ordinò di accampare, e tosto il suo padiglione e le tende della sua corte furono erette sulla riva dello stagno.

«Sul far della notte, il sultano, ritiratosi nel suo padiglione, parlò in segreto al gran visir. — Visir,» gli disse, «ho l’animo stranamente turbato: questo stagno trasportato in questi luoghi, quel Negro comparso nel nostro gabinetto, e quei pesci che abbiamo udito parlare; tutto ciò eccita in guisa la mia curiosità, che non posso resistere all’impazienza di soddisfarla. A tal fine ho meditato un disegno, che voglio assolutamente eseguire. Penso allontanarmi solo dal campo; vi comando pertanto di tenere segreta la mia assenza; fermatevi sotto il mio padiglione, e domattina, quando gli emiri ed i cortigiani si presenteranno all’ingresso, rimandateli, dicendo che sono indisposto e bramo restar solo. I giorni seguenti, continuerete a dir loro la medesima cosa fino al mio ritorno.

«S’affannò il gran visir a distogliere il sultano dalla sua idea, rappresentandogli il pericolo cui si esponeva, e la pena che stava per prendere, forse invano. Ma ebb’egli un bell’esaurire tutta la propria eloquenza, il sultano non rinunciò alla presa risoluzione, e preparandosi ad effettuarla, vestì un abito comodo per camminare a piedi, si munì d’una sciabola, e quando vide che tutto nel campo era tranquillo, partì affatto solo. Volse prima i suoi passi verso una delle colline che ascese senza fatica. Ancor più agevole gliene riuscì la discesa, e giunto al piano, andò camminando fino al levar del sole. Allora, scorgendo da lontano un grande edificio, se ne rallegrò, nella speranza di [p. 83 modifica]potervi sapere quanto bramava. Accostatosi, vide ch’era un magnifico palazzo, o piuttosto un fortissimo castello di bel marmo nero lucido, coperto d’acciaio terso come uno specchio; pieno di gioia di non essere stato a lungo senza incontrare qualche cosa degna della sua curiosità, si fermò davanti alla facciata del castello a rimirarla con attenzione. Si avanzò poscia fino alla porta, fatta a due imposte, una delle quali era aperta; benchè adunque egli potesse liberamente entrare, pure si credè in dovere di battere. Bussò dapprima un colpo assai lieve, ed attese qualche tempo; non vedendo venire alcuno, s’immaginò di non essere stato udito, e battè quindi una seconda volta più forte; ma non vedendo nè udendo gente, raddoppiò i colpi; nè ancora alcuno comparve. Ciò lo sorprese all’estremo, non potendo persuadersi che un castello di tal bellezza fosse abbandonato. — Se non c’è alcuno,» pensava fra sè, «non ho da temer nulla; e se ci sarà gente, ho da difendermi.

«Infine il sultano entrò, ed inoltrandosi sotto al vestibolo: — Non ci sarà qui nessuno.» gridò, «per ricevere un viaggiatore, che avrebbe bisogno di reficiarsi?» Ripetè la medesima cosa due o tre volte; ma sebbene parlasse ad alta voce, niuno rispose. Quel silenzio aumentò il suo stupore. Penetrò in un ampio cortile, e guardando da tutti i lati per vedere se gli riusciva di scoprire qualcuno, non vide creatura vivente....

«Ma, sire,» disse in questo punto Scheherazade, «il giorno che spunta viene ad impormi silenzio. — Ah! sorella,» sclamò Dinarzade, «tu ci lasci sul più bello. — È vero,» rispose la sultana, «ma, sorella, anche tu ne vedi la necessità. Starà al sultano, mio padrone, il permettere che tu abbia ad udirne il resto domani.» Non fu tanto per compiacere Dinarzade, quanto per soddisfare la propria curiosità [p. 84 modifica]sapere che cosa sarebbe accaduto nel castello, che Schahriar lasciò ancora in vita la sultana.


NOTTE XXI


Non fu tarda Dinarzade a destare la sultana sul finir di questa notte. — Cara sorella,» le disse, «ti prego di raccontarci cosa sia avvenuto in quel bel castello in cui ci lasciasti ieri.» Scheherazade ripigliò tosto la novella del giorno precedente, volgendosi sempre a Schahriar.

