V. L'amore d'uno scapigliato

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IV VI


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CAPITOLO QUINTO.



L’amore d’uno scapigliato.

Due sere dopo Emilio e Noemi s’erano riveduti in casa di Cristina.

La povera donna sebbene dubitasse che Emilio non si recasse, come erano soliti, dalla Firmiani, v’era andata più presto del consueto, mal soffrendo la solitudine della sua camera, dove da due giorni aveva tanto sofferto.

Le pareva che la compagnia di Cristina e l’atmosfera del gabinetto dov’ella avea conosciuto il suo amante, dove avea passate tante sere felici nella tacita adorazione dei suoi occhi, le pareva, dico, dovessero diminuirle l’angoscia e darle sollievo.

— Addio, mia cara; — disse Cristina vedendola entrare e andandole incontro col suo solito sorriso impostore — ti ringrazio d’essere venuta per tempo.

E le prendeva le mani con finta cortesia: poi, fissandola un po’ negli occhi, seguitò: [p. 84 modifica]

— Che cos’è che mi sembri di cattivo umore stassera? Si direbbe che hai pianto.

Noemi a quel brusco richiamo al suo dolore si sentì venir le lagrime grosse sul ciglio; ma sforzandosi di sorridere all’amica:

— Tu scherzi; — le diceva — perchè vuoi che abbia pianto?

E allora svincolando una mano da quella di sua cugina, e prendendo con noncuranza fra le dita il lembo del di lei colletto, ch’era un bel lavoro di ricamo, si mise a fargliene i più grandi elogi.

Vi sono poche donne che con una lode ben formulata a qualche parte del loro abbigliamento non si possano sviare da una idea, da un discorso incominciato.

Se non mi credete vi prego di farne la prova.

A mezzo d’un ragionamento di qualche vostra amica, sia pure di garbo e piena di spirito, uscite ad ammirarne il vestito, un braccialetto, una trina, e c’è da scommettere mille contro uno che ella sospenderà per lo meno il discorso per ascoltarvi e forse per rispondervi.

Perciò la contessa, staccati gli occhi da quelli di Noemi, stette a udir sorridendo le sue lodi e rispose:

— Ti pare?

— Ma certo che mi pare; — continuava Noemi — io non te l’ho mai veduto ed è una vera meraviglia di finezza e di buon gusto.

— Indovina chi me lo ha ricamato? — chiese Cristina. [p. 85 modifica]

Strana anomalia del cuore!

Se Noemi poco prima aveva provato un moto di gioia d’aver potuto sviar l’attenzione della cugina da’ suoi occhi pregni di lagrime, ora, alla nuova domanda, ella ne sentì tutto il vuoto, e avrebbe quasi voluto tornare sul primo discorso, e dovette fare uno sforzo per non rispondere un: “non m’importa nulla di saperlo„ che, se non le venne sul labbro, certo le si affacciò alla mente troppo compresa dal suo doloroso pensiero.

— Non saprei, cara; — rispose ella col tuono di voce leggermente indifferente di chi vorrebbe una risposta assai breve.

— È lavoro di mia nipote Giulia; me lo ha regalato pel mio onomastico; — riprese la Firmiani sedendosi con Noemi accanto al fuoco che ardeva sul caminetto.

— Il tuo onomastico! Quand’è stato? — chiese Noemi.

— Ieri, è stato; — rispose Cristina — Ah cattiva! Quest’anno ti passai senza un pensiero. Mi sono ben accorta non vedendoti venire da me. Ci sono state tutte a trovarmi le mie amiche; meno tu. Ma ti perdono, — soggiunse prendendole una mano con bontà — ti perdono perchè so che...

E s’interruppe fissando la cugina negli occhi.

— Perchè sai che...? — domandò Noemi invitando Cristina a continuare.

— Perchè so che tu ami; — aggiunse sottovoce la Firmiani. [p. 86 modifica]

Noemi si fece in viso come una bragia, e non rispose.

— Vedi che ho indovinato... Oh io ci vedo da lontano. È un pezzo che me n’ero accorta; ma non volevo parlartene finchè tu stessa non me ne davi un appiglio. Povera Noemi! Se sapessi come ti auguro che tu abbia ad esser felice...!

A questo nuovo assalto, tutto l’accoramento che covava nel cuore della cara donna irruppe ad un tratto, per quella causa misteriosa che ridesta in noi la passione allorquando udiamo altri richiamarcela con gentili parole. Noemi questa volta non fu abbastanza munita contro sè stessa per respingere il pianto che le si aggroppava negli occhi, e die’ in uno scoppio doloroso nascondendo il viso nel fazzoletto.

La Firmiani si levò, e senza dir parola si pose a baciarla teneramente, come se davvero l’avesse amata, come se avesse sentito compassione di quel dolore. E Noemi sotto quei baci si struggeva sempre più.

— Dimmi, Noemi, confida a me i tuoi fastidii... È dunque vero che tu ami quel caposcarico? Che cosa ti ha fatto? Raccontami la tua passione.

Noemi dopo il primo sfogo, vergognosa di essersi lasciata andare così, asciugavasi gli occhi in silenzio.

La Firmiani incalzava, e chi indifferente fosse stato a mirar quella scena, si sarebbe accorto indubbiamente che in quella sollecitudine c’era un intimo senso di invidioso piacere. [p. 87 modifica]

Alla fine Noemi rispose:

— Non mi ama più... mi ha fatto soffrir tanto...

— Oh Noemi! Si vede proprio che questo è il tuo primo amore! E sei così buona di accorarti per ciò? Mia cara, ridi, sta allegra, giacchè egli non ti ha mai tanto amata...

Noemi la ascoltava a bocca aperta.

— Perchè dici così? — chiese ella ingenuamente e con un leggero accento di speranza e di gioia nella voce.

— Perchè sì... perchè l’amore senza collere è la più insipida cosa di questo mondo; perchè s’egli ti ha detto delle cose dispiacenti è segno che è geloso, e, se è geloso, è segno che ti ama.

Era la prima volta che Noemi parlava di queste cose con Cristina. Questa sua logica, così volgare, così al dissotto dell’ideale che ella s’era formata del vero amore, la disgustava.

— No, no, Cristina; — disse Noemi tristamente — no, pur troppo, egli non è geloso; non può essere geloso. E di chi dovrebbe esserlo, mio Dio! se io non vedo persona al mondo altri che te? Anch’io temei sul principio che egli avesse un’ombra; che alcuno gli avesse parlato male di me;... ma mi dovetti disingannare;... oh è tutt’altro;... egli non mi ama più...

E Noemi abbassò il capo sul petto.

— Che cosa pretestò dunque? — chiese la Firmiani — dimmelo; via... tu sai bene ch’io non voglio tradirti... e se non lo dici a me a chi vorrai dirlo? [p. 88 modifica]

— No, non cercarmi di più... sarà forse stato un momento di cattivo umore... mi sarò forse ingannata io.

— Ebbene, ebbene? — richiedeva la Firmiani.

— Che vuoi, Cristina; non saprei come cominciare. Egli ebbe dei modi e delle parole così strane!... Era già da qualche tempo che io m’era accorta della sua freddezza... pur non gli feci carico sperando la fosse passeggera... ma ora...

— Capricci, mia cara! Se è tutto qui non vedo ragione per disperarsi. Gli uomini hanno tavolta certe ubbie che non sanno nemmanco essi come vengano loro in capo, e dietro cui fanno tutte le corbellerie amorose che non farebbero se si lasciassero guidare soltanto dal loro cuore. Una parola, un frizzo d’un amico basta perchè l’amante non ci guardi più in viso per una serata intera, mentre la sera prima non s’era fatto scrupolo di passarla al nostro fianco quanto fu lunga. Basta che qualcuno gli abbia detto che tu non eri messa con buon gusto...

— Oh no; egli non è così leggero.

— Ah tu non conosci gli uomini; — continuava Cristina colla sua logica... entrando a gonfie vele nel discorso prediletto — Poniamo dunque che alcuno gli avesse detto che tu non eri elegante... non è una ragione per mortificarti. In ogni caso egli è un uomo ben poco delicato.

— Oh no, Cristina; — sclamò Noemi — Mio Dio! sarebbe orribile s’io dovessi sospettare che Emilio mi dovesse amare soltanto per la mia acconciatura. [p. 89 modifica]

— Ora tu esageri, — continuò Cristina — Prima di tutto, gli uomini sono uomini e non angeli. Dal più al meno, genii e imbecilli, essi amano tanto più la donna quanto più ella soddisfa il loro amor proprio. Il cuore e una capanna son cose andate giù di moda. E se dobbiamo metterci una mano sul cuore, confessiamo che questa legge ci domina anche noi donne. Cosa vuol dire che se per caso udiamo lodare l’uomo che amiamo, per qualche giorno ci pare di amarlo cento volte di più, e l’idea che ci possa sfuggir di mano ci rende infelici, mentre forse poche ore prima non la ci faceva alcun effetto? Dunque anche l’uomo è giusto che pretenda nella donna la massima eleganza, e che sia offeso da tutto ciò che non è tale in lei. L’eleganza infine non è che una condizione del piacere, non così indispensabile, come molte altre, ma pure di gran peso. Se tu fossi stata sudicia, per esempio, non è forse vero che Emilio non t’avrebbe mai amata? Eppure saresti tu lo stesso. Dal sudicio al non elegante non c’è infine che un passo... Io le capisco benissimo queste cose, giacchè; — continuò abbassando la voce e ridendo a mezza bocca — vuoi che ti faccia un’orribile confidenza?

