Le Mille ed una Notti/Il Bimaristan o Storia del Giovane Mercante di Bagdad e della Dama Incognita

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Il Bimaristan o Storia del Giovane Mercante di Bagdad e della Dama Incognita
Nuove avventure del Califfo Aaron Alraschild, ossia Storia della Pronipote di Chosroe Anoschirvan Il Medico Persiano ed il Giovane Bettoliere di Bagdad
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NOTTE CDXXXV

IL BIMARISTAN (1)

O STORIA DEL GIOVANE MERCANTE DI BAGDAD

E DELLA DAMA INCOGNITA.


— Il califfo Aaron Alraschild, stanco un giorno degli affari, e volendo prendere qualche sollievo, mandò a cercare il visir Giafar, e gli disse: — Usciamo insieme dal palazzo; io vorrei mescolarmi col popolo di Bagdad, sapere quali ne siano i discorsi, conoscere le ingiustizie che possono commettersi, soccorrere gli oppressi, e punire gli oppressori.» Travestitosi tosto con abiti di dervis, uscirono unitamente dal palazzo, accompagnati da Mesrur, capo degli eunuchi. Percorse molte contrade della città, si trovarono rimpetto alla porta d’un ospitale.

«— Che cos’è questo edificio?» chiese il califfo al visir; «mi sembra vasto e spazioso. — Signore,» rispose Giafar, «è una casa di salute ove si ricevono i poveri ammalati, ed in cui sono rinchiusi alcuni pazzi. — Entriamo,» soggiunse Aaron, «per vedere se si ha cura di codesti infelici, se gli amministratori non mangiano le rendite di questa casa e non lasciano mancare le cose necessarie ai ricoverati. — [p. 164 modifica]«Entrati, visitarono da principio, l’infermeria; attraversate molte sale, le trovarono tutte pulite; i letti erano belli, e tutti i malati avevano vicino a sè i medicamenti, le pozioni, e tutte le cose delle quali aveano bisogno.

«Visitarono poscia i pazzi. Il califfo disse a Giafar: — Bisogna che tu entri nella stanza d’uno di questi pazzi; Mesrur entrerà in un’altra, ed io nella terza.» Mosrur, frettoloso di adempire all’incarico affidatogli, disse che avrebbe cominciato egli; ed entrò subito nella prima che gli si presentò.

«Vi trovò un pazzo che si divertiva a tagliuzzare l’abito che indossava, gridando: — Bei frutti d’Irak! bei frutti d’Irak! (2)» Mesrur gli disse: — Vendetemi di que’ frutti, affinchè li faccia assaggiare ai miei compagni. — Accostatevi e prendete,» rispose il pazzo. Mesrur essendosi avvicinato quasi per prendere di que’ frutti immaginari, il pazzo lo prese pel collo, raccolse immondizie, e gliene fregò il viso. Poscia si mise a ridere, e lasciossi cadere al rovescio, continuando le risa. Mesrur, tutto confuso, corse subito a lavarsi alla fontana.

«Il califfo disse allora a Giafar d’entrare a sua volta in un’altra camera; esso vi entrò, e vide un pazzo seduto tranquillamente. — Buon giorno,» gli disse Giafar. — Buon giorno,» rispose il pazzo. «Che la pace e la benedizione di Dio siano con voi! — Mi sembrate un uomo di buon senso,» riprese Giafar; «perchè siete qui? — Ci sono perchè un giorno dissi a’ miei parenti e concittadini ch’io era un profeta mandato da Dio. Essi non vollero credermi, e sollevatisi contro di me, s’impadronirono della mia persona e m’hanno qui condotto. — [p. 165 modifica]«A tali parole, Giafar fuggì e recossi dal califfo. — Perchè l’hai lasciato così subito?» disse questi. — Signore,» riprese Giafar, «colui è un empio, un impostore: dice di essere un profeta mandato da Dio. — Ciò non è impossibile,» soggiunse il califfo; «Dio ha creati molti profeti, che mandò agli uomini in diversi tempi; ma ogni profeta deve provare la sua missione con evidenti miracoli: va dunque, e domandagli quai miracoli abbia operato. —

«Giafar rientrò nella camera del pazzo, e gli disse: — I profeti che v’hanno preceduto operarono miracoli evidenti: quali sono quelli che faceste? — Se volete un miracolo,» rispose il pazzo, «io ve ne farò subito uno, affinchè mi crediate. — Scegliete voi stesso, e fatelo dinanzi a me,» rispose Giafar. — Andate,» disse il pazzo, «salite su quell’alto edificio, e precipitatevi dalla terrazza; voi andrete a terra, e vi romperete il collo. Io verrò tosto da voi, e dirò: Alzati! e voi vi alzerete sano e salvo.

«— Vedo che siete un vero profeta,» disse Giafar, «e credo di tutto cuore alla vostra missione.» Egli tornò dal califfo, e gli raccontò ciò che il pazzo aveva detto. — A quel che vedo,» disse Aaron, «tu non hai volontà di esperimentare la sua potenza. Eppure il merito degli uomini si conosce alla prova, dice il proverblo. —

«Aaron entrò poscia coi compagni nella terza camera. Vi trovò un giovane ancora imberbe, d’interessante aspetto, il quale tenevasi un libro che leggeva. Il califfo lo salutò, colui gli rese il saluto. — Perchè vi trovate qui?» gli chiese; giacchè mi sembra che abbiate tutta la vostra ragione.» Il giovane, traendo un profondo sospiro rispose:

«— Sedete qui tutti, rispettabili dervis; affinchè v’apra il mio cuore e vi racconti la causa della mia detenzione. Ogni giorno io prego Iddio, onde faccia [p. 166 modifica] venir qui il nostro sovrano; per narrargli in qual maniera fui trattato per ordine del suo visir Giafar; son certo che, se potesse ascoltarmi, mi renderebbe la libertà e punirebbe il suo visir per aver firmato sì leggermente l’ordine di rinchiudermi. Io spero che aggiungerete le vostre preghiere alle mie, per ottenere dal cielo la grazia che gli domando. —

«Il califfo, a tali parole, guardò Giafar. Questi, assai meravigliato, cercava fra se chi fosse quel giovane, e su qual cosa fossero fondate le sue querele; ma riflettendo ch’era pazzo, e che non bisognava far attenzione ai detti de’ mentecatti, sorrise ed alzò le spalle.

