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vare il piccione da spennare, ladri fors’anche, e spie, se avessero avuto il coraggio di rubare, o se la polizia avesse saputo fiutarli.

Questa genìa, che a Milano era un po’ più numerosa di quella che potesse credere una gentildonna che vedesse la città dal suo gabinetto, dal palchetto della Scala, dai salons di conversazione, e dalla trottata sugli spalti — eterno quadrivio in cui s’aggirava la vita di una donna elegante milanese — questa genìa sozza ed infame, rifiuto di scapigliatura, pullulava nelle bische frequenti che in quell’anno parevano autorizzate nei pubblici caffè, dove il macao e il fioccone attiravano molti giovani avidi di emozioni e di stordimento... i quali, dacchè nel 48 avevano veduto aprirsi il cielo, non potevano rassegnarsi a rivivere tranquillamente nel vuoto e nella noia della schiavitù lombarda.

Emilio si fermò ad ascoltare il diverbio fra que’ due uccelli di rapina e il suo amico Alfredo Gastoni, e vide che con un far minaccioso gli si stringevano alla vita.

In caffè non c’era più altr’anima viva, che qualche fattorino addormentato sul sedile lungo il muro. Gli avventori erano stati chiamati nella sala superiore dalla fama di un famoso banco di macao, di cui non s’aveva avuto memoria da un pezzo.

Il giovine con cui l’avevano que’ due mascalzoni, premendogli di andar a giuocare, nè volendo star a litigio in un caffè, trasse, come si usa, il portafogli, e disse: