La fine di un Regno/Parte I/Capitolo VII

Capitolo VII

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CAPITOLO VII


Sommario: I giornali — Loro forma e contenuto — I giornali commerciali e il Giornale delle Due Sicilie — L’Omnibus — Verità e Bugie — Il Nomade — Il Diorama — L’Epoca — Le Riviste — Gli epigrammi e gli epigrammisti — Genova, Caccavone, D’Urso e Proto — Vincenzo Torelli e l’attentato contro dì lui — L’Iride e il Secolo XIX — Giornali minori — Lo polemiche letterarie - Duello fra Cammillo Caracciolo e Luigi Indelli — Le Strenne — Poeti e poetesse — I Teatri — Il San Carlo e il Fondo — I maggiori spettacoli di quegli anni — Giuseppe Verdi citato in tribunale — Verdi e la Penco — I Fiorentini e Adamo Alberti — La compagnia dei Fiorentini — Lo Sadowski, Majeroni, Bozzo e Taddei — Povertà degli allestimenti scenici — La Saffo e la Gaspara Stampa — La Fenice, il San Carlino e il Sebeto — I filodrammatici — I teatrini di casa Lucchesi Palli e Proto Cicooni — La Stella di Mantova al teatro del conte di Siracusa — Interessanti particolari — Un motto del Re — I filodrammatici superstiti — Un dono da gran signore.


Il tipo del giornale napoletano, in quegli anni, fu quasi esclusivamente letterario e la maggior parte l’occupavano i teatri. Il giornale era la sola palestra che si presentava ai giovani, desiderosi di salire in fama. Non mancavano buoni articoli di scienza e recensioni di nuovi libri, polemiche e critiche fatte con garbo. Abbondavano le sciarade, le epigrafi, gli epigrammi, le poesie e le necrologie. Di cronaca locale neppur l’ombra, e la politica confinata tra fatti e cose diverse, o diluita in riviste settimanali che illustravano gli avvenimenti del Giappone e degli Stati Uniti, o riferivano senza commenti, quando ne avevano il permesso dalla polizia, le notizie ufficiali del Regno e degli altri Stati d’Italia: questi ultimi nella rubrica "estero„. Di politica interna, cioè delle notizie politiche del Regno, i giornali non potevano parlare altrimenti, che riproducendo quelle pubblicate dal giornale [p. 122 modifica]ufficiale, anzi, secondo il suo proprio nome, Giornale del Regno delle Due Sicilie. Gaetano Galdi e Vincenzo de Cristofaro, direttori, il primo del Nomade e il secondo dell’Epoca, erano impiegati al ministero dell’interno e Vincenzo Torelli, direttore dell’Omnibus, godeva la fiducia della revisione, ed erano perciò i soli autorizzati a riprodurre le notizie politiche dal foglio ufficiale. La revisione verificava sulle bozze se la riproduzione fosse letteralmente esatta. Una breve rivista commerciale registrava, nei maggiori giornali, il corso della rendita, la quale nel 1856 si elevò fino a 118 e mezzo, nonchè i prezzi degli olii, dei cereali e delle mandorle, soli prodotti che si negoziassero in Borsa. Una completa rivista commerciale era solo pubblicata dal Giornale del Commercio, che usciva il mercoldì e il sabato ed era diretto da don Benedetto Altamura, fratello di quel don Michele che collaborò, dopo il 1860, in giornali politici retrivi e, poverissimo, finì correttore del Piccolo e della Nuova Patria, dopo essere stato direttore del Cattolico, che si stampava sotto la protezione del commissario Maddaloni. Altro foglio industriale e commerciale veniva fuori in francese, tre volte la settimana; lo fondò e diresse Carlo Palizzi e aveva per titolo l’Indicateur. V’erano indicati gli arrivi e le partenze dei viaggiatori, gli alberghi e gli appartamenti da appigionare, ed a queste notizie seguivano cenni molto sommarii sulle industrie e i commerci del Regno.

Nel 1858 gli articoli di politica estera, maturando i nuovi tempi, cominciarono ad essere tenuti in maggior conto, e anche meglio scritti. Delle cose italiane si occupavano colla massima prudenza sì, ma con maggiore diffusione: però sulle cose di provincia s’indugiavano poco o nulla. Della corrispondenza dalle Provincie, come s’intende oggi, con tutte le volgarità, piccinerie e vanità inerenti, neppur l’ombra. Solo delle città, che avevano un teatro, si riportava qualche corrispondenza laudativa degli artisti abbonati, o recante notizie degli esami o saggi, nei licei regi, coi nomi dei giovanetti premiati.

Nessun giornale era quotidiano, tranne il foglio ufficiale, che però non si pubblicava nelle feste e nelle "grandi gale„ e dipendeva dal ministero di polizia. N’era direttore Filippo Scrugli, con onori di uffiziale di carico nel ministero di polizia e vi collaboravano Domenico Anzelmi, Enrico Cardone, [p. 123 modifica]Emanuele Rocco e Giuseppe Portaluppi, i quali erano anche i revisori della polizia. L’Omnibus che, di tutti i fogli del tempo, era il meglio redatto ed il più ampio, veniva fuori il mercoledì e il sabato. Stampava in prima pagina le notizie politiche e, in appendice, romanzi di Francesco Mastriani. Era ricco di varietà, di curiosità e di cronaca teatrale, italiana ed europea. Fu nel giornale di suo padre che Achille Torelli cominciò a farsi conoscere, pubblicando qualche racconto, che rivelava l’ingegno eletto del futuro commediografo. Nell’Omnibus avevano già fatte le prime armi Pier Angelo Fiorentino, Achille de Lauziéres e Leopoldo Tarantini, che ne fu col Torelli il fondatore.

Ai primi di maggio del 1855 venne fuori l’Aurora, che portava in fronte il verso dantesco:

Dolce color d'oriental zaffiro;


nel giugno, l’Iride, col motto: Mille trahens varios adverso sole colores, e nello stesso mese, il Secolo XIX che prometteva di esser quotidiano e non visse che tre mesi, come si dirà appresso. Nel novembre usci il Diorama, che aveva per motto le severe parole di Seneca: Turpe est aliud loqui, aliud sentire, quanto turpius aliud sentire, et aliud scribere. Di tutti questi giornali, il periodico che aveva un formato giornalisticamente più regolare, e un insieme più copioso e vario, era, dopo l’Omnibus, il Nomade. Nel secondo sabato di aprile del 1856 si cominciò a pubblicare il Giornale dei giornali, sunto di fogli e di riviste, da non confondersi col Giornale bibliografico delle Due Sicilie, che vide la luce nel febbraio dello stesso anno e si pubblicava ogni quindici giorni, con un supplemento di lettere, teatri e varietà. Questi giornali minori vivevano vita breve e ne generavano altri più meno simili. La Gazzetta dei Tribunali, la Gazzetta Musicale e il Poliorama Pittoresco vivevano quasi clandestinamente, e la prima non si vendeva che in un solo caffè di via dei Tribunali. I giornali non avevano altra diffusione che fra i proprii abbonati o nei caffè, dove, naturalmente, si leggevano gratis. Non vendita per le vie e neppure chioschi nelle piazze. Ebbero vita più lunga l’Omnibus, il Nomade, l’Iride e il Diorama, i quali morirono dopo il 1860, ammazzati dai nuovi tempi, [p. 124 modifica]che richiedevano altre energie giornalistiche; anzi il Diorama morì anche prima. Si pubblicava due volte la settimana.