Noemi fe’ cenno di sì colla testa.

— Io non sarei capace di lasciarmi amare da un uomo che mi si presentasse senza guanti...

Noemi non potè tralasciar di sorridere.

— E tu? — chiese la Firmiani.

— Io, se amassi davvero, non me ne accorgerei; — rispose Noemi. [p. 90 modifica]

— Ah l’è un’altra questione codesta! — proruppe la cugina — Quando amassi davvero, neppure io non me ne accorgerei, oppure me ne accorgerei, e non cesserei certo di amarlo per questo. Ma invece, quando il mio cuore è indifferente ancora, quando per suscitarvi la fiamma vi abbisogna tutta la potenza d’un uomo, una piccola circostanza può bastare a lasciarlo freddo e insensibile davanti a qualunque passione, davanti a qualunque tattica. Sarò leggera, sarò ridicola... ma credo che su cento donne, se volessero consultarsi e dir la verità, forse novanta confesserebbero di essere del mio parere... Oh del resto tu sai che ogni regola ha le sue eccezioni. Tanto è vero che io stessa, io stessa, che da ragazza giurava che non avrei preso mai per marito un calvo, fra i cento mila milioni di uomini che vegetano in questa valle di lagrime... e di capelli... sono proprio andata a scegliere la più gran piazza del mondo.


A questo punto il campanello del portinaio avvisò il servo dell’anticamera, che una visita ascendeva le scale.

Noemi si sentì dar un tuffo nel sangue e sospese l’attenzione.

La Firmiani se ne accorse e disse:

— È forse lui! Vuoi che gli facciamo dire che io non sono in casa? — soggiunse maliziosamente.

— Oh no! — sclamò Noemi con impeto — ma per carità non lasciargli trapelare nulla della mia confidenza. [p. 91 modifica]

Cristina sorrise e si gettò indietro nella sedia.

Poco dopo s’intese aprir l’uscio e il servo annunciar nel gabinetto il signor Emilio Digliani.


Il giovine entrò colla sua solita disinvoltura, ilare in volto, e senza un’ombra di quell’emozione e di quel pentimento, che Noemi sperava di sorprendergli nello sguardo quando l’avesse veduta.

Ella abbassò gli occhi sulla fiamma del caminetto, e non li rialzò se non quando Emilio, dopo aver stretta la mano alla Firmiani, la richiese del saluto nell’egual modo.

Allora Noemi gli porse la destra con una occhiata lunga e mesta, che se non chiedeva pietà, spirava certo tenerezza ed amore.

Emilio — che la Provvidenza aveva creato buono, ma che subiva l’impero delle strane contraddizioni del suo misterioso carattere — non provava forse il bisogno di dimostrar il suo amore, se non quando la donna che amava, o che credeva di amare, gli si mostrava dura e indifferente.

Se Noemi lo avesse accolto ridendo, e con freddezza, egli non avrebbe creduto nè a quel riso, nè a quella freddezza, ma forse le avrebbe stretto la mano con maggior calore. Quello sguardo invece sommesso e appassionato, che appagava tutto il suo amor proprio, non gli fece provare che una gioia vivissima, e volendo goderne in più larga dose, fu sostenuto e freddo.

Così è; le son cose che tutti sanno. In fatto di [p. 92 modifica]amore chi fa il primo gradino per scendere verso l’altro, deve bene spesso fare il secondo ed il terzo, prima che l’altro si muova. Una volta mosso, gli sarà lecito rifar i gradini, che l’altro lo seguirà, e viceversa fino alla consumazione dei secoli. Chi fugge si fa correr dietro, e chi corre dietro invita l’altro a fuggire. Fermatevi, perbacco, di quando in quando a prender fiato, e vedrete l’altro, prima rivolgersi indietro, poi rallentare la corsa, poi fermarsi a guardar se venite...; e, se non venite, si moverà egli pel primo verso di voi.

Ma Noemi amava troppo per usare di queste arti e di questa tattica, ancorchè le avesse conosciute. Ell’era troppo sincera, ella aveva nell’anima troppa ingenuità, dirò quasi, troppa ignoranza, per non essere in faccia al suo amante quale si sentiva di essere. Nondimeno la cara donna si sapeva così innocente, così immeritevole del rigore di lui, che quella freddezza prolungata e senza causa la irritò più che non l’addolorasse.