«Aaron, bramoso di conoscere la verità, disse al giovane: — Acconsento volontieri ad udire il racconto della vostra storia, e vi prometto che pregheremo il cielo di mandarvi il califfo; onde farvi render giustizia. — Dio vi ascolti!» rispose il giovane; «sedete.» Il principe sedette, ed egli cominciò così la narrazione:

«— Mio padre è sindaco dei mercatanti di Bagdad. Egli invitò una sera a cena molti negozianti della città. Ciascun d’essi aveva condotto seco il primogenito. Dopo uno splendido pasto, al quale si fece onore, ed ove si sollazzarono molto, la conversazione cadde sulla carriera da darsi ai figliuoli. Questi, approfittando dell’allegria e del buon umore, esternarono liberamente la loro inclinazione per questa o quella parte del commercio, pregando i genitori di avviarveli. Uno diceva: — Padre, io vorrei che voi mi faceste viaggiare.» Un altro: — Padre, vorrei che mi apriste una bottega.» Un terzo: — Padre, io vorrei fare il commissionario.» Infine, tutti i ragazzi presenti volevano fare chi una cosa, chi un’altra, ed i loro genitori promettevano sempre di soddisfarli.

«Io ascoltava attentamente tutti que’ discorsi, ed [p. 167 modifica] invidiava in segreto i giovani. Quando fui solo con mio padre, gli dissi: — Voi avete inteso che tutti que’ giovanetti chiedevano ai genitori di dar loro una professione? E fin quando mi lascerete in ozio?» Mio padre rispose: — La maggior parte di que’ mercanti saranno obbligati ad indebitarsi per dare uno stato ai loro figli. Per me, grazie al cielo, ho di che avviarti sur una buona carriera; e dopo domani tu avrai una bottega, un fondo di commercio, e ti porrò in istato di vendere e comperare. —

«All’indomani, mio padre andò nel quartiere dei mercatanti: prese in affitto una bottega, e la riempì di merci d’ogni qualità pel valore di due mila piastre (3). Il posdomani, io mi recai alla bottega, e l’apersi; vendetti, comperai, feci cambio, prestai: io era contentissimo di me stesso e del mio nuovo mestiere! I vicini vennero a trovarmi, augurandomi ogni prosperità.

«Continuai tutte le mattine a recarmi alla mia bottega, e dopo quattro mesi, feci buoni affari; io era conosciuto da molti. Mio padre veniva ogni giorno a trovarmi, mi raccomandava a’ vicini, ed era assai contento al vedere la mia riuscita. —

«Un giorno, che stava occupato a mostrare varie merci ad alcuni avventuri, parecchie dame entrarono nella bottega seguite dalle loro schiave. Fra quelle signore io notai soprattutto una giovane che mi parve di straordinaria beltà. Le persone che stavano allora meco, si alzarono, dicendo sarebbero tornate quando quelle dame avessero fatto i loro acquisti. —

«Le dame sedettero nella bottega e mi dissero: — Noi vorremmo comperare varie belle stoffe pel valore di cinquecento piastre.» Io ne feci vedere loro moltissime: esse le presero tutte fino all’ammontare della [p. 168 modifica] somma. Calcolai fra me, e vidi che guadagnava cento piastre all’incirca sul contratto. Feci sei pacchi di tutte quelle stoffe, o presentai loro il conto.

«— Io non ho denaro con me,» mi disse la giovane, «e non amo comperare a credito! fra pochi giorni verremo a prendere quelle stoffe, vi paghereno il prezzo stabilito e ne acquisteremo altre. — Come! signora,» le dissero le schiave, «voi non conoscete dunque questo giovane mercatante? e per chi lo prendete? È il figlio del sindaco dei mercatanti di Bagdad. Lo credete voi uomo da dire: Io non do la mia merce senza denaro, oppurre: Io non ho il bene di conoscervi?» Così dicendo, le schiave presero i pacchi; le dame si alzarono, e salutatomi, se ne andarono. —

«Io non pensai a chiedere a quelle dame ove dimorassero; le lasciai partire senza dir loro una sola parola, ma non tardai a pentirmene. — Perchè,» dissi fra me, «non ho domandato il loro domicilio?» Aspettai fine a sera, sempre senza veder venire nessuna persona da parte di quelle donne. Io mi alzo afflittissimo, dicendo fra me: — Oh! volesse il cielo che non avessi loro venduto nulla! Non sarebbe stato meglio guadagnare la sola metà, ed aver ricevuto il denaro? Ah! se avessi ritenute le mercanzie! Quelle donne m’hanno ingannato; lo prevedo, esse non torneranno più. —

«Assorto in tali riflessioni, chiusi la bottega, e me ne tornai a casa, assai imbarazzato di quello che direi a mio padre, quando sapesse l’accaduto. Appena entrato, mia madre s’accorse ch’io non era del solito buon umore. — Che cos’hai?» mi disse; «mi sembri arrabbiato. È inutile il dissimulare; vedo che hai alcun che ti dà pena. Dimmi cosa ti è avvenuto che tanto t’accora.» La madre mi pregò tanto, e tanto insistette, che fui costretto a raccontarle l’avventura. [p. 169 modifica]«— Varie dame,» le dissi, «comperarono da me per cinquecento piastre di stoffe, le portarono via senza pagarmi, ed io non le conosco. — Non bisogna accerarsi così,» disse mia madre; «per guadagnare fa d’uopo saper qualche volta perdere. Se quelle donne non verranno a portarti il valore delle tue merci, te le pagherò io: perciò consolati, sta tranquillo, ma d’or innanzi rifletti a quel che fai. — Non voglio nulla,» le risposi. «Lasciatemi stare.» Io era tanto afflitto, che quella sera non mangiai; mi chiusi nella mia camera, e m’addormentai riflettendo a quel disgustoso caso.

«All’indomani andai al mercato, apersi la bottega, e vi rimasi fino a sera senz’alcuna nuova delle dame che m’avevano portate via le merci. Io tornai a casa ancor più melanconico della sera precedente.

«— Figlio,» disse mia madre al vedermi, «non bisogna più pensare a quello che è accaduto; temo che tu non cada ammalato pel dispiacere: non s’impara che a proprie spese.» Mia madre aveva un bel consolarmi; io non gustava alcun conforto, e passai così tre giorni nella maggior afflizione.