Nel 1854, alla fine di giugno, nacque Verità e Bugie, giornaletto teatrale e umoristico, che ebbe fortuna, nonostante che il suo spirito, non privo qualche volta di finezza, cadesse più sovente nelle freddure e nelle volgarità. Lo fondarono Niccola Petra, Luigi Coppola e Carlo de Ferrariis, i quali presero rispettivamente le sigle di Z, Y e X. Nella terza pagina si pubblicavano alcune caricature in litografia, credo del Colonna, ma il tentativo non ebbe successo. Dopo poco tempo, Petra e De Ferrariis ne uscirono e vi entrò Michelangelo Tancredi, che si firmava K, e vi ebbe molta parte. Vi scriveva pure Giuseppe Rosati, che fu più tardi direttore della Real Casa di Napoli, uomo di vivace spirito, figlio di don Franco, primo medico di Corte, anzi medico di fiducia di Ferdinando II. Niccola Petra era figlio del marchese di Caccavone, ma, pur avendo ingegno svegliato, non possedeva la genialità, nè la larga vena umoristica del padre, onde fu dal duca Proto bollato con questo epigramma:

Perchè figliuol tu sei del Caccavone
Le tue frottole credi argute e buone;
Lo spirito non è fidecommesso:
Smetti, Nicola mio, tu si no f....


Scrisse versi, drammi ed epigrammi, i quali ebbero poca fortuna; studiava diritto col De Biasio, ma il maggior tempo consacrava al giuoco. Fu, dopo il 1860, procuratore del Re, questore e prefetto. Visse vita turbolenta e agitata, per mancanza di equilibrio morale e si diè la morte avvelenandosi, poco più che cinquantenne. Il giornaletto Verità e Bugie era une espèce de Figaro napolitain, quelquefois spirituel, come disse Marco Monnier. Ai vecchi collaboratori si aggiunse Enrico Cossovich, commissario di marina. Luigi Coppola ne era il proprietario e, col Tancredi, lo scrittore principale; anzi era questi che nella produzione vinceva il Coppola, in quel tempo innamorato cotto della seconda ballerina di San Carlo, la bella Marina Moro, alla quale inneggiava appassionatamente.

Il giornaletto aveva in prima pagina, per motto, questi versi:

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Chi batte questa via
E spine e rose avrà;
È questa una bugia
Ed una verità.

Più che come direttore di Verità e Bugie e proprietario di un’agenzia di teatri, Luigi Coppola acquistò rinomanza in tutta Italia con le sue riviste teatrali, sottoscritte Il Pompiere e pubblicate nel Fanfulla. Morì caposezione al ministero dell’istruzione pubblica del Regno d’Italia, e fu insuperato maestro di freddure. Uomo di una singolare bontà d’animo, aveva tendenze parsimoniose sino all’avarizia e natura così malinconica, che sul suo volto olivastro pareva di leggere la passione di Gesù. Egli scriveva pure dei corrieri nel Nomade, firmati Ticchio, i quali non mancavano di spirito, ma questo non sempre di buona lega. Per far la réclame ai guanti del Bossi, scriveva, per dirne una:

Peli e guanti
Guanti e peli
Son riparo
Sotto i geli.
Guanti e peli,
Peli e guanti
Son le glorie
Degli amanti.

Nell’ottobre del 1868 si aprirono tre nuove botteghe: in via Toledo, la pasticceria D’Albero e il magazzino di guanti Caridei, e a Chiaia, il caffè Nocera. Coppola ne formò questa sciarada:

Il mio primier dolcifica
L’altro le grinfe asconde,
Il terzo in un confonde
Lo zucchero e il caffè.
E il tutto che cos'è?
Lo dimandate a me?
Non posso dir perchè...

Fra i giornaletti umoristici va ricordato il Palazzo di Cristallo, fondato nel 1856 da Antonio Capecelatro e da Luigi Zunica, che poi fu cerimoniere di Corte nel 1860; ma lo scriveva, quasi tutto, Giuseppe Orgitano, lo scrittore di maggior vena umoristica che abbia avuto Napoli a quei tempi, e che Marco Monnier nel suo libro: L’Italie, c’est-elle la terre des morts? chiamò l’enfant le plus spirituel du Royaume. Morì segretario [p. 126 modifica]al ministero della guerra dopo il 1870, e fu anche scrittore del Fanfulla della prima maniera. Al Palazzo di Cristallo, nel quale scrivevano pure il Rosati ed Ernesto del Preite, successe nel 1868 il Diavolo Zoppo, con caricature. Per due o tre numeri ne figurò direttore Achille Torelli, giovanissimo; poi la direzione passò a Francesco Mazza Dulcini, ma lo scrittore principale e più fecondo n’era l’Orgitano. Il giornale fu soppresso nel 1859 con un semplice avvertimento al tipografo, il quale era Emanuele Rocco, e con una lavata di testa all’Orgitano, salvato da male maggiore per opera di don Felice Marra, suo capo di ripartimento al ministero della guerra. Perchè fu soppresso? Il caso merita di essere ricordato. Si era ai primi giorni del 1859. Il Diavolo Zoppo pubblicò, come caricatura, una figura di donna che entrava in una tinozza e sotto vi erano scritti i versi del Petrarca:

Chiare fresche e dolci acque,
Ove le belle membra
Pose colei, che sola a me par donna.

La donna fu creduta un’allusione all’Italia e la tinozza al Piemonte. Il revisore non vi aveva veduta questa allusione, ma ve la trovò la polizia, onde il giornale fu soppresso e Rocco, revisore e tipografo, la passò brutta. Orgitano scriveva anche nel Nomade alcuni corrieri umoristici, sottoscritti Nemo, i quali facevano sganasciar dalle risa i numerosi lettori. Egli era stato il grande umorista del 1848, col suo celebre Arlecchino.

Il 20 marzo 1858, il Nomade pubblicò una vignetta rappresentante l’attentato contro Napoleone III dinanzi al peristilio dell’Opera, la sera del 14 gennaio. Nello stesso numero annunziava che il giorno 13 marzo, Orsini e Pieri avevano subita la pena capitale, e che i capelli di Orsini, rasi prima dell’attentato, cominciarono a farsi grigi quando comparve innanzi alla Corte, e divennero bianchi pochi giorni prima dell’esecuzione. Scrivevano in questo foglio giovani di valore. Gaetano Galdi seguitò a dirigerlo fin dopo il 1860. Nel settembre del 1858 lo stesso giornale pubblicò una serie di lettere di Luigi Indelli dal titolo: Sullo stato presente delle lettere a Napoli, che meriterebbero di esser lette da quanti amino farsi un’idea del movimento intellettuale in quegli anni. Anche Enrico Pessina vi scriveva articoli, ora di lettere ed ora di scienze. Fra i primi [p. 127 modifica]merita speciale ricordo la polemica con Vincenzo Petra, a proposito della Saffo di Tommaso Arabia; e fra gli altri, un’interessante recensione sul bel libro di Giacomo Racioppi: Dei principii e dei limiti della statistica. Carlo de Cesare scriveva di economia, d’industrie e di letteratura; Federigo Quercia illustrava i versi di Aleardo Aleardi, che egli definì il poeta del secolo XIX, e ne pubblicò il Monte Circello con una geniale prefazione. Saverio Baldaccbini scriveva una serie di articoli sul poeta inglese Giovanni Keats, e Carlo Tito Dalbono, erudite ed enfatiche rassegne sulla pittura napoletana, dalla morte del Solimena a noi.

Non vanno dimenticati, fra i giornali d’allora, il Bazar letterario, diretto da Vincenzo Corsi e pubblicato a dispense; la Rondinella, il Truffaldino e le Serate di famiglia, che videro la luce nel 1856. Le Serate di famiglia dirette da Raffaele Ghio e da Michelangelo Tancredi, pubblicavano articoli di educazione, di pedagogia e di amena letteratura. Vissero due anni di vita stentata e bersagliata dai revisori, i quali, tra l’altro, un giorno cancellarono la parola Italia, annotando: "Quando la finirete con questa f... Italia?„; e il titolo di un articolo: La costituzione di un fanciullo, mutarono in: La conformazione di un fanciullo. Il Tornese e il Menestrello comparvero nel 1856; un anno dopo, il Teatro, diretto da Alessandro Avitabile e nel 1858, la Babilonia: giornaletti, mezzo teatrali e mezzo umoristici, senza importanza e senza lettori. Don Lorenzo Zaccaro, prete calabrese, chiuso più tardi nelle carceri di San Francesco per supposta complicità nell’attentato di Agesilao Milano, pubblicò in quegli anni l’Ortodosso, diretto da Giosuè Trisolini, chirurgo militare all’ospedale della Trinità, padre di Tito, allora emigrato, che poi fu dei Mille, e di Giovanni, allora giornalista teatrale e poi impresario. Come il Nomade e l’Epoca, mercè le aderenze dei loro direttori avevano ottenuto raccomandazioni dal ministero di polizia agl’intendenti per avere degli associati, l’Ortodosso ne ottenne dal ministero della guerra, ed erano quasi tutti militari i suoi lettori, del resto non molti. Una sera si discuteva sul significato del suo titolo tra parecchi ufficiali nella Casina militare, che aveva sede sulla cantonata tra la discesa del Gigante e il largo di Palazzo, e fu sentenziato che ortodosso era.... una parola spagnuola!