— Sire,» ella disse, « non vedendo dunque il sultano alcuno nel cortile in cui si trovava, entrò in varie grandi sale, il cui suolo era coperto di serici tappeti, i palchetti ed i sofà di stoffa della Mecca, e le portiere de’ più ricchi broccati d’oro e d’argento delle indie. Passò poscia in un salone maraviglioso in mezzo al quale sorgeva una fontana con un lione d’oro massiccio a ciascun lato. I quattro lioni gettavano acqua dalla bocca, e quell’acqua, cadendo, formava diamanti e perle, lo che ben accoppiavasi ad uno zampillo che, innalzandosi dal mezzo del bacino, arrivava quasi a toccare il fondo d’una volta dipinta a rabeschi. Era il castello circondato da tre parti da un giardino, leggiadramente abbellito di aiuole, laghetti, boschetti e mille altre delizie; a compimento poi di tante maraviglie, un’infinità di uccelletti riempivano l’aria de’ loro armoniosi ghorgheggi, facendo ivi costante soggiorno, impediti com’erano d’uscirne da reti tese al di sopra degli alberi e del palazzo. Il sultano passeggiò a lungo di appartamento in appartamento, ove tutto gli parve grande e magnifico; stanco infine di camminare, si adagiò in un gabinetto aperto, che guardava sul giardino, dove, piena la fantasia di quanto aveva [p. 85 modifica]vedute e tuttor vedeva, andava facendo mille riflessioni su tutti quei diversi oggetti, quando d’improvviso venne a ferirgli l’orecchio una querula voce accompagnata da lamenti. Ascoltò con attenzione ed udì distintamente queste parole: — O fortuna, che non mi lasciasti a lungo godere una sorte felice, cessa di perseguitare il più sventurato degli uomini, e con una pronta morte vieni a por termine alle mie pene! Aimè! è mai possibile ch’io sia ancora in vita, dopo tanti tormenti sofferti?

«Mosso a pietà il sultano da quei lamenti, si alzò per andare al luogo d’ond’erano partiti. Giunto alla porta d’una gran sala, sollevò la portiera, e vide un giovane ben fatto e sfarzosamente vestito, seduto sur un trono alquanto alto da terra, il cui volto era atteggiato a tristezza. Accostatosegli il sultano, lo salutò. Il giovane gli restituì il saluto, facendogli un profondo inchino colla testa, e siccome non si alzava: — Signore,» disse al sultano, «son persuaso che meritiate ch’io m’alzi per accogliervi e rendervi tutti i possibili onori; ma vi si oppone una ragione sì forte, che non dovete farmene carico veruno. — Signore,» il sultano soggiunse, «vi sono assai grato della buona opinione in cui m’avete. Quanto al motivo che potete avere di non alzarvi, qualunque sia la scusa, l’accetto di buon cuore. Attirato dai vostri lamenti, commosso dalle vostre pene, vengo ad offrirvi il mio aiuto; e piacesse a Dio che da me dipendesse l’alleviare i vostri mali mi vi adoprerei a tutto potere. Spero che vorrete raccontarmi la storia delle vostre sciagure; ma favorite dirmi in pria che cosa significa quello stagno qua vicino, ove si veggono pesci di quattro diversi colori; che cosa è questo castello; perchè vi ci trovate, e d’onde nasce che siete qui solo?» Invece di rispondere a tali interrogazioni, il giovane si mise a piangere amaramente, [p. 86 modifica]— Quanto incostante è la fortuna,» sclamò. «Ella si compiace a deprimere gli uomini che aveva innalzati; ove sono coloro che godano tranquillamente d’una felicità che a lei debbono, ed i cui giorni siano sempre puri e sereni?» Il sultano, commosso al vederlo in quello stato, lo pregò istantemente di palesargli il motivo di sì gran dolore. — Aimè! signore,» rispose il giovine, « come potrei non essere afflitto, e qual mezzo farà sì che i miei occhi cessino dal versare rivi di lagrime....?» A tali parole avendo alzata la veste, fe’ vedere al sultano che non era uomo se non dalla testa alla cintura, e che l’altra metà del corpo era di marmo nero....»

Qui Scheherazade sospese il suo discorso per far osservare al sultano delle Indie che il giorno già compariva. Schahriar era sì maravigliato di quanto aveva udito, e tanto si sentì intenerito in favore di Scheherazade, che risolse di lasciarla vivere per un mese. Nondimeno si alzò secondo il solito, senza parlarle della presa risoluzione.


NOTTE XXII


Dinarzade aveva tanta impazienza di sentire il seguito della novella della notte precedente, che chiamò la sultana assai per tempo, supplicandola di continuare il maraviglioso racconto. — Sono ad esaudirti,» rispose Scheherazade; «ascoltami.

«Già v’immaginate,» proseguì essa, «che il sultano rimase singolarmente attonito quando vide il deplorabile stato in cui trovavasi quel giovane. — Ciò che mi faceste vedere,» gli disse, «ispirandomi orrore, eccita in pari tempo la mia curiosità; ardo di conoscere la vostra storia, che dev’essere certo molto strana; ed essendo persuaso v’abbiano [p. 87 modifica]qualche relazione lo stagno ed i pesci, vi scongiuro di raccontarmela; ci troverete in certa qual guisa conforto; che gl’infelici sentono sempre una specie di sollievo a narrare le loro disgrazie. — Non voglio negarvi questa soddisfazione,» riprese il giovane, «benchè non possa darvela senza rinnovarei miei vivi dolori, ma vi avverto anticipatamente di preparare le orecchie, lo spirito e persino gli occhi a cose che superano di gran lunga quanto l’immaginazione può concepire di più straordinario.


Note

  1. I membri del consiglio, di cui è capo il gran visir.
  2. I primi officiali civili.