Cristina che vedeva tutto, mostrando di non veder nulla, ne godeva.

Allora incominciò fra loro tre una conversazione senza scopo, bislacca, a tastoni, che sarebbe impossibile riprodurre... una conversazione ora arguta, ora sentimentale, condita di piccole ironie, di allusioni e di frasi a doppio taglio...

Emilio, se l’estro gli dava, era pieno di spirito. Cristina, come tutte le donne cattive, ne aveva di soverchio. Quanto a Noemi — sebbene ella fosse tut[p. 93 modifica]t’altro che insipida, come qualche sua amica invidiosa di sua bellezza, andava dicendo, — era troppo buona e troppo innamorata per averne assai. Anzi ricominciava a soffrire di trovarne tanto in Emilio. La cara donna sapeva che chi parla dell’amore con molto spirito non lo risente in cuore, giacchè l’amor vero, profondo, come lo avea sognato in lui, rende muto e malinconico un amante. Emilio invece ne parlava con una disinvoltura ed una grazia che poteva essere amabile per tutti, tranne che per lei.


Finalmente, poco dopo che erano battute le undici al pendolo del caminetto, il servo entrò annunciando a Noemi che la sua carrozza era alla porta.

Ella si levò da sedere, lanciando ad Emilio un ultimo sguardo di cordoglio. Oh come a quell’estremo punto si sarebbe gettata volontieri nelle sue braccia, se la nativa fierezza, e la presenza di Cristina, non glielo avessero vietato.

La Firmiani la andava accarezzando, e le diceva di venir presto, presto...

Emilio in piedi e pensieroso, pareva stesse covando in cuore il rimorso della sua crudele condotta.

Quando Noemi si ebbe cinto il boa intorno al collo, si accomiatarono.

Giunti a capo della scala, il giovane le offerse il braccio per discendere, ed ella si sentì consolare, sperando che ei volesse finalmente stringerle la mano e dirle una parola di conforto e di pace... [p. 94 modifica]

Ma Emilio nulla; giacchè anch’egli dal canto suo aspettava da lei un segno di amore; aspettava — per dirla in linguaggio da innamorati — ch’ella fosse la prima.

Quando furono sotto l’andito della porta, Emilio abbandonò il braccio di Noemi, e stette a vederla entrare in carrozza. Allora la cara donna non potè resistere oltre, e cedendo al suo cuore, al terrore di dover passare un’altra notte in collera con lui, quando fu seduta, si attaccò all’ultimo, sebbene imprudente, mezzo che le restava, e disse:

— Se la vuol entrare la accompagnerò a casa.

E, certa che Emilio non avrebbe rifiutato, si tirò nel canto con un mesto sorriso.

Emilio ebbe in quel punto un’infernale ispirazione dell’amor proprio, anzi dell’orgoglio.

— No, grazie, madama — rispose egli con voce fredda — non posso; bisogna che vada al caffè.

E auguratale la buona notte, chiuse lo sportello, e disse al cocchiere:

— Avanti.

Noemi, a quel rifiuto ingeneroso, sentì come una mano che le strinse il cuore... e nel primo moto di angoscia, non potè trattenersi, dal picchiar colla mano nel cristallo alzato dello sportello, come una donna che cerca soccorso.

Fu un moto istantaneo ma sublime di dolore, di passione, di rassegnazione.

Il cocchiere sferzò i cavalli e partì. Ella sperò un momento ancora che Emilio pentito lo facesse fermar [p. 95 modifica]di nuovo per salire; ma quando vide che ei non volgeva neppur il capo, si gettò nel canto della carrozza e diede in un dirottissimo pianto.


Ora a chi domandasse quanta parte avesse la gioia dell’aver rifiutato, e quanto il pentimento e il rimorso nel cuore di Emilio, risponderei subito a onor del vero, che la gioia non fu che un lampo, e il rimorso lungo e cocente.

Quel gesto, che il superbo e crudele rifiuto aveva strappato a Noemi, e, con esso, il pensiero delle amarissime lagrime che la povera donna stava forse versando in carrozza... si affacciarono tosto alla mente, e più che alla mente, al cuore di Emilio, e parlarono forte il loro severo e pietoso linguaggio.

Vi fu un momento anzi che il rimorso di quell’amoroso misfatto lo vinse in tal modo, che, quasi per un moto irriflessivo, si diede a correre, sperando di poter raggiungere la carrozza. Ma dati soli tre passi s’avvide che ancorchè l’avesse raggiunta, or non avrebbe potuto più rimediare a nulla.