[p. 128 modifica]Parecchi scrittori del Nomade e dell’Omnibus non negavano la loro collaborazione, gratuita s’intende, al Diorama, diretto dallo stesso Antonio Capecelatro, impiegato al ministero di marina poi direttore generale delle poste italiane e che ora, vecchio, vive a Napoli in onorato riposo. L’ufficio del Diorama era in piazza San Ferdinando, sull’antico caffè d’Europa, in un appartamentino interno, sotto l’ufficio dell’Omnibus, e lo frequentavano, dopo la morte di Ferdinando II, Cammillo Caracciolo, Gaetano Trevisani, Raffaele Masi, Saverio Baldacchini, Floriano del Zio, Guglielmo Capitelli, Federigo Quercia, Cecchino Vulcano e Luigi Indelli, i quali ne erano anche gli scrittori ordinarii. Il Capitelli ha pubblicato, testé, nel suo Excelsior, parecchi ricordi del Diorama, che non son tutti. Il Capecelatro era convinto unitario fin d’allora e forte giuocatore di scopone, il quale illustrò con un opuscolo che levò rumore. Lo scopone era considerato un giuoco eminentemente scientifico, e contava glossatori e partigiani ferventi. Don Michele Agresti era uno di questi ultimi, e in casa sua si giuocava lo scopone tutte le sere. Egli, grande magistrato per dottrina e probità, avviava i giovani alunni di giurisprudenza alla scienza dello scopone, persuaso che fosse un utile esercizio della mente per calcolare e ragionare.

Tommasino Arabia e il fratello Francesco Saverio, poeti ed avvocati, erano venuti di Calabria e avevano fondato nel 1856 Lo Spettatore Napoletano, rivista mensile che durò due anni. Stanislao Gatti dirigeva il Museo di scienze e letteratura, importante effemeride, nella quale egli, il valoroso uomo, con Stefano Cusani e Giambattista Ajello, diffuse le dottrine di Hegel tra gli studiosi. Era anche poeta e uomo di società. Dopo il 1860 fu consigliere di prefettura e morì prefetto di Benevento. Spirito colto e sdegnoso, ebbe più ammiratori che amici. Più varia e completa rivista era il Giambattista Vico, fondata dal conte di Siracusa. Si occupava di storia, di filosofia, di matematica, di medicina, di archeologia ed economia politica. Usciva ogni mese, stampata nitidamente dal libraio Dura. Vi collaboravano uomini e giovani chiarissimi nel mondo scientifico e letterario: Carlo Troja, i cassinesi Tosti e De Vera, Giuseppe Fiorelli, Salvatore de Renzi, Carlo de Cesare, Guglielmo Guiscardi, Gaetano Trevisani, Remigio del Grosso, Costantino Baer, Federigo [p. 129 modifica]Quercia, Cammillo Minieri-Riccio, Filippo Volpicella, Antonio Tari, Giuseppe Colucci e altri minori.

Un’altra effemeride da non dimenticare, fu la Rivista Sebezia, scientifica, letteraria, artistica, fondata da Bruto Fabbricatore. Si pubblicava a dispense e la prima vide la luce nel luglio del 1855. Il primo numero, oltre un discorso proemiale, conteneva una lettera di adesione di Francesco Orioli, datata da Roma il 22 luglio 1855, e poi uno scritto inedito, dettato da Cataldo Iannelli nel 1816 per Vincenzo Coco, sulla Storia universale antica; un lavoro di metodologia di Michele Baldacchini; una prolusione di estetica di Paolo Emilio Tulelli ed articoli di Degli Uberti, di Giuseppe de Cesare, di T. M. Torricelli, di Pietro Balzano. Si chiudeva con buone bibliografie di Giovanni Manna, di Michele Melga e di Bruto Fabbricatore. Oltre i sopracitati vi scrissero in seguito Cammillo Minieri-Riccio, Enrico Pessina, Gaetano Trevisani, Saverio Baldacchini, Agostino Magliani, Emmanuele Rocco, Scipione Volpicella e Raffaele d’Ambra. Noto del Magliani una "Lettera critica in cui si paragonano insieme i tre episodii degli amori di Enea e Didone di Virgilio, di Ruggiero ed Alcina dell’Ariosto, e di Rinaldo ed Armida del Tasso„. Il futuro ministro delle finanze scriveva di amori! Michele Melga, in una lettera da Roma, descrisse un quadro di Achille Vertunni, esposto in quella mostra di belle arti.

Il Morgagni era la più importante rivista di medicina, dovuta alla giovanile tenacia del valoroso medico Pietro Cavallo di Carovigno. Ne figurava come direttore il Ramaglia, che non vi scrisse mai nulla. Vi collaboravano Salvatore Tommasi e Cammillo de Meis, esuli in Piemonte. Una volta il Tommasi mandò da Torino un articolo in confutazione alle dottrine materialistiche del Molesohott. Il revisore Minichini ne soppresse per intero la parte espositiva del sistema di Moleschott, premessa all’articolo, e a Pietro Cavallo che gli osservava di venir meno in tal modo ogni fondamento alla critica del Tommasi, rispose: “Eh!, mio caro, l’ho tolta, perchè i lettori potrebbero più volentieri invaghirsi della dottrina materialista di Moleschott, anzichè della critica del Tommasi„. Il Morgagni era stato fondato da Raffaele Maturi, contemporaneamente al Ricoglitore Medico-Cerusico, nei primi giorni del 1855. Poco tempo dopo, le due riviste si fusero in una sola col nome di Morgagni, e Pietro Cavallo vi portò tutto il concorso del suo [p. 130 modifica]talento e della sua attività; per cui, in breve, il giornale ebbe fortuna. Oltre ai vecchi professori Villanova, Lauro, De Martino, De Sanctis, vi scrivevano altri giovani medici, che più tardi vennero in gran fama, come Luigi Amabile, Tommaso Vernicchi, Giuseppe Buonomo, Capozzi, De Crecchio, Tanturri, Olivieri e Vizioli. Dopo il 1860, Ramaglia non volle più saperne di figurare come direttore e la direzione fu assunta dal Tommasi, reduce dall’esilio, e con lui e col Cantani, che furono i due grandi medici che abbia avuto Napoli negli ultimi anni, il Morgagni divenne una fra le più autorevoli riviste di medicina.


Nei giornali e nella buona società fioriva l’epigramma. Si conoscevano tutti l’un l’altro, perchè era un piccolo mondo quello che pensava, scriveva e si moveva. L’epigramma era uno sfogo della naturale arguzia, e un po’ anche di malignità, non essendovi altro modo di colpire qualcuno, o di flagellare un vizio, che la forma epigrammatica, ispirata molte volte da odio personale e più sovente dal desiderio di far ridere alle spalle degl’imbecilli e dei vanitosi. Filippo Palizzi, rapito non ha guari all’arte di cui fu splendida illustrazione, aveva ritratto maravigliosamente un tal Rossetti sordo, e Michele Genova disse:

Questi è Rossetti, esclama ognun rapito;
Tal delle tinte è il sovrumano accordo,
Tutto il pittor gli diè, fuorchè l’udito,
Per non opporsi a Dio, che lo fè sordo.

Ma non era il Genova l’epigrammista più arguto. Tenevano in quel tempo lo scettro dell’epigramma Raffaele Petra, più noto sotto il nome di marchese di Caccavone; Michele d’Urso, e Francesco Proto, duca prima dell’Albaneto, poi di Maddaloni, più conosciuto col nome di duca Proto. Il Petra era capo del quinto ripartimento nella direzione generale del Gran Libro; D’Urso era colonnello di marina e fratello di Pietro, ministro delle finanze, e Proto, deputato nel 1848 fra i più eccessivi, era andato in esilio e n’era tornato per grazia speciale di Ferdinando II. Il Caccavone li vinceva tutti. Più spontaneo, più arguto, più fresco nelle immagini, egli conosceva meglio le finezze, l’elasticità e i doppii sensi del gergo dialettale. Molti dei suoi epigrammi, raccolti da Achille Torelli in un volumetto che vide la luce in Napoli nel 1894, si leggono anche oggi con [p. 131 modifica]diletto. Se la forma n’è quasi sempre volgare, il pensiero è molte volte elevato e, strano a dire, certi suoi epigrammi pornografici hanno una base morale, perchè mettono in dileggio tipi e abitudini meritevoli di riso e di disprezzo. Il Caccavone era uno stoico e aveva degli stoici l’atticità del pensiero e delle immagini e le abitudini della vita. I suoi versi in lingua italiana sono bellissimi. Non rideva mai, aveva colore terreo, quasi cadaverico e la sua cattedra era il caffè di Europa. Morì vecchio, dopo il 1870. Gli epigrammi di D’Urso e di Proto erano più ingiuriosi che spiritosi, e quasi sempre ad hominem. Nessuno di loro creò tipi, come Taniello, don Lorenzo, la madre educatrice; nessuno scrisse epigrammi italiani in bellissimi versi e con immagini pure. Privi della naturale festività e obiettività del Caccavone, colpivano determinati individui e rasentavano l’insolenza, e il Proto, più stentato ancora del D’Urso, fu fatto segno lui stesso ad epigrammi atroci, ad umiliazioni non poche, da parte di quelli che egli colpiva, e infine a clamorose bastonate. Gli epigrammi del Proto sono stati raccolti in un volumetto dal Di Giacomo. Egli non aveva ingegno, veramente. Era artifizioso e scontorto in ogni sua manifestazione letteraria, retore, invido di chiunque si elevasse sulla folla, versipelle in politica e in arte. Sfucinavano epigrammi anche Cesare de Sterlick, Vincenzo Torelli, Federigo Quercia, Luigi Coppola, Giuseppe Orgitano, Federigo Persico, Giuseppe Rosati e Felice Niccolini. Se ne ricordava uno contro Saverio Baldacchini, attribuito a Giacomo Leopardi e che diceva:

Ei le vergini canta, l’evangelo
Ama, le vecchie .... adora, e la mercede
Di sua molta virtude attende in cielo.

Se mancavano giornali, come s’intendono oggi, mancavano anche i giornalisti. Eran tutti articolisti intermittenti e a rime obbligate. Unico giornalista, nel vero senso della parola, fu Vincenzo Torelli, la cui influenza nel mondo della letteratura e dei teatri divenne incontestata. Torelli rappresentava una potenza, e la sua casa, prima al palazzo Barbaia in via Toledo, e poi in piazza San Ferdinando, dove aveva raccolti molti quadri di autori antichi e moderni, era un magnifico convegno di letterati, di artisti e di quanti uomini di valore vivevano in Napoli o vi [p. 132 modifica]capitavano. Era passato qualche anno dal suo arresto, dall’attentato nel carcere di Santa Maria Apparente e dalla sospensione del giornale. Su quel misterioso fatto il Torelli non disse mai verbo, neppure dopo il 1860. Per la prima volta, recentemente, ne ha parlato, con particolari esatti. Pasquale Turiello;1 particolari non esaurienti però, perchè il Turiello non indaga chi fosse il cortigiano che avrebbe confidato al Torelli le parole del Re, a proposito della cura idroterapica, e dal Torelli riferite^ in una lettera anonima stampata neìl’Omnibus, forse per mettere un po’ in luce il nome del professore Tartaglia, il quale iniziava in Napoli la cura della idroterapia. Il Re aveva detto queste innocenti parole "Acqua fresca, miracoli, miracoli!„: ma sospettosissimo com’era, s’impensierì e s’irritò di vederle pubblicate testualmente, perchè in quella stessa conversazione, presenti la Regina, Alessandro Nunziante e il maggiore Severino, egli aveva tenuti altri discorsi e fatta una volgarissima ingiuria all’indirizzo di lord Palmerston. Il Re voleva quindi sapere dal Torelli chi gli avesse scritta quella lettera, ed avendo questi risposto di non saperlo, ordinò che fosse mandato a San Francesco. E tornando a insistere, o l’altro seguitando a negare, ordinò che fosse tradotto in Santa Maria Apparente, dove il malcapitato, entrando, fu aggredito da un camorrista, armato di rasoio. Don Vincenzo si difese disperatamente dai colpi che gli avventava al collo l’assassino, il quale morì di morte misteriosa, pochi giorni dopo. E poichè dei due cortigiani, alla presenza dei quali il Re aveva pronunziato quelle parole e lanciata la ingiuriosa sconcezza all’indirizzo di Palmerston, uno era il Nunziante, i maggiori sospetti caddero su lui; ma nessuna prova si ha che questi avesse armata la mano dell’assassino, e l’avesse fatto morire misteriosamente due giorni dopo. Il fatta impressionò tutta Napoli, il Torelli s’ostinò a non parlare e il Re, visto che tutto era inutile, lo restituì in libertà. L’Omnibus riprese le pubblicazioni, ma don Vincenzo uscì dal carcere politicamente mutato. Il suo zelo per i Borboni intiepidì di molto. Per un assassinio tentato e un altro consumato, non vi fu processo, neppure pro forma! L’autore della lettera anonima, causa [p. 133 modifica]di questa tragedia, si disse essere stato involontariamente don Michele Viscusi, allora detenuto in Santa Maria Apparente, ma nessuno vi credette. I maggiori sospetti si fecero sul Nunziante.

Giornalista di qualche talento era don Filippo Girelli, direttore del Poliorama pittoresco, foglio con illustrazioni, poco diverso, rispetto al formato, dall’Iride e dall’Aurora. Le sue ingenue illustrazioni non erano interamente detestabili. Uno degli scrittori più assidui del Poliorama era stato Cesare Malpica, che nel 1841 vi scrisse una vita di Napoleone Bonaparte. E nel 1856, quando morì Giulio Genoino, Luigi Cassitto pubblicò un capitolo picciuso, indirizzato al Girelli, che cominciava cosi:

Don Felì, s’è stutata la lacerna
De lu Prauasso! Genoino è mmuorto,
Sia pace all’arma soja .... requiammaterna!
La lengua, che se parla abbascio Puorto,
Mo vide stencenata! . . . Addio dialetto ....
Chi t’adderizza cchiù? Mo jarraje stuorto!

La morte di Giulio Genoino ispirò a Niccola Sole un bellissimo carme, pubblicato nel primo numero dell’Iride, giornaletto simpatico, redatto da parecchi scrittori di Basilicata, come Achille de Clemente, che ne era il direttore, Giacomo Racioppi e monsignor Santaniello. Saverio Baldacchini, Giannina Milli e Felice Bisazza vi stampavano graziose poesie, Scipione Volpicella epigrafi e articoli di storia napoletana. Carlo Cammarota vi pubblicò, nel febbraio del 1858, una poesia finamente umoristica, in morte del celebre cantante Alamirè pseudonimo del Lablache, che mori a Napoli in quel tempo e fu accompagnato al cimitero da uno sterminato stuolo di marsine, mentre le salme degli uomini di valore, soprattutto se sospetti di liberalismo, vi erano menate a lume spento. Indirizzandosi a Carlo Troja, che viveva modestamente e quasi ignoto al mondo ufficiale, il giovane poeta ebbe accenti sdegnosi e ispirati, tra i quali piacemi riferire questi:

Carlo, tu che di sapienza i lumi
Porti angosciato nelle età più fosche,
E sul lezzo di rancidi volumi
Stai curvo il dorso e le pupille losche,
Che cale a noi dei gotici costumi,
Della trama, che al ragno ordir le mosche,
Dell’acciuffarsi delle due befane
E dei latrati dell’ascoso cane? . . .