«Il quarto, apersi di buon’ora la bottega, secondo il solito. Appena fui seduto, le stesse dame entrarono d’improvviso, augurandomi il buon giorno. Stimai sulle prime che fossero altre persone. — Dateci il conto,» mi disse allora una di loro. — Che conto? — Il conto di quello che vi dobbiamo: siamo venute a pagarvi. —

«A tali parole, l’animo mio si calmò, il mio viso rasserenossi. Esse mi contarono le cinquecento piastre; io le presi e le misi sotto chiave. — Noi vorremmo,» soggiunsero quindi le dame, «acquistarne altre.» Consegnai loro tutto quello che desiderarono, ed esse lo portarono via come la prima volta. La sera, chiusi la bottega e tornai tutto giulivo a casa. Mia madre, [p. 170 modifica] vedendomi aspetto gaio e contento; mi disse: — Io son certa che quelle dame sono venuta e t’hanno pagato. — È vero,» risposi. — Te l’aveva ben detto,» riprese mia madre. «Ecco coma va il commercio: si vende a credito, si aspetta un poco, e si vien poscia pagati.»


NOTTE CDXXXVI


— Continuai a vendere alle medesime dame merci di tutte le qualità finchè mi dovettero circa dieci borse. Essendo allora seduto in bottega, vidi entrare una vecchia. — Buon giorno,» le dissi; «volete comperare una mantiglia od un fazzoletto? Scegliete: bramate veli d’Estamboul (4), turbanti di broccato d’oro? Ditemi cosa desiderate. — Io non desidero altro,» rispose colei, «se non che stiate bene; ma ascoltami un momento: ho due parole a dirvi. — Potete parlare liberamente,» risposi. — Quella dama,» continuò la vecchia, «venuta da voi seguita da molte schiave, e che ha comperato molte stoffe, bramerebbe sposarvi; se acconsentite, ciò ch’ella vi deve sarà la sua dote; avrete una donna la cui beltà pareggia quella delle huri. Venite con me e la vedrete; se vi piace, la sposerete; altrimenti vi si conterà il vostro denaro, e ve ne andrete. —

«A tali parole, io non sapeva che cosa rispondere, e non osava seguirla. — Forse,» dissi tra me, «vogliono ridersi di me; non ho voglia di espormi ad una simile avventura. — Non temete, figliuol mio,» soggiunse la vecchia, avvedendosi del mio imbarazzo; «non si ha intenzione d’ingannarvi. — E perchè,» [p. 171 modifica] pensai allora, «perchè non tenterò la fortuna? Quanti altri arricchirono per simili colpi del caso! Che cosa arrischio io seguendo questa vecchia? E che può accadere ad un uomo di qualche coraggio?» Allora chiusi la bottega, e partii con lei. Avevamo fatta la metà strada, quando la vecchia mi fermò dicendo: — Figliolo, bisogna esser sempre previdenti in questo mondo, e prendere le precauzioni necessarie; voi siete per entrare in casa nostra, e vedere la giovine; se ella non vi piace, ve ne andrete; tali sono i nostri patti, ma voi potreste allora pubblicare quest’avventura e disonorarci; il solo mezzo di garantirci da tal inconveniente, e di bendarvi gli occhi, onde non sappiate per qual via sarete venuto, nè in qual casa sarete entrato.

«— Prendere tal precauzione nel mezzo della via ed in presenza di tanta gente,» risposi, «sarebbe incutere sospetti ai passaggeri. Perchè, si direbbe, quella vecchia benda gli occhi a quel giovinotto? non sembra che li abbia malati. Aspettate un momento, e quando troveremo qualche viuzza, vi entreremo, e faremo in guisa di non essere veduti da alcuno. — Va bene,» disse la vecchia. Dopo alcuni passi, essa trovò un sito opportuno, mi bendò gli occhi con un fazzoletto, e mi condusse poi, tenendomi per mano, finchè giungemmo alla casa. Ella bussò due colpi col martello; la porta si aperse.

«La vecchia mi fe’ entrare, e tolsemi il fazzoletto. Io vidi allora due giovani schiave di beltà straordinaria. Esse mi fecero passare per sette porte, varcato le quali fui ricevuto da quattro altre schiave, tutte più belle l’una dell’altra. Venni quindi introdotto in una sala magnifica, che sembrava una di quelle che racchiudono i tesori di Salomone. — Tutto ciò ch’io vedo,» pensava tra me, «e forse sogno ed illusione?» Ma doveva vedere in breve cose ancor più sorprendenti. [p. 172 modifica]«La vecchia, la quale aveami sempre seguito, mi abbandonò allora un momento; e tornò poco dopo con una schiava, la cui acconciatura era di stoffa d’oro; e portava un vassoio carico d’una colazione delicata e squisita; dopo ch’ebbi mangiato, mi presentarono liquori e caffè. La vecchia portò poi un sacco di denaro, ch’ella contò in mia presenza, e disse:

«— Ricevete il vostro dovuto, e non abbiate più alcuna inquietudine su tale articolo. Non vi adirate se la mia padrona non osa comparirvi davanti prima della stipulazione del contratto: il pudore è una virtù comandata dalla nostra religione. Fra poco, se Dio lo vuole, noi stipuleremo il contratto, ed ella sarà vostra sposa. La decenza esige che le cose accadano così, e le donne, per mettere al mondo figli legittimi, devono scrupolosamente osservare queste regole. —

«Poco dopo, vidi entrare un cadì, accompagnato da dieci persone del suo seguito. Io m’alzai per rispetto. Egli salutò la compagnia e si accomodò; gli resi il saluto con tutta civiltà. — Signor Gelaleddin,» gli disse la vecchia, «volete voi servirci di procuratore per conchiudere un matrimonio? — Volontieri,» rispos’egli; scrisse il nome dei testimonii, e stese l’atto di procura. La vecchia essendosi avvicinata, il cadì mise le mani l’una nell’altra, fece la cerimonia degli accordi, e scrisse poscia il contratto di matrimonio. Dopo fu portata una tavola imbandita d’una buona refezione, composta di conserve delle Indie e confetture di Persia. Il cadì e le persone che l’accompagnavano, mangiarono con appetito e si divertirono molto. Si presentò al primo un bell’abito del valore di duecento piastre; egli lo ricevette con molti ringraziamenti, poi s’accommiatò.