Allora, piena l’anima di un’amarezza, di un odio di sè stesso e di tutti, fissando in cuore di scrivere il domani a Noemi, prese la strada che conduceva al caffè S. Carlo.

Perchè al caffè S. Carlo e non al Martini, dove era solito recarsi ogni sera, verso la mezzanotte?

Eppure egli non ci aveva nulla a fare al caffè S. Carlo!

Oh il cuore è pure il gran tiranno! e la volontà, [p. 96 modifica]sua umile schiava, si piega al più piccolo suggerimento, al più lieve capriccio di esso, mentre s’impenna e resiste, e contraddice alle voci minacciose e pur potenti della ragione, della giustizia, e perfino della necessità.

Chissà quante magnanime azioni, chissà quanti delitti destati da un moto leggerissimo di questo muscolo cavo, che è il più grande amico, e il più grande nemico dell’uomo!

Ed ecco perchè Emilio s’avviò al caffè S. Carlo, e non al Martini.

Quando Noemi lo aveva invitato in carrozza, egli aveva risposto: No, bisogna ch’io vada al caffè.

Noemi sapeva che il caffè dove ei soleva andare a mezzanotte era il Martini. Ora, siccome il Martini era precisamente sulla strada che la carrozza doveva percorrere per andar a casa, il pretesto del suo rifiuto non reggeva.

Quando fu solo, col rimorso che gli sorgeva nell’anima, questo ragionamento produsse il suo effetto logico; e quasi per iscusar sè stesso, o per trovar poi una scusa da rispondere a Noemi, quando le avesse rinfacciato quel rifiuto crudele, invece di tenere la stessa strada della carrozza prese per la sinistra verso il caffè S. Carlo.

Quella scusa era frivola, era puerile; chi non lo vede? Ma quanto più frivola e puerile, tanto più è preziosa per noi; giacchè mostra a quali miserabili appigli si attacca talvolta l’amor proprio per illuder sè stesso, per darsi ragione, per fingere almeno di non aver avuto torto. [p. 97 modifica]

— Stolto! — gli gridava da un lato la voce del criterio — Se tu avessi avuto bisogno di andare al caffè S. Carlo, la carrozza di Noemi vi ti avrebbe condotto ugualmente!

— Ma; — replicava quella dell’amor proprio — Noemi avrebbe dovuto allungar la sua strada, il che sarebbe stato un incomodo ch’io non voleva darle.

— Ipocrita! — tornava a gridar la ragione — Incomodo per chi? pel cocchiere? pei cavalli forse? Tu avevi pur veduto che Noemi bruciava di far pace con te, e che lo stesso invito era già una caparra di perdono e quasi di pentimento.

Ripeto — forse a qualche lettore, tutto ciò parrà ben frivolo e puerile.

Mi duole assai di non essere del suo parere. Nulla v’ha di frivolo nello studio dei moti del cuore. Se la povera Noemi — per esempio — avesse raccontato a suo marito — l’uomo grave — per quali ragioni ella si fosse innamorata di Emilio, l’uomo grave le avrebbe trovate assai frivole quelle ragioni; se ella avesse detto: una sera... trascurata, incompresa da te, venne un giovane, il quale, col più gran rispetto del mondo, mi seppe dire di qual colore fossero i nastri d’un mio cappello, e dello stivaletto, che calzava il mio piede tre anni prima... ed io, senza avvedermi, sentii accendermi a poco poco per lui di una fatale passione... — l’uomo grave — che non soleva dar importanza che ai prezzi di Borsa e alla quistione d’Oriente, avrebbe crollate le spalle con noncuranza... [p. 98 modifica]

Lo sventurato non sapeva quale tremenda sciagura gli stavano preparando le frivole ragioni!


Emilio entrò dunque in caffè S. Carlo, e il suo viso era così tetro e stravolto dall’interna lotta, che il fattorino gli chiese se si sentisse male.

In quel punto l’amarezza dell’anima sua era giunta all’estremo, e il rimorso al punto di maggiore incandescenza.

Emilio, seguendo la sua natura violenta, cominciava a sentir nelle mani il bisogno di una lotta fisica, che nell’emozione del combattimento gli facesse sfogare il suo corruccio...

La sua natura potente, ma un po’ materialista, come quella di noi tutti figli del nostro secolo, non sapeva concentrarsi in sè stessa per istudiare le fasi di un dolore che ha sempre la sua voluttà per chi vuol trarne ammaestramento per l’avvenire. Sentiva invece un gran bisogno di espandere fisicamente la sua bile... e cercava una vittima.

E la vittima non si fece lungamente aspettare.