[p. 134 modifica]Qui il linguaggio, sebbene figurato, era abbastanza evidente, e il Cammarota divenuto poi il solerte segretario generale del municipio di Napoli, ed oggi in riposo, ebbe qualche grattacapo dalla polizia, il che non tolse però che le ottave in morte di Alamirè avessero fortuna.

Vita molto breve toccò al Secolo XIX, fondato da don Gennaro Correale. Vi collaboravano, quasi esclusivamente, Carlo de Cesare che scriveva di economia, d’industrie e di finanza; Federico Quercia che si occupava di critica letteraria e di teatri; Vincenzo Padula che pubblicava interessanti articoli di varietà, e Pasquale Trisolini, il quale, dopo il 1860, divenne ufficiale di pubblica sicurezza. Questo giornale rappresentava un complesso di forze vigorose e, per quanto i tempi lo comportavano, discuteva liberamente di arte, di lettere e d’economia pubblica. Chiedeva ferrovie, strade, ponti, bonifiche, istituti di credito fondiario ed agrario. Sugli istituti di credito fondiario scrisse qualche pregevole articolo quel don Gaetano Bernardi che, alcuni anni dopo, si fece monaco di Montecassino e poi fu abate e direttore del collegio benedettino di Sant’Anselmo in Roma, ed è morto di recente. Allora era un giovane elegante e amabile, molto ricercato nella buona società e dava private lezioni di letteratura. Notevole una polemica letteraria tra Federico Quercia e Francesco Saverio Arabia, nelle colonne del Secolo XIX, a proposito di alcuni versi di quest’ultimo, dall’altro criticati, per il che l’Arabia montò in bizza. Ma questa polemica, abbastanza vivace, non fini in duello, come l’altra fra Luigi Indelli e Cammillo Caracciolo, a proposito di un sonetto di quest’ultimo: duello ch’ebbe luogo nell’agosto del 1857 e fu argomento per qualche giorno de’ pubblici parlari. Si battettero alla sciabola, in casa di Francesco Rubino, e Cammillo Caracciolo rimase ferito leggermente alla mano. Egli fu assistito da Federico della Valle di Casanova, e l’Indelli dal conte Annibale Capasso, di Benevento, guardia del corpo. La polizia non riuscì ad impedire lo scontro, e quando fu avvenuto, voleva per punizione, esiliare i combattenti a Malta. Ma Ferdinando II, assicuratosi che i due pennaruli non si erano battuti per causa politica, ne rise e li lasciò tranquilli. Il Secolo XIX dava troppo nell’occhio alla polizia, per la qual cosa fu due volte sospeso. Ma a lungo andare, il prefetto Governa fè intendere al Correale che la polizia aveva [p. 135 modifica]avuta abbastanza longanimità, e che perciò, senz’altre chiacchiere, smettesse di pubblicare il giornale che morì infatti alla fine di agosto del 1856.

De Cesare, Quercia, Padula e Trisolini trovarono ospitalità nel Nomade, nell’Omnibus, nell’Iride e più tardi nell’Epoca, fondata nel giugno del 1857 dal De Cristofaro. Alcuni scrittori del Nomade passarono all’Epoca, la quale, intendendo la réclame giornalistica un po’ più modernamente, pubblicò una lunga lista di collaboratori, dei quali era primo Carlo Troja ed ultimo Giuseppe Lazzaro. Questi iniziò una serie di articoli sull’istruzione» anzi sull’"insegnamento letterario„, concludendo: bruciate le grammatiche, le rettoriche e le poetiche, e ne dava l’esempio.


Le strenne in prosa e in versi, che ogni anno si pubblicavano, specie da alcuni giornali, erano altro campo aperto alla attività degli scrittori. Lo studio sulle strenne e sui versi, così detti di occasione, come per nozze, per monacazioni (allora molto frequenti), per onomastici, per genetliaci, per decessi, sarebbe interessante, come pur quello sulle poetesse del tempo. Brillavano tra queste Giannina Milli, Giovannina Papa, Anna Pesce, Irene Capecelatro, Adelaide Folliero, Erminia Frascani e quell’Emilia de Cesare, che fece fantasticar tanti sull’esser suo, provocò dichiarazioni d’amore e lettere di laude e ispirò la musa di Felice Bisazza, di Carlo Cammarota, di Giulio Salciti, di Luigi Cassitto e di Gaetano Bernardi, finché non si venne a sapere, e ci volle qualche anno, che sotto quel nome si nascondeva Carlo de Cesare. Sembrava strano che fosse venuta al mondo una poetessa d’animo e di sentimenti virili e ricca di una cultura, rara oggi e allora rarissima nelle donne.

Le strenne più accreditate, per eleganza tipografica, eran quelle di Gaetano Nobile, primo editore che abbia avuto Napoli e forse ultimo. Nel 1856 egli ne pubblicò una di prose e versi, tutta di autrici italiane viventi, dal titolo: La primavera. Tra le prosatrici napoletane, figuravano Adelaide Amendolito Chiulli, Virginia Pulli Filotico, Enrichetta Sava, Carolina d’Auria, Carolina Bonucci; e tra le nuove poetesse, Mariannina Spada, Maria Lettieri, Elvira Giampietri. Vi si pubblicò inoltre una bellissima ode di Luisa Amalia Paladini ed una, inedita, di Giuseppina Guacci, non delle migliori che la [p. 136 modifica]insigne donna scrivesse. Questa strenna, per l’originalità sua, levò rumore.

Per il capodanno del 1858, il Nomade offrì ai suoi lettori una strenna speciale. Figuravano, tra i poeti, Stanislao Gatti, Carlo de Cesare, Saverio Baldacchini, Vincenzo Baffi, Luigi Indelli, Giuseppe Campagna, Ottavio Serena, il duca di Ventignano e Luigi Coppola; e tra le poetesse, Irene Capecelatro e Ada Benini. Federico Quercia nel giornale stesso ricercò il valore dei diversi poeti.

Più geniali erano le strenne dell’Omnibus. Fu notevole quella del 1858, dal titolo La Sirena, messa insieme da Vincenzo Torelli e dai suoi figli Cesare e Achille e illustrata dai ritratti di Filippo II, Carlo V e Tommaso Grossi, e dalla riproduzione degl’Iconoclasti del Morelli e della Morte di Abele, cartone di Michele de Napoli. Una strenna pubblicò nel capo d’anno del 1857 lo Spettatore napoletano, con versi di Baldacchini, di Baffi, di Enrico Cenni, di Sabino Loffredo, di Angelo Santangelo, del Campagna e dei due Arabia; con prose del Manna e del duca Tomacelli e con delicate riduzioni, una di Goethe fatta da Federico Persico, ed una di Longfellow, da Stefano Paladini. Come si vede, gli scrittori delle strenne, così di prosa che di versi, erano sempre gli stessi.

Oltre a quelli nominati, è giusto che ricordi Emanuele Rocco, Domenico Bolognese, Giuseppe Sesto Giannini, Raffaele Colucci, Pasquale de Virgilii, Quintino Guanciali, Raffaele d’Ambra, Simone Capodieci, Carlo Massinissa Presterà, Felice Bisazza, i cui nomi si vedono più spesso ripetuti in tutte quelle infinite raccolte, che si stampavano col nome di Strenne a Capodanno e a Pasqua o, sotto altro nome, in occasione di nozze, di monacazioni di morti. Quando nell’agosto 1858 si spense a vent’anni Vincenzo Tarantini, figlio di Leopoldo, gli amici pubblicarono una raccolta di prose e versi. Leopoldo Rodinò vi scrisse pagine purissime di prosa e versi; Saverio Baldacchini, versi sciolti; Pessina e il vecchio Caccavone, dei sonetti; Niccola Sole, Amalia Francesconi, Carlo Barbieri e Felice Bisazza, delle odi; Mirabelli, dei distici; Peppino Tarantini, oggi deputato di Barletta e fratello minore del defunto, poche ottave, e un’ottava Mariannina Spada di Spinazzola, la quale, un anno dopo, si fidanzò al marchese Pasquale del Carretto, unico figliuolo del maresciallo.