«Io mi alzava pure per partire. — Ove andate?» disse la vecchia; «non sapete, giovinotto, che voi siete ammogliato, che dopo il contratto vengono le nozze, e [p. 173 modifica] che le vostre si celebreremo oggi stesso? Tutto è già disposto a tal uopo, aspettate solamente fino a sera. —

«Verso sera fu servito un magnifico pasto. Mangiai con appetito, e gustai di varie vivande che mi parvero eccellenti. Sorbii poscia i liquori ed il caffè, e la vecchia venne allora cercarmi per condurmi al bagno.

«La sala era illuminata da lampade e faci odorifere. Io fui ricevuto da otto schiave di straordinaria beltà. Mi spogliarono, si svestirono anch’esse, ed entrate con me nel bagno, alcune mi pulivano i piedi, altre me li lavavano; questa mi presentava una veste e pannolini, quella mi dava da bere. Io chiedeva tra me se ciò fosse un sogno; mi strofinava gli occhi, li apriva, e vedeva sempre la medesima cosa, o nuove maraviglie. Altre schiave mi portarono in seguito cassettine piene di squisiti profumi.

«Uscendo dal bagno; vidi venti schiave che portavano fiaccole odorifere, e due sedute che tenevano ciascuna un salterio in mano; l’aria era imbalsamata dell’odore dell’ambra e del legno d’aloè. Tutte le donne si avanzarono verso di me, e mi posero fra le due suonatrici. Io vidi allora entrare altre schiave con diversi strumenti di musica; le quali eseguirono un concerto sì armonico, che la sala stessa parve trasalirne d’allegrezza. Finita la musica, la vecchia entrò gridando: — Benedetti siano tutti quelli che verranno a dire allo sposo: Alzatevi, venite! —

«A tali parole, le schiave, accostatesi, mi fecero passare dalla sala del bagno nella corte. Una porta si schiuse; venti schiave ne uscirono a due a due, e vidi poscia avanzarsi la mia sposa, simile al sole rifulgente in mezzo ad un cielo puro e sereno, od alla luna nel momento che si leva sull’orizzonte. — È mai posslbile,» dissi tra me, «essere colei la donna che [p. 174 modifica] m’è destinata?» Il carteggio s’avanzò. Mi fecero entrare in una magnifica sala, nel cui mezzo sorgeva un trono; vi fui fatto salire, e le schiave mi circondarono tenendo in mano le fiaccole. La mia sposa entrò, seguita dal corteggio, e venne a sedermi vicino. La vecchia ne fece allora portare una stupenda cena; in fine, fe’ vestire tutte le schiave, uscì anch’ella, e chiuse la porta.

«Volli allora conversare colla mia sposa e dirigerle la parola, ma essa mi prevenne, dicendo: — Amico mio.....» A tali parole, mi sentii preso da tenerezza, e non potei trattenermi dal dirle: — Mia cara amica, come siete bella. — Amico,» continuò ella con un legger sorriso, «il dono del mio cuore dipende da un’ altra condizione: se mi promettete di adempirla, sarò vostra; altrimenti riterrete tutto ciò che avvenne finora come non fosse accaduto.

«— Qual è codesta condizione?» le chiesi. «Non avvene, a mio credere, alcuna alla quale io non mi sottoponga per aver la felicità di possedervi. — La nostra porta,» ripres’ella, «non sarà aperta che un sol giorno all’anno. Accettate voi tale condizione? — L’accetto,» risposi. — Io ho,» continuò la giovane, «molte schiave; ma tutte le volte che volgerete loro una sola parola assolutamente non necessaria, mi vedrete sdegnata con voi. — Accetto volontieri tutte queste condizioni,» soggiunsi. Ella acconsentì allora a riguardarmi come suo sposo, e noi passammo insieme la notte.»

Scheherazade fu interrotta dall’arrivo del giorno, con sommo dispiacere del sultano e di sua sorella, cui quella storia dilettava assai. Ella ne ripigliò il filo all’indomani, continuandola nel corso delle notti consecutive secondo il solito. [p. 175 modifica]

NOTTE CDXXXVII


— «Io rimasi, per molti giorni, in una specie d’ebbrezza, tutto immerso nella mia felicità, non pensando che a bere, mangiare e divertirmi, dimenticando, vicino alla mia sposa, tutto il resto della terra. Dopo sette giorni, non potei trattenermi dal pensare a mia madre; desiderai vivamente di rivederla, e piansi, al pensiero di esserne separato per sempre. Mia moglie si accorse delle mie lagrime, e me ne chiese la cagione.

«— Io piango,» le risposi, «per vedermi separato da una madre che non ho abbandonata dalla più tenera infanzia, che mi faceva dormire vicino a lei, e non gustava riposo se non quando era addormentato contro il suo materno seno. Sono ormai sette giorni ch’ella non mi vede; non so come avrà potuto sopportare tale assenza.

«— Non siamo convenuti,» soggiunse la mia sposa, «che la nostra porta si aprirebbe una sol volta all’anno? — È vero, ma ora sento com’è duro il trovarsi separato dalla madre: vorrei soltanto vederla, e passare un giorno presso di lei. Come mai un giorno solo, consacrato alla tenerezza materna, potrebbe alterare la nostra felicità? —

«La mia sposa mi disse: — Acconsento volentieri a soddisfarvi; andate a trovar vostra madre; ma che la vecchia vi accompagni e vi bendi gli occhi. — Sia pure,» ripigliai; «io mi farò sempre un dovere di accondiscendere alle vostre minime brame. — In tal caso,» aggiuns’ella, «voi potrete restare sette [p. 176 modifica] giorni in seno alla vostra famiglia, onde così avere tutto il tempo di gustar il piacere d’essere assieme; scorso tal termine, io vi manderò la vecchia, onde vi riconduca qui bendandovi gli occhi...» La ringraziai, ed essa diè subito gli ordini alla vecchia per l’indomani: ecco, signore, ciò che mi accadde. Ascoltate ora che cosa avvenne nella casa di mio padre.

«Questi essendo rientrato verso sera, e non vedendemi, disse a mia madre: — Ov’è nostro figlio? — Egli non è ancora tornato,» rispose la donna, «ed intanto la notte s’inoltra. Lo manderemo a cercare da uno schiavo.» Ella mandò subito lo schiavo, che trovò chiusa la bottega. Mi fecero cercare presso i parenti, i vicini, e dalle nostre conoscenze; tutta la notte trascorse in vane ricerche.