Entrato a caso nella sala posteriore del caffè, vide un suo amico — un altro dei sette — che stava altercando con due ignobili ceffi, di quei passeggiatori di notte, la cui vita giornaliera comincia coll’accendersi del gas e termina coll’apparir del sole...; specie di nottole umane, campioni della vita scioperata e viziosa, che sarebbero stati usurai se avessero avuto denaro da dar a un povero figlio di famiglia, barattieri sempre, quando potevan tro[p. 99 modifica]vare il piccione da spennare, ladri fors’anche, e spie, se avessero avuto il coraggio di rubare, o se la polizia avesse saputo fiutarli.

Questa genìa, che a Milano era un po’ più numerosa di quella che potesse credere una gentildonna che vedesse la città dal suo gabinetto, dal palchetto della Scala, dai salons di conversazione, e dalla trottata sugli spalti — eterno quadrivio in cui s’aggirava la vita di una donna elegante milanese — questa genìa sozza ed infame, rifiuto di scapigliatura, pullulava nelle bische frequenti che in quell’anno parevano autorizzate nei pubblici caffè, dove il macao e il fioccone attiravano molti giovani avidi di emozioni e di stordimento... i quali, dacchè nel 48 avevano veduto aprirsi il cielo, non potevano rassegnarsi a rivivere tranquillamente nel vuoto e nella noia della schiavitù lombarda.

Emilio si fermò ad ascoltare il diverbio fra que’ due uccelli di rapina e il suo amico Alfredo Gastoni, e vide che con un far minaccioso gli si stringevano alla vita.

In caffè non c’era più altr’anima viva, che qualche fattorino addormentato sul sedile lungo il muro. Gli avventori erano stati chiamati nella sala superiore dalla fama di un famoso banco di macao, di cui non s’aveva avuto memoria da un pezzo.

Il giovine con cui l’avevano que’ due mascalzoni, premendogli di andar a giuocare, nè volendo star a litigio in un caffè, trasse, come si usa, il portafogli, e disse: [p. 100 modifica]

— Or non ho tempo di ascoltare le loro signorie; però questo è il mio biglietto di visita.

— Che biglietto! Non so che farne del suo biglietto! — disse con voce rauca uno di quei due, dando una manata sotto la destra di Gastoni, e facendo saltar in aria il portafogli.

Gastoni si curvò per rilevarlo... Ma prima che il portafogli toccasse terra, Emilio s’era slanciato contro il mascalzone, e gli aveva lasciato andare in viso un potentissimo pugno.

Ne seguì un piccolo parapiglia. I fattorini del caffè s’interposero, e fecero uscir i due ribaldi che s’allontanarono minacciando vendetta.

Gastoni, dal canto suo, ridendo a piena gola di quel pugno così ben dato, prese a braccio Emilio e lo trascinò verso la scala che mette alla sala da giuoco.

— Hai molti denari da perdere? — gli chiese Emilio, montando due a due i gradini dell’angusta scaletta.

— Ho gli ultimi dodici marenghi delle duecentocinquantamila lire che mi lasciò mio padre morendo — rispose Gastoni.

— E poi?

— E poi, o in un reggimento di cavalleria piemontese, o una buona palla di pistola nel cuore.

E per quella notte Emilio dimenticò Noemi.


Il giorno dopo la povera Noemi era stata messa a più terribile prova.

Aveva rifiutato di accompagnare il nonno alla [p. 101 modifica]trottata prima di pranzo, e se ne stava nel suo gabinetto mestamente seduta ad una finestra, che guardava sulla corte, quando vide entrar in casa suo marito, accompagnato dal suo agente di cambio, al quale ei parlava più vivamente del solito.

Noemi dal giorno della colpa non poteva vedere suo marito senza provare nell’animo un senso di torbida paura.

Che non fu dunque, allorchè, — intesolo entrare nella stanza vicina, mentre l’attraversava per entrar nel suo studio — lo udì pronunciar distintamente il nome di Emilio Digliani?

La sventurata donna sentì arrestarsi il sangue nelle arterie, e un freddo mortale invaderle il corpo. Portò le mani alle tempia, come se vi provasse un gran dolore e sclamò fra sè:

— Sa tutto! Sono perduta!

Questa idea le si affacciò in tutta la sua terribile gravezza... e sentì paura.

Il Dal Poggio si fermò nel suo studio, che era attiguo al gabinetto in cui si trovava Noemi.

Ella si levò barcollando; sulla punta dei piedi s’accostò all’uscio, e trattenendo l’alito, stette ad origliare.