[p. 137 modifica]Neppure le strenne sfuggivano agli artigli dei revisori. Fra i varii aneddoti e comici incidenti, ai quali la regia revisione dava occasione, ricordo quel che successe al Torelli nel 1853, quando pubblicò per gli associati dell’Omnibus e per il pubblico, una strenna intitolata La Sirena, dov’era la traduzione che il Tancredi aveva fatto di una Orientale spagnuola di José Zorrilla. La poesia conteneva il lamento di un signore arabo, che indarno impetrava amore da una crudele cristiana spagnuola. Il primo esemplare fu, alla vigilia di capodanno, mandato in omaggio al prefetto di polizia. Questi la lesse, ma trovando nell’Orientale espressioni a lui sembrate ambigue, come la mia catena, lo schiavo tuo, prigioniero degli occhi tuoi, angiolo della regione degli aromi, paradiso e simili, montò su tutte le furie contro il revisore e contro il Torelli e proibì la pubblicazione della strenna. Torelli ne fu sgomento. Andavano perduti gli esemplari di lusso, rilegati in velluto e in raso, per il Re, per la Regina, per i ministri e gli alti funzionarii e andava perduta la vendita agli abbonati dell’Omnibus e al pubblico. Ebbe un’idea luminosa: la poesia incriminata occupava due sole pagine d’uno stesso foglio, propose il taglio di quel foglio e la polizia vi consenti, ma volle prima in mano sua tutt’i fogli strappati, e così permise la pubblicazione.

L’esempio era contagioso. Alle strenne, che si pubblicavano nella capitale, facevano riscontro quelle più scadenti delle provincia. Se ne pubblicò una a Chieti nel 1858, dal titolo Il Salice. La mise insieme Ferdinando Santoni de Sio. Quasi tutti gli autori erano abruzzesi. Silvio Verratti, abruzzese egli pure, ne pubblicò nell’Epoca una rivista apologetica, scrivendo, con poca modestia: "Qui in Abruzzo non possono fiorire poeti voluttuosi e molli, ma si vuol porre l’arte in accordo con tutte le altre idee del tempo, con quelle della beltà morale, della famiglia, dell’amore per l’uman genere, e soprattutto con la sincera religiosità e con la filosofia„. E dei poeti abruzzesi, dopo aver ricordato un po’ fra le nuvole il Rossetti, accennò a Pasquale de Virgilii, al Madonna, al Pellicciotti, al Bruni, alla Milli e ad Emidio Cappelli, che l’anno prima aveva pubblicata la Bella di Camarda, novella abruzzese in terza rima, dedicata a Saverio Baldacchini e bellissima per purezza di forma, d’immagini e di reminiscenze dantesche. In questa strenna furono [p. 138 modifica]pubblicate lettere inedite di Pietro Giordani, del marchese di Montrone e di G. B. Niccolini a Raffaele d’Ortensio e una della Guacci a Niccola Castagna. Vi figuravano, inoltre, un carme di Paolo Emilio Imbriani, un’ode del Bisazza, un inno e un sonetto di Francesco Dall'Ongaro e componimenti di tre poetesse: Eloisa Ruta, Battistina Cenasco e Giannina Milli: le tre grazie della strenna, come le chiamò il Verrati. Di più, Francesco Auriti, poi alto magistrato e senatore, consacrava lacrimose ottave alla Malinconia; Tito Livio de Sanctis, il celebre chirurgo, un’ode piena di affetto a sua figlia morta e Leopoldo Dorrucci cantava i conforti di un’altra vita.

Anche a Campobasso si pubblicò una strenna molisana, con prose del Chiavitti, del De Lisio e di don Pasquale Albino, e versi dei poeti Buccione, Ferrone e Cerio. Ed un’altra ne fu pubblicata nel 1858 a Potenza, dal titolo La Ginestra, a cura di Michele de Carlo di Avigliano, e conteneva poesie e scritti di Niccola Sole, di Francesco Ambrosini, del Giura, del Battista e di altri.


I teatri erano aperti tutto l’anno. Avevano compagnie fisse il San Carlo e il Fondo con una dotazione di 70 000 ducati; e Adamo Alberti avea il monopolio del teatro di prosa, per mezzo del quale potè mettere insieme una discreta fortuna, alla quale purtroppo diè fondo negli ultimi anni della sua impresa, tanto diversi dai primi. E dalla sua rovina, irrisione della sorte!, non andò neppure incolume quell’ameno villino al Petraio, lieto convegno di letterati ed artisti del tempo e sul quale aveva fatta scrivere l’epigrafe "L’arte mel diede, mel conservi l’arte„.

Teneva il primo posto il San Carlo, il classico e magnifico teatro, dove con tenue spesa si assisteva a rappresentazioni di prim’ordine. Una sedia numerata in platea si pagava sei carlini, cioè lire 2,60, e nelle sere di abbonamento sospeso, quattro e anche tre carlini. Non v’erano biglietti d’ingresso. Esisteva perciò una classe così detta di smestitori, i quali assistevano allo spettacolo gratuitamente, o girando di palco in palco, o valendosi del mezzo biglietto che, alla fine del primo atto, ricevevano fuori della sala da un amico compiacente. Quest’astuzia, che era una frode bella e buona, la chiamavano scoppola e veniva particolarmente adoperata dagli studenti; nè erano rari i casi [p. 139 modifica]che, scoperta la magagna, lo studente venisse messo alla porta, senza tanti complimenti, dal famoso don Antonio Masula, un vecchio grosso e vivace che sedeva in alto presso l’entrata in platea, ed era d’un colpo d’occhio meraviglioso. Al San Carlo si rappresentò nell’autunno del 1855 la Violetta, il Lionello e il Trovatore con la Malon, Mirate e Coletti; e per la prima volta, negli ultimi giorni di luglio di quell’anno, Il Roberto di Piccardia di Meyerbeer, che ebbe buona accoglienza e fu eseguito dalla Frassini, dal Villani e dal Codini. Questo "Roberto di Piccardia„ era Roberto il Diavolo che la revisione sbattezzò, perchè la parola "diavolo„ non poteva comparire sul cartellone di un teatro; e poichè Roberto Normanno fu capo di una dinastia, la quale aveva regnato a Napoli e non poteva perciò figurare sulle scene, così gli si fece cambiar paese e divenne di Piccardia. Furoreggiava il ballo del Rota Il trionfo dell’innocenza, che era poi il Fornaretto. Si rappresentarono pure, in quell’anno, il Don Sebastiano con la Tedesco, il Graziani e il Coletti e l’Anna Bolena, nella quale esordi brillantemente la Sbrisci.

Nella stagione del 1857 l’Anna Bolena fu fischiata e tollerata l’Adelia. I Puritani vi ebbero nell’ottobre dello stesso anno esito incerto. Vi cantarono la Fioretti, il tenore Galvani, il baritono Coliva e il basso Antonucci; applauditissimo il Coliva, fischiato il Galvani. In quel mese tutti i teatri stettero chiusi per cinque giorni, essendo la Corte in lutto per la morte della principessa Maria Amalia, sorella del Re e consorte di don Sebastiano Gabriele, infante di Spagna. Morì donna Amalia il 16 ottobre a Pozzuoli di male acuto, nel palazzo del principe di Cardito, che lu acquistato poi dal conte d’Aquila suo fratello. Era la terza sorella del Re, sposatasi nel 1832, a quindici anni. Il matrimonio seguì a Napoli per procura, il 7 aprile del 1832, ed in persona ad Aranjuez, il 26 maggio dello stesso anno. Era una donna molto vigorosa nelle forme e di tipo schiettamente borbonico: buona, fu largamente rimpianta. Nel novembre suscitò fanatismo il Trovatore, con la Penco, Musiani, Coletti e la Guarducci. Verdi venne in persona a mettere in iscena la sua opera che accese aspre polemiche; o meglio le accese la Penco, perseguitata dall’Omnibua e difesa dal Nomade.