«La domane mattina, si spedì gente nei giardini, nei luoghi pubblici ed in tutti i quartieri della città; non vi fu un luogo dimenticato. Tutto come potete pensare, tornò inutile, e non si potè scoprire alcuna traccia, nè saper notizia alcuna di me. Dopo tre giorni, mia madre, non avendo più speranza di rivedermi, cominciò a piangermi come morto; radunò gli schiavi, e fece venire i vicini e tutti i miei parenti, che mi piansero con lei.

«Frattanto la vecchia, incaricata, di condurmi, mi tolse il fazzoletto dagli occhi in un sito e se ne andò. Giunto presso alla casa; vidi una turba di donne che venivano a piangere con mia madre, le quali, vedendomi, mi dissero: — Non siete voi Alì Tohelebi, figlio del sindaco dei mercanti?» Io lo affermai, e quelle mi fecero consapevole che i miei parenti da sette giorni piangevano la mia morte, e che andavano a piangermi con essi. Soggiunsero quindi tra loro: — Corriamo presto ad annunziare la buona nuova.» Tosto le donne, che giunsero per le prime, si misero a gridare: — Perchè piangete il vostro Alì? [p. 177 modifica] eccolo che viene.» A tali parole, mia madre uscì dicendo: — Ov’è mio figlio?» Io arrivava in quel momento. Quand’essa mi vide, si lasciò cadere svenuta su di me, e tutte le donne si misero a gridare; mio padre uscì subito, mi strinse fra le sue braccia, trasportato di gioia, e dimandommi ov’era stato da sette giorni. Io gli dissi d’essermi ammogliato e rimasto presso la mia sposa. Mio padre, attonito, mi chiese chi questa fosse. Io risposi ch’ella era d’impareggiabil beltà, ma che ignorava a chi appartenesse. Uno degli astanti disse allora a mio padre: — È inutile interrogarlo: non vedete che abito indossa? Mai alcuno ne portò di simili; non può essere che opera dei geni che l’hanno rapito, ed abbigliato di tal guisa; ma egli non sa ove l’abbiano condotto.» Tutti furono colpiti da quella riflessione: tacquero e non mi fecero più alcuna dimanda.

«Io rimasi due giorni co’ miei genitori: il terzo dissi a mio padre che desiderava andare alla bottega. Egli acconsentì, e venne meco. Quando fui seduto, m’accorsi che tutti i passanti si fermavano a guardarmi, dicendo: — Ecco il giovane che i geni hanno rapito.» Non cessarono di venire a guardarmi così per tutto il giorno; la domane ed i dì seguenti fu sempre lo stesso. Dopo i sette giorni, vidi giungere la vecchia; chiusi la bottega e la seguii. Ella mi bendò gli occhi come la prima volta, e mi prese per mano. Allorchè entrai nella casa, la mia sposa alzossi, mi venne incontro, e si mostrò molto lieta di rivedermi. Io le raccontai ciò ch’era accaduto durante la mia assenza; ella parve commossa dell’afflizione de’ miei genitori, e della gioia da essi dimostrata rivedendomi; ma non potè astenersi dal ridere sul preteso rapimento fatto dai geni.

«Scorsi dieci giorni presso la mia sposa, io le chiesi di nuovo il permesso d’andar a trovare i [p. 178 modifica] miei parenti; essa me lo accordo; la vecchia mi condusse come di solito, e se ne partì. Mia madre era sola in casa allorchè io entrai; ella mi saltò al collo, quando mi vide, e mandò a cercare mio padre, il quale attestommi pari tenerezza. Noi passammo tutto il giorno insieme.

«All’indomani, andai, come la prima volta, al mio magazzino, e continuai pure ad andarvi i dì susseguenti. Il settimo, ch’era quello in cui la vecchia dovea venire, a prendermi, vidi passare davanti alla bottega un pubblico banditore, con una cassettina d’oro, che volevasi alienare per mille zecchini. Io gli chiesi di chi fosse quella cassettina; colui rispose che apparteneva ad una donna; dissi di chiamarla, desiderando comprarla da lei medesima.

«Il banditore mi lasciò un momento, e tornò accompagnato da una donna di mezza eta. — Io vorrei,» le dissi, «comprare questa cassetta.» Subito ella trasse di tasca dieci zecchini, li diede al banditore e gl’ingiunse di andarsene. — Come,» le dissi, «voi pagate il banditore prima che il contratto sia fatto! Avete dunque voglia di vendermela ad ogni costo? — Certo,» ella rispose, «io non riprenderò la mia cassetta, ed ella non sarà mai d’altri che vostra. — Sedete,» soggiunsi; «ora vi conterò i mille zecchini. — Io son già pagata fin troppo,» ribattè ella tosto. — Come,» risposi, «che discorso è questo?

«— È molto tempo,» essa riprese con vivacità, «ch’io sono violentemente invaghita di voi; il mio amore è sì grande che non posso dormire; notte e giorno penso a voi, e nulla può distrarmi. Lasciatemi soltanto farvi un bacio, e me ne andrò subito. — Come! » ripigliai; «senza ricevere il prezzo della cassetta. — Ancora una volta,» rispose colei, «io sono pagata, e di sopravanzo. — Bisogna ch’io sia molto amato da [p. 179 modifica] questa donna,» pensai, «perch’ella mi faccia dono di mille zecchini, soltanto per ottenere un semplice bacio.» Poscia, volgendole la parola; continuai:

«— Madama, io non posso ricusarvi una cosa sì lieve, ed alla quale sembra attacchiate tanta importanza. Io desidero che questo bacio possa calmare il vostro cuore, e farvi ricuperare il sonno.» La donna allora mi si avvicinò, ma invece di baciarmi, mi morse con tutta la forza, mi strappò un pezzetto di carne della guancia e fuggì. Il dolore mi fe’ gridare; lacerai un fazzoletto, e mi fasciai la ferita.

«In quel momento giunse la vecchia, e rimase sorpresa dello stato in cui mi vedeva. Io le dissi che, aprendo la mattina la bottega, una caviglia di ferro m’era sfuggita di mano, e che fortunatamente non mi avea offeso l’occhio, m'a graffiata invece la guancia. — Perchè,» mi diss’ella, «non fate aprire la bottega dal vostro schiavo?» L’assicurai che non era nulla, che Dio mi aveva salvato dal maggior pericolo, ed essere pronto a seguirla.