— Il fatto è che ci vuole una bella audacia a quest’ora; — diceva l’agente di cambio, terminando una frase di cui Noemi non aveva potuto cogliere il resto — E la ferita è grave?

— Non lo so; — rispose il Dal Poggio — Non ebbi tempo che di arrestar il feritore che mi veniva [p. 102 modifica]incontro e di consegnarlo alla guardia di polizia. Fortuna volle che il colpo gli fu dato precisamente sulla porta di casa sua, mentre entrava. Almeno così mi dissero. Credo che mia moglie lo debba conoscere questo signor Digliani. Mi pare di averlo udito nominare da lei una volta...

E qui, troncando a un tratto su quell’argomento, soggiunse:

— Veniamo a noi... Dite dunque che il rialzo d’oggi...?

Noemi ne aveva udito abbastanza per rimettersi dal suo primo terrore... quello cioè che suo marito sapesse il suo fallo.

Ma, come se fosse deciso che la misera donna non dovesse uscir da una angoscia che per cadere in un’altra più grave, invece di sentirsi sollevata, provò un nuovo e più forte sgomento.

Egli è che per una donna innamorata come la povera Noemi, è più sopportabile una sventura propria che non quella da cui è colpito l’essere adorato; mentre prima ella non sentiva minacciata che sè stessa... ora si trattava della salute... forse della vita di Emilio.

Si staccò dall’uscio e si lasciò cadere di nuovo nella sua sedia, colla testa nelle mani. Che fare? Ma non aveva mossa intera la domanda, che la passione aveva già suggerito un intero piano in risposta.

S’alzò, corse allo specchio. Era pallida, sì, ma non tanto che con un sorriso non potesse dissimulare sul suo volto l’angoscia che la uccideva. Si [p. 103 modifica]provò a sorridere... Le parve che suo marito non dovesse accorgersi di nulla;... sforzò le labbra ad atteggiarsi alla gioia;... poi chiamando a raccolta tutte le forze dell’anima sua, armandosi di tutta la disinvoltura di cui fosse capace nello stato in cui si trovava, andò all’uscio dove poco prima era stata origliando, ed apertolo entrò sorridente nello studio di suo marito.

— Vengo ad avvisarti che oggi non sto in casa a pranzo; — diss’ella quasi precipitosamente, e prima che il Dal Poggio avesse tempo di aprir bocca.

Poi fingendo di vedere in quel punto l’agente di cambio, che s’era levato da sedere al suo entrare, accennò di ritirarsi.

— Dove vai? — chiese il Dal Poggio seduto allo scrittoio.

— Cristina mi ha invitato per questa sera ad una piccola cena di nascosto di suo marito... fra le otto e le dieci. Per farle onore ho pensato di non pranzare, e siccome dobbiamo studiar insieme un certo non so che, così conto di andare da lei tra poco.

— Ora non sono che le cinque; — disse il Dal Poggio — Saranno a tavola.

— Non dico ch’io ci voglia andar subito; — rispose Noemi, che parlava cogli occhi abbassati come un fanciullo che teme un rifiuto. — Del resto sai che i Firmiani vanno a tavola prima di noi.

Il Dal Poggio crollò il capo e non soggiunse che:

— Donne! donne! [p. 104 modifica]

E si riponeva a far una moltiplica; ma riprese tosto:

— Mi pare però che potresti fermarti a casa a pranzo, e andarci dopo da Cristina.

— Lo so... ma sarebbe perduto lo scopo principale... Abbiamo bisogno di trovarci sole noi due... D’altronde io non potrei pranzare ugualmente in casa.

— E il nonno lo sa?

— No; mi sono scordata di dirglielo prima che montasse in carrozza.

— Basta! — sclamò il Dal Poggio, e si volse di nuovo alla sua moltiplica.

Noemi uscì; corse nella sua camera; si mise il cappello lo scialle; quasi furtivamente discese in istrada, e s’avviò lesta al piazzale più vicino dove stazionavano le carrozze a nolo.

Cinque minuti dopo essa smontava alla porta di Emilio, e diceva al cocchiere di star ad aspettarla.


Era sull’imbrunire. Entrando nell’anticamera di Emilio udì nella sua stanza da letto un rumore di voci. Non ci badò, non riflettè un istante, come se non avesse mai pensato a riputazione, come se poco prima non avesse provato quale sgomento fosse per lei il pensare che suo marito sapesse tutto.

Entrò.

La camera era buia per lei che veniva dal di fuori.

Udì solo il rumore di due persone che si levavano da sedere; ma non le vide, nè si curò di ve[p. 105 modifica]derle. I suoi occhi stavano avidamente fissati su un punto solo... sul guanciale del letto di Emilio.