Nel luglio dello stesso anno cadde la Sonnambula per cattiva esecuzione, e nell’ottobre vi ebbe buon esito l’Elisa Fosco [p. 140 modifica]di Donizzetti, con la Medori, Fraschini e Coletti. Questa Elisa Fosco era, né più e né meno, che la "Lucrezia Borgia„ battezzata così dalla revisione, perchè casa Borgia aveva avuto due Papi. E si inventò quel "Fosco„ per poter fare il mutamento oltraggioso di lettera, ch’è nel dramma di Victor Hugo: qui si cancella nella nota scena l’iniziale del casato della protagonista; a Napoli si rabberciava in T l’F, e Fosco diventava Tosco. Sembrano cose inverosimili. Eppure fra i revisori della polizia non mancavano persone di talento, come il Rocco, Francesco Mastriani ed Ernesto Cordella. Rocco era un filologo non senza valore, e Cordella entrò nel 1860 nell’amministrazione italiana e morì caposezione al ministero di pubblica istruzione. A capo di quell’ufficio di revisione, alla dipendenza della polizia, era, come ho detto, il consigliere Maddaloni il quale si mostrava talvolta più pieghevole con gli scrittori. Gli altri si divertivano spesso a mandare gli scrittori alla Curia, per una seconda revisione dell’autorità ecclesiastica, ed allora addio roba mia, perchè il sentimento dominante in tutta quella scettica burocrazia, era di conservarsi il posto e rompere le scatole a chiunque volesse stampare qualche cosa o rappresentare qualche dramma o farsa. Per l’apertura della stagione invernale del 1858, il cronista mondano del Nomade verseggiava:

Presto a San Carlo ritorneremo,
Le antiche sedie ripiglieremo,
Mentre si stona sopra le scene,
Laggiù in platea si fischierà.

E i fischi piovvero davvero. La stagione invernale si inaugurò col Lionello, come la revisione aveva battezzato il Rigoletto, con la Fioretti, soprannominata l’Usignolo, la Guarducci, Coletti e Fraschini; ma Coletti era rauco e dal primo atto si passò al quartetto dell’ultimo, e lo spettacolo finì presto tra i più alti segni d’indignazione. Fraschini furoreggiava nelle due ballate e la Fioretti nel quartetto finale. Sorte più triste ebbe il ballo Il Ravvedimento, perchè la Tedeschi, prima ballerina, debuttò fra una tempesta di urli. Anche lo Stiffelio del Verdi, più noto sotto il nome di Aroldo, ebbe un successo men che mediocre; ma ottenne il favore del pubblico anche pel ricco allestimento scenico, la Jone del Petrella, rappresentata la prima volta nella sera [p. 141 modifica]del 9 novembre 1858. Vi cantarono divinamente la Medori, Negrini e Coletti. Riscosse grandi applausi l’a-solo per clarino, eseguito dal Sebastiani, piacque la marcia funebre e se non destò proprio entusiasmo la prima sera, il successo andò via via aumentando. Esito infelice ebbe, sulle stesse scene, nel marzo del 1859 Il saltimbanco del Pacini. Il saltimbanco fece "un salto mortale„ scriveva il Nomade e continuava:

Spargiam d'immonda cenere
E vestimenti e chiome.

E qui occorre narrare una pagina di storia teatrale, che nessuno forse più ricorda. Nella stagione del 1858 al San Carlo, si sarebbe dovuta rappresentare una nuova opera scritta appositamente da Giuseppe Verdi; ma per gli incidenti che sorsero non potè farsi e il contratto ebbe una fine talmente comica, che vai la pena di raccontare. Fin dal 1856 Vincenzo Torelli, come segretario dell’impresa dei regi teatri, invitò il Verdi a scrivere un’apposita musica per il San Carlo. Verdi rispose non poterlo fare per quell’anno e non poter accettare la cessione, che l’impresa napoletana aveva fatto della proprietà di opere scritte per lei, ad altre imprese italiane e straniere: qualora si decidesse a scrivere, e forse avrebbe scritto il Re Lear, chiedeva una compagnia di sua soddisfazione e seimila ducati di compenso. Messisi d’accordo su tutto, all’impresa che insisteva perchè accettasse la Penco per il Re Lear, Verdi, il 7 dicembre 1856, rispose da Busseto in questi termini: " Rispondo, signor Torelli, poche parole di volo alla vostra del 27 corrente per dirvi che mi è impossibile il fatto della Penco. È nelle mie abitudini di non lasciarmi imporre da nessun artista, tornasse al mondo la Malibran. Tutto l’oro del mondo non mi farebbe rinunciare a questo principio. Io ho tutta la stima del talento della Penco, ma non voglio che ella possa dirmi: signor maestro, datemi la parte della vostra opera, la voglio, ne ho il dritto„.

Si accordarono però sulla non rappresentazione del Re Lear, scegliendo invece altra opera adatta per la Penco, e il contratto venne sottoscritto nel febbraio del 1867. Fu scelto il Gustavo III di Scribe, del quale Verdi rimise il libretto, svolto completamente con tutte le scene, i dialoghi e le parlate, salvo [p. 142 modifica]le rime, perchè fosse sottoposto alla revisione. Il duca di Ventignano, deputato della sopraintendenza dei teatri, respinse il libretto, perchè non in versi e non in rime. L’impresa sperando di compor tutto, per non infastidire il maestro, non gli fece saper nulla di quest’incidente, anzi continuò a sollecitarlo, perchè finisse il lavoro e venisse a Napoli a metterlo sulle scene. E Verdi, il 14 gennaio del 1858, andò a Napoli, dove seppe che i revisori avevano rifiutata l’approvazione del libretto ed erano ostinati a non voler recedere. Dopo più di un mese però la concessero, ma con tali mutazioni, che il Verdi, indignato, non ne volle più sapere e si dichiarò sciolto dal contratto. Cosi non l’intendeva l’impresa, che citò in giudizio il maestro, affermando irragionevole il rifiuto della consegna della musica e della messa in iscena, e chiedendo danni e interessi e persino l’arresto personale di lui. Verdi non andò in prigione, ma i napoletani non udirono il Gustavo III.


Gli altri teatri erano dai critici riguardati con maggior benevolenza, forse perchè più del San Carlo si adoperavano a soddisfare i varii gusti del pubblico. Nel 1857 andò in iscena, al Fondo, la Medea del Legouvè, con la Ristori che destò fanatismo. Ebbe incredibili dimostrazioni di fiori, di sonetti e di epigrammi. La Rachel, venuta a Napoli due anni avanti, vi aveva essa pure rappresentata la Medea e Giuseppe Lazzaro, critico teatrale d’occasione, paragonò la Ristori alla Rachel, giudicando la Ristori superiore alla famigerata francese. La Ristori rappresentò pure al Fondo la Pia dei Tolomei, la Locandiera e la Fedra. Fu pubblicata una raccolta di versi e di prose in lode di lei, e vi scrissero parecchi. Saverio Baldacchini vi stampò una poesia, di cui ricordo quest’ottava, iperbolica e finamente adulatrioe:

Oh, la superba, imperial Parigi
Non l’ha con gli splendori affascinata!
Le dense nebbie del Real Tamigi
Non han la nobil sua fronte turbata.
Ella impresse per tempo i suoi vestigi
Nella città, dai secoli nomata:
Tutta, vedi, è latina, e le non molli
Aure battonla ancor de’ sette colli.

Se l’elegante e sereno poeta cantava così, immaginiamo gli altri. Credo che nessuno dei maggiori artisti ricevesse a [p. 143 modifica]Napoli lodi e onori, pari a quelli che vi raccolse la marchesa del Grillo. L’eco della sua fama giunse nelle provincie e in breve, il nome di Adelaide Ristori divenne popolare in tutto il Regno, e gli studenti, tornando a casa nelle vacanze, la portavano a cielo, oscurando la fama della Sadowscki, la quale seguitò non per tanto ad avere sempre i suoi partigiani appassionati.