«Quando le schiave mi videro entrare, parvero molto afflitte, e cominciarono a dolersi per la mia ferita. La mia sposa me ne chiese la cagione, ed io le ripetei quanto detto avea alla vecchia, soggiungendo quella graffiatura non meritare che se ne menasse tanto chiasso. — Ma che cosa portate sotto al braccio?» mi chies’ella. — È una cassettina da me comprata oggi: guardatela. — Quanto costa? — Perchè me lo domandate? mi costa mille zecchini. — Evvia, volete burlarmi. — In verità, mi costa mille zecchini; perchè dovrei mentire?

«— Di’ piuttosto,» continuò la mia sposa, volgendomi sguardi furibondi, «che tu hai data la guancia a baciare in cambio di questa cassetta. Oh il più spregevole degli uomini! dare la tua guancia da baciare ad una donna per una cassetta! Ingrato! la [p. 180 modifica] tua perfidia non andrà impunita.» Ciò detto, chiamò Morgan (era il nome del suo primo eunuco), e gli ordinò di tagliarmi la testa.»


NOTTE CDXXXVIII


— «Già Morgan s’impossessava di me, quando la vecchia venne a gettarsi ai piedi della sua padrona. — Ahi madama,» le disse, «rivocate la sentenza che pronunciaste; voi non tarderete a pentirvi di avere spinto sì lungi la vendetta, ed il vostro pentimento sarà inutile. Contentatevi di castigare questo giovine; sarà meglio che farlo perire. —

«La mia sposa, cangiando allora pensiero, ordinò alle schiave di stendermi al suolo e bastonarmi. Fu subito obbedita, e mentre mi battevano, essa ripeteva: — Infame, tu dai la tua guancia a baciare ad una sconosciuta!» Oppure recitava, con maligna soddisfazione, alcuni versi il cui senso era: «Che bisogna abbandonare alla rivale il cuore ch’essa ci disputa, e vivere sola, o morir d’amore, piuttosto che avere un amante, il quale divida la sua tenerezza con un altro oggetto.»

«Fui percosso per tanto tempo e con tal forza, che smarrii quasi intieramente i sensi. Poi mi portarono via e mi gettarono sulla strada. I primi che passarono mi credettero ubbriaco. — Non è una vergogna,» disse taluno, spingendomi col piede, «di ubbriacarsi al punto di cadere per la via? — Che dite mai?» disse un altro, considerandomi con maggior attenzione; «costui [p. 181 modifica] non è briaco, ma fu bastonato; guardate come i suoi piedi sono gonfi, e come il segno della corda è impresso nella carne. —

«Infine, qualcuno mi riconobbe,» corse ad avvertire mio padre, il quale venne subito. Egli fu impietosito al vedermi in quel compassionevole stato, mi sollevò e credè che potessi camminare; ma mi sentiva tanto debole, che fu costretto di portarmi sulle spalle sino a casa. Mando tosto a chiamare medici e chirurghi, e mi prodigò tutti i soccorsi che il mio stato esigeva.

«Ci vollero quaranta giorni per ristabilirmi, al termine del qual tempo mio padre volle sapere la mia avventura, e domandommi chi fossero stati i barbari che mi avevano trattato sì crudelmeute. Io gli dissi di non interrogarmi su tal proposito, che se io gli palesava l’autore dell’orribile trattamento da me sofferto, egli non avrebbe potuto credermi. Mio padre insistè: gli ripetei varie volle la medesima cosa. Infine, siccome stimolavami sempre più, e si lagnava della mia poca fiducia, soggiunsi: — Io vi narrerò la mia storia in maniera allegorica; vediamo se la comprenderete.

«Una fanciulla vede un giovane, e se ne innamora: il giovane concepisce per lei passione eguale. Ella gli fa dimandare se vuole sposarla nella guisa più legittima ed autentica; il giovane acconsente, e si maritano secondo le forme richieste dalla legge. Lo sposo si assoggetta a tutte le esigenze della sposa, e non la contraddice mai. Non è provarle il proprio amore nel modo più evidente? E si può pensare che, questa sposa sarà tanto ingiusta da far percuotere il marito? Potreste neppur immaginarvelo?

— No,» rispose mio padre, «una cosa simile non si può comprendere, ed è assolutamente incredibile. — Ebbene,» ripresi, «ciò che mi [p. 182 modifica] accadde vi s’assomiglia perfettamente. — Ma,» soggiunse mio padre, «dimmi chiaro e tondo chi t’ha battuto in modo sì indegno? — Io,» gli risposi, «vi ho raccontato la mia storia, fingendo di narrarvi quella di un altro. Mi vergognava di dirvi sulle prime esser mia moglie che m’avea battuto in tal guisa. Mi capite ora? — Comincio a comprendere; ma fammi adesso conoscere chi è la donna. — Non ne so nulla. — In qual quartiere è la sua casa? — Non lo so. —

«Mio padre stupì assai della mia avventura, e vedendo che non poteva cavare altri schiarimenti, mi propose di recarmi con lui ai bagni. Noi vi andammo, poi mi recai al mercato, aprii la bottega e ripresi il commercio, per cercar di distrarmi. Ma quel genere di vita, quelle occupazioni non mi dilettavano più come una volta.

«L’afflizione, la noia alterarono insensibilmente il mio umore; tutto quello che faceva la gente di casa mi dispiaceva; io strapazzava uno, batteva l’altro, sgridava questa, maltrattava quella. Una schiava mi servì un giorno del riso; ne volli assaggiar subito, e mi scottai. Furibondo, presi il piatto per gettarglielo nel capo. Mia madre volle rattenermi il braccio, io la respinsi duramente. Mio padre, sdegnato, si alzò; lo minacciai di batterlo anch’esso. Egli allora non dubitò più che non fossi pazzo; mi fece legare dai servi o condurre davanti al giudice. Attestarono che io era impazzito, e fui condotto qui. Mi misero dapprincipio una catena al collo: all’indomani, mio padre me la fece levare, e mi mandò il letto, la coperta, ed il Corano.