Noemi vi si accostò, e stava appunto per curvarsi sulla bruna testa, che ella aveva già veduto spiccar sul bianco origliere, quando sentì una voce senile pronunciare a bassa voce queste parole:

— Signora, la prego... non lo svegli.

Noemi si volse e vide, attraverso lo spesso velo che le copriva il volto, un vecchio venerabile dalla fisonomia dolce e buona che le additava Emilio che dormiva.

— C’è pericolo? — gli chiese Noemi, ritirandosi un passo indietro.

— Tutt’altro, — rispose il vecchio — ma ha bisogno di riposo. Erano trentasei ore che non dormiva. Questo povero giovine ha dei dispiaceri segreti e cerca di stordirsi... se non altro durante il sonno lo lasceranno quieto.

— E la ferita? — replicò Noemi.

— Non c’è ferita; fu un colpo di bastone sulla testa e uno nel petto che lo tramortirono senza recargli gran danno. Domani potrà levarsi più sano di noi.

— Ma e il sangue?

— Non fu che un po’ dal naso pel contraccolpo.

— Ma come avvenne? — ripigliò Noemi che si era seduta sulla scranna accanto al capezzale.

L’altro che non aveva ancora parlato — ed era Gastoni — le raccontò la scena della sera prima in caffè S. Carlo e come, dopo aver passata la notte [p. 106 modifica]al tavogliere da giuoco, fosse loro venuto il ghiribizzo di andar a prendere due cavalli a nolo, per galoppar fino a Sesto a far un po’ di colazione. Come di ritorno, dopo aver lasciato giù i cavalli, Emilio fosse stato assalito sulla soglia della porta dai due furfanti della sera prima, che avevano avuto la pazienza di attenderlo fino allora.

— Il colpo fu abbastanza forte per fargli perdere i sensi, — conchiuse egli — non per ferirlo.

— Ed ora? — interrogò Noemi.

— Ora egli dorme; — rispose il vecchio che aveva preso in mano il cappello per andarsene — Quando si sveglierà sarà guarito dalla di lei presenza.

Così detto s’inchinò, ed uscì dalla stanza seguito da Gastoni.

Noemi vegliò il suo amante, finchè il rumore che fece entrando la portinaia la quale veniva ad avvertirla che il cocchiere del brougham chiedeva di lei, non lo ebbe svegliato.

Emilio, trovando al capezzale il suo angelo che avrebbe pur avuto tanta ragione di essere con lui in collera, fu vivamente commosso.

La riconoscenza gli ispirò di quelle parole ardenti e sincere che se non sono amore, ne han tutte le apparenze, e la povera Noemi si trovò adorata come nei primi giorni.

Quand’ella discese le scale di Emilio erano quasi le dieci.

La carrozza da nolo l’aveva aspettata quattro ore alla porta. [p. 107 modifica]

Prima di montarvi stette perplessa un istante; poi decise di passar da Cristina e indicò al cocchiere la contrada dove essa abitava.

Giuntavi, trovò che la sua porta era chiusa. Allora si fe’ condurre a casa.

Montando le scale, le ripigliò un’ansia angosciosa che suo marito avesse saputo ch’ella non era andata da Cristina; e si fermò sul pianerottolo a pensare che cosa gli avrebbe risposto nel caso che le domandasse dove aveva passata la sera.

Ormai anche la menzogna si faceva necessaria, inevitabile.

Fortunatamente suo marito — come il solito — non sapeva nulla di nulla, non s’era curato di lei. Solo la mattina seguente le chiese come fosse andata la cena da Cristina.

— Bene! — rispose Noemi fingendo di metter ordine a qualche cosa sul camino.

Il nonno pure, quando era entrata a dargli il buon giorno, volle saperne per filo e per segno... La sventurata aveva dovuto inventare perfino dei particolari, mentir tutto, mentire a lungo.


Così di spasimo in ispasimo, di spavento in spavento, di errore in errore, ella era giunta a tale, che ogni sera, mettendosi a letto, pregava fervorosamente il buon Dio di non destarla al mattino, di farla dormire per sempre.

Abbiamo veduto come, il giorno dopo quella sua visita a Emilio, il nonno avesse invitato a pranzo [p. 108 modifica]Cristina e suo marito; come questa fosse stata indettata da Noemi, di non tradirla se si fosse parlato di una cena... e come le indiscrete domande del marito Gerolamino non avessero per poco scoperto ogni cosa.

Dal canto di Emilio abbiam veduto come già perfettamente guarito, allegro, spensierato, si accingesse a celebrar con una gran cena la vincita della lotteria di Francoforte, dopo aver liberato Teodoro dalla prigione.