«Ecco tutta la mia storia. Si dice che il nostro sovrano è giusto; perchè il suo visir Giafar il Barmecida non lo consiglia ad uscire dal suo palazzo, e percorrere la città, all’uopo di conoscere da sè le ingiustizie che vi si commettono, vendicare gli oppressi, [p. 183 modifica] e punire gli oppressori? Perchè non lo conducono in questo ospitale per visitare gl’infermi, vedere egli stesso il modo onde sono trattati, conoscere i detenuti, ed informarsi dei motivi della loro prigionia?

«Per me, privo d’ogni soccorso, chieggo a Dio di mandarmi questo buon principe, acciò gli possa narrare io medesimo la mia storia. Pregate voi pure per me, rispettabili dervis; forse Iddio ascolterà le vostre preghiere, ed ispirerà al principe il pensiero di venir a visitare questi luoghi. —

«Il giovane avendo così finita la propria storia, Aaron Alraschild esortollo alla pazienza, e l’assicurò che Dio avrebbegli in breve mostrato colui, nella giustizia del quale riponeva la sua speranza. Il califfo tornò in seguito al palazzo con Giafar e Mesrur. — Che pensi tu,» diss’egli al visir, «della storia che abbiamo intesa? — Quel giovane è pazzo,» rispose Giafar, «e le parole de’ pazzi non meritano attenzione. — Eppure i suoi discorsi,» riprese il califfo, «non sono d’un pazzo. Bisogna che tu esamini codest’affare, onde farmene un rapporto, e che noi vediamo se il suo racconto sia vero, o s’egli è realmente folle. —

«Giunti al palazzo, Giafar disse ad Aaron: — Ecco che cosa immaginai per sapere ciò che voi dovete pensare dell’avventura di quel giovane: fatevelo venire davanti, ditegli che vi fu narrata la sua storia, la quale vi sembrò tanto singolare, che vorreste intenderla dalla sua bocca dal principio alla fine. Paragonerete la storia già da lui raccontata con quella che vi narrerà, e se è la medesima, sarà prova che ha detta la verità; se, invece, le due storie si contraddicono, sarà segno certo ch’è veramente pazzo, ed allora lo farete ricondurre allo spedale. —

Piacque, il consiglio al califfo, mandò subito a recare il giovane all’ospitale, lo accolse con bontà, e gli fece raccontare la sua storia, la quale riescì [p. 184 modifica] assolutamente eguale a quella da lui già intesa. — Io era certo,» disse il principe a Giafar, «che tale storia non era quella d’un pazzo.» Il visir, costretto a riconoscere che quella narrazione aveva tutti i caratteri della verità, rispose: — Ora bisogna mandar a cercare il padre del giovane, comandargli di ritirare il figliuolo dall’ospitale, e lasciargli riprendere il suo commercio. Sceglierete poi quattro persone fidate, che staranno nella sua bottega; quando la vecchia verrà, come non ne dubito, se ne impadroniranno dietro il segno che loro ne farà il giovane, e ve la condurranno davanti; saprete così facilmente da lei chi sia la sua padrona. —

«Il califfo approvò il piano: il sindaco dei mercanti venne chiamato, e riceve l’ordine di ritirare il figliuolo dall’ospitale. Egli obbedì, e condusse il giovane appiè del califfo, che non penò a riconciliarli.

«All’indomani, Alì Tehelebi si recò al suo magazzino. Tutti i passeggeri si fermarono da principio per guardarlo, e ciascuno diceva: — Ecco il figlio del sindaco dei mercanti, ch’era pazzo!» Alì non rispondeva nulla a quei discorsi, e stava in bottega cogli incaricati d’arrestare la vecchia quando ricomparisse.»


NOTTE CDXXXIX


— Abbiamo raccontato ciò che accadde ad Alì Tehelebi dopo l’indegno trattamento sofferto dalla sposa; vediamo ora cosa fece questa. Appena ebbe [p. 185 modifica] soddisfatta la propria rabbia, la sua collera si acquetò, si pentì di ciò che avea fatto, e disse alla vecchia, dopo alcuni giorni, di cercar di riconciliarla col marito.

«— Voi vedete,» disse allora la vecchia, «che io aveva ragione di consigliarvi di non farlo perire, ma di fargli dare soltanto qualche percossa, e tenerlo qui. Se aveste seguiti esattamente i miei consigli, si potrebbe riconciliarvi; ma voi avete spinto il castigo tropp’oltre, e lo faceste gettare sulla strada. Qual mezzo trovar ora di ravvicinarvi? Fors’egli non è ancor guarito, e quand’anche lo fosse, come oserei presentarmegli? Non è uomo volgare, ma il figlio del primo negoziante della città; egli non ha invero commesso alcun delitto, chè infine foste voi a tendergli quel laccio, e siete la causa della sua colpa: voi gli mandaste la donna che fingeva di vendere una cassettina. Avete voluto vedere se l’accetterebbe per un bacio, e raccomandaste alla donna, nel caso che egli si lasciasse baciare, di darvene una prova evidente. Ella finse d’essere violentemente invaghita di lui, gli fece un quadro toccante dei mali che l’amore le faceva patire: un bacio, un sol, bacio poteva guarirla. Alì non poteva sospettare l’astuzia, la perfidia: egli non trovava alcun male a lasciarselo fare, e non credeva che quell’azione potesse dispiacervi. Cedendo alla pietà, e non all’amore, egli si è lasciato baciare, e la donna, per prova certa di averlo fatto, gli addentò un pezzo di guancia. Foste adunque voi la sola colpevole; eppure volevate farlo decapitare, e lo faceste quasi soccombere sotto le battiture delle vostre schiave. Io non posso, dopo ciò, presentarmi a lui, e bisogna cercare qualche altro mezzo.

«— Come, mia buona vecchia,» disse la giovane, «tu che vedesti nella tua vita tante avventure simili, ed ancor più straordinarie, non puoi rendermi alcun servigio? Non potresti colla tua sagacia e co’ tuoi [p. 186 modifica] discorsi calmare l’animo esacerbato del mio sposo? Orsù, coraggio: imperocchè non posso ormai vivere felice senza di lui: bisogna assolutamente che tu ci riconcilii, e lo riconduca qui. Io li regalerò, se vi riescì, un bell’abito. —

«La vecchia ricusò a lungo d’incaricarsi di quella commissione; infine uscì per raccogliere notizie.

«Le fu detto in prima che Alì Tehelebi era ammalato, poi ch’era impazzito e rinchiuso allo spedale; infine seppe ch’egli avea ripreso il suo commercio e riaperta la bottega.

«La giovane, informata di tale notizia, stimolò di nuovo la vecchia, e con tanta istanza, ch’ella acconsentì a fare qualche tentativo. In codesto pensiero, uscì e fermossi davanti la bottega del giovane. Egli la riconobbe, e le andò incontro. — Figliuol mio,» gli diss’ella, «se mi debbo rimproverare d’essermi immischiata nel vostro matrimonio, ho fatto almeno il possibile onde impedire alla mia padrona di togliervi la vita. Del resto, ella è pentita di quello ch’è accaduto, e vorrebbe... — Io non ho alcun rancore con lei,» disse Alì, interrompendola. Nel medesimo tempo fe’ segno agli uomini che gli stavano presso, i quali scagliaronsi sulla vecchia, e la condussero al palazzo del califfo. Il visir Giafar, vedendoli entrare, domandò che cosa fosse. Quand’egli seppe che conducevano la vecchia implicata nell’affare di Alì Tehelebi, ordinò che gliela presentassero.

«Quando la vecchia fu al suo cospetto, egli la riconobbe, e disse: — Come! siete al servizio di mia figlia, e v’immischiate in simili intrighi! Chi è la donna sposata da questo giovane?

«— E vostra figlia,» rispose la vecchia. Giafar rimase attonito, ma vedendo che bisognava assolutamente approfondir quell’affare, per renderne conto al califfo, domandò un’altra volta alla vecchia: [p. 187 modifica]— Chi è la donna sposata da questo giovane? — È vostra figlia,» tornò a rispondere colei.

«Giafar allora, avendo ordinato che si fermassero, andò da Aaron Alraschild, e gli disse: — Alì Tehelebi e la vecchia sono di là; ma mi sembra che la fanciulla abbia fatta una cosa giusta: quel giovane era ammogliato: la sua sposa, non volendo separarsi da lui, lo teneva presso di sè, ed egli si è lasciata baciare la guancia da un’altra donna, cosa che doveva necessariamente dispiacere ad una persona gelosa, e meritava d’essere punito, imperocchè le donne hanno diritto sui loro mariti.

«— Chi è infine questa donna?» chiese il califfo. — Ah! sire,» rispose Giafar, «è mia figlia! Essa l’ha fatto, a mia insaputa.

«— Ma,» ripigliò Aaron, «poichè il cadì Gelaleddin ha stipulato il contratto, il matrimonio è valevole: Alì è suo sposo, e dipende da lui il punirla di morte, o perdonarle. —

«Il califfo fe’ tosto venire Alì Tehelebi, e gli chiese che cosa intendesse fare. — Principe,» rispose il giovane, «io mi stimerei felicissimo, se il visir volesse riconoscermi per suo genero.

«— Or via,» disse il califfo a Giafar, «conduci tuo genero con te, e che non gli si bendino più gli occhi; tal precauzione è ora affatto inutile. —

«Il visir tornò dunque a casa col genero e la vecchia. Sua figlia, vedendoli entrare, volle alzarsi per andar loro incontro, ma le forze le mancarono, e ricadde sul sofà. — Che cosa mai faceste?» le disse il padre. «Voi vi siete resa colpevole all’ultimo eccesso. L’Onnipotente l’ha voluto: io mi sottopongo ai suoi decreti; ma se fossi stato istruito dei vostri progetti, avrei saputo mandarli a vuoto. —

«Giafar uscì, mandò a cercare Gelaleddin, e gli disse: — Chi v’ha dato l’ordine di stipulare il [p. 188 modifica] contratto di matrimonio di mia figlia? — Signore,» rispose quegli, «io lo stipulai dietro il presente biglietto, concepito in tali termini; uditelo:

««Salute al cadì Gelaleddin. Io vi scrivo per pregarvi onde vi pigliate l’incomodo di venire da me, a stendere il mio contratto di nozze con Alì Tehelebi, e servirmi di procuratore. Conducete con voi testimonii per sottoscrivere l’atto di procura. Se acconsentite alla mia inchiesta, io ve ne sarò grata; altrimenti sarete garante delle conseguenze del vostro rifiuto, e se accadesse qualche cosa, il biasimo ne ricadrà su voi.»»

«Questa minaccia,» continuò il cadì, letto ch’ebbe il biglietto, «mi fece impressione. Le donne possono lasciarsi trasportare ad estremità affliggenti; temendo per l’onore del primo visir, mi arresi dunque alle brame di vostra figlia. Io ho veduto sborsare la dote, e ne feci menzione: infine scrissi l’atto attestante che la giovane mi dava la sua procura, e vergai un contratto di matrimonio legale ed autentico. Se voi foste stato presente, non avreste potuto astenervi di ordinarmi d’accettare la procura di vostra figlia, essendo ella in età da poter disporre della propria persona; e se essa non era fin allora maritata, fu che nessuno osava domandarvela in isposa. Ma Dio vi preservò da un’afflizione che sarebbe stata maggiore di quella cui ora provate. Non v’ha alcun errore in questo atto, nessuna mancanza che possa farlo annullare; checchè ne sia, le vostre buone grazie mi sono più care di tutto; voi potete perdonarmi, o togliermi la vita, s’io ebbi la disgrazia di spiacervi.

«— Io rendo giustizia alle vostre intenzioni,» disse Giafar; «voi avete fatto il tutto per la meglio.» Perdonò quindi alla figlia. Alì Tehelebi fu sempre sommesso e compiacente verso la sposa, e nulla alterò mai più in seguito la loro felicità.» [p. 189 modifica] Scheherazade finì di tal guisa la storia del giovane mercante di Bagdad e della dama incognita. Il sultano delle Indie avendole attestata la propria soddisfazione, essa gli promise per l’indomani un racconto non men dilettevole, e Schahriar, contento di tal promessa, si alzò per andar a presiedere il consiglio.


NOTTE CDXL


Dinarzade svegliò di buon’ora la sultana, sua sorella, la quale cominciò in tali sensi la storia seguente:



Note

  1. Parola persiana che significa ospitale; deriva dal vocabolo bimar, malato. L‘affisso istan indica il luogo, il paese, ecc.
  2. L’Irak-Arabi, di cui qui si tratta, è il nome della provincia nella quale giace la città di Bagdad.
  3. La pistra vale circa tre franchi.
  4. Costantinopoli.