Nell’agosto dello stesso anno il Fondo tornò teatro di musica. Vi cadde la Rita del Roxas ed uguale insuccesso, forse peggiore, vi ebbe nell’aprile del 1858 la Gioventù di Shakespeare, opera semiseria dei maestro Lillo.

Ebbe esito incerto il Pipelet, con la Zenoni e il Conti, e senza infamia e senza lode passò il Barbiere di Siviglia, con la Guarducci, proclamata la più simpatica delle Rosine e che sposò poi Alfonso Catalano Gonzaga, dei duchi di Cirella. Al periodo musicale successe altro periodo di prosa, e nel febbraio del 1859 si rappresentò allo stesso teatro Noemi o la figlia di Caino, tragedia spettacolosa di Domenico Bolognese, scritta per la Ristori. Ebbe un successo trionfale. Vincenzo Torelli scriveva: "un successo più clamoroso, un entusiasmo teatrale più deciso di quello prodotto da questa tragedia, non è a nostra notizia. Rompere a mezzo il gesto, la parola, un movimento le cento volte, sono prove di avvenimento più che straordinario, unico„. La Ristori era Noemi e Achille Majeroni, Caino. "Tutti vestiti di pelle, continuava il Torelli, la Ristori era una bellezza, una perfezione e Majeroni, un gigante di forme e di modi; quella l’angelo dell’amore e della pietà, questi il colosso del delitto e del rimorso„ . La figlia di Caino popolò stranamente quel teatro, d’ordinario spopolatissimo e rese quasi deserti i Fiorentini, dove si dava una Bertrada, inconcludente tragedia del Proto, il quale, smessi i furori quarantotteschi, si era dato al teatro. Gli attori della Bertrada recitavano alle sedie e ai palchi vuoti, benché vi prendessero parte la Sadowski, Bozzo e Romagnoli, e Achille Torelli cercasse difenderla con un articolo. Felice Niccolini vi fece su quest’epigramma:

Scellerato Caino! ognor crudele,
Vivo, uccidesti l'innocente Abele;
Or sulla scena apparso, appena noto,
Uccidesti Bertrada e il duca Proto.

[p. 144 modifica] E il duca, punto nel vivo, replicò:

A riacquistar la palma il duca Proto,
Or che il gusto del critico ha capito
Tragedieravvi Giuda Iscarioto.

Ma il teatro veramente di moda, dopo il San Carlo e che continuò ad esserlo anche dopo il 1860, era quello dei Fiorentini. Un teatro di prosa, come quello, Napoli non ha avuto più. Vi recitavano ed erano nella freschezza dell’età, Fanny Sadowski, divenuta l’idolo del pubblico. Achille Majeroni e Michele Bozzo, idoli anche loro: il primo dei giovani, specie quando rappresentava la parte di Saul nella celebre tragedia dell’Alfieri, e il secondo delle signorine sentimentali. E v’erano Luigi Taddei e Adamo Alberti, due artistoni di prim’ordine, massime il primo che può chiamarsi senza esagerazione il principe di tutti i caratteristi passati, presenti e futuri; i coniugi Marchionni, Luigi Monti ed Angelo Vestri. Compagnia come non se n’è più viste e affiatamento completo fra tutti. Il Taddei era un po’ poeta. In una sua lunga poesia inedita contro i fogli teatrali, scriveva:

. . . . . . . . . . . . . .
Chi non sa il traffico
Dei giornalisti?
Danno il battesimo,
Sputan sentenza,
Si eriggon giudici
Per eccellenza.
Oggi t'innalzano
Fino alle stelle,
Doman ti levano
La prima pelle.
. . . . . . . . . . . . . .

Benchè Adamo Alberti avesse, come ho detto, il monopolio del teatro di prosa e una sovvenzione di quattromila ducati; un’incredibile gretteria vi fu sempre negli allestimenti scenici e in tutto l’addobbo dei Fiorentini. La non ampia sala era illuminata ad olio e vi si respirava un’aria quasi di mistico raccoglimento. C’era un’orchestra, ma ahimè, quanto strimpellata! Però, per valore di artisti e scelta di opere, non si poteva desiderare di meglio. Una buona rappresentazione in quel teatro era considerata come un vero godimento intellettuale dalle persone colte, perchè ogni produzione di qualche valore aveva il [p. 145 modifica]suo strascico di critiche letterarie e di polemiche, che forse non si scrivono più. Erano critici teatrali, fra i più reputati, Enrico Pessina, Federico Quercia, Luigi Indelli, Vincenzo Torelli, Floriano del Zio, Vincenzo Petra e i più instancabili, Andrea Martinez e Pietro Laviano Tito. Michelangelo Tancredi fu persecutore umoristico del Majeroni in versi e in prosa. Celebre la polemica per la Saffo dell’Arabia, rappresentata nel 1857 e che fu un avvenimento letterario e teatrale. Ma quella Saffo, più che una riproduzione del personaggio convenzionale, era un lavoro con allusioni politiche, che il pubblico afferrava a volo e copriva di applausi, suscitando naturalmente le ire dei retrivi e dei pedanti. Enrico Pessina ne scrisse nell' Iride un articolo apologetico e con lui polemizzò vivacemente, nella Rondinella, Vincenzo Petra, indomabile brontolone, ma il futuro illustre professore gli scaraventò in risposta un articolo di sei colonne e lo ridusse al silenzio. Gli articoli del Pessina e del Petra furono raccolti e pubblicati in opuscolo, dal titolo La Guerra Saffica, e chi li legge oggi non può non riconoscere che il Petra, nonostante le sue pedanterie, giudicava più esatto del Pessina.

Adamo Alberti raccoglieva da ogni parte lodi e quattrini, e gli elogi eran meritati, perchè quegli anni rappresentarono una serie di successi al suo teatro. Il Proto prese la rivincita con la Gaspara Stampa, che divenne il cavallo di battaglia della Sadowski. Floriano del Zio pubblicò nella Rondinella non un articolo, ma un libro su questo lavoro del Proto perchè l’articolo occupava diciassette colonne fitte fitte, senza interlinee e si prolungò per parecchi numeri del giornale. Il romoroso duca fece anche rappresentare una sua infelice riduzione del Coriolano di Shakespeare. Fu applaudita la Cameriera astuta del Castelvecchio con la Sadowski; piacque il Cristoforo Colombo del Giacometti, ma nel novembre vi cadde una Rita di Vitaliano Prina. Nello stesso mese ebbe discreto, ma non duraturo successo, una commedia del Laviano Tito in versi martelliani, Porpora a Vienna, per cui il Caccavone disse:

Se del pubblico fa strazio infinito,
Porpora è di Nerone, e non di Tito.

E così della Maschera, altra commedia dello stesso autore, rappresentata nello stesso anno ai Fiorentini, il Caccavone, [p. 146 modifica]flagellatore di tutt’i seccatori e di tutti gl’insuccessi teatrali, esclamò:

Neron dannava a morte le persone,
Che alle commedie sue avean dormito;
Se questa era l’usanza di Nerone,
Fortuna che la "Maschera„ è di Tito.

Nel 1859 vi cadde la commedia di Gherardi del Testa: La pagheremo in due. Tra gli spettacoli di quegli anni ricorderò, fra i più fortunati, il Cavalier d’industria del Martini, la Gismonda da Mendrisio di Silvio Pellico, l’Elnava di Michele Cuciniello, e un proverbio dello stesso Laviano Tito, Dopo la pioggia il sereno. Ebbero esito fortunato la Margherita d’Orbey di Gustavo Pouncha in e la Pia dei Tolomei di Marenco, non che Il cuore tira la mente di Saverio Mattei, che vi rappresentò Ferdinando Galiani quando era segretario dell’ambasciata napoletana a Parigi. Non ebbe sorti felici la Leggerezza di Raffaele Colucci e suscitò vivaci discussioni la Medea del Ventignano, che la Sadowski volle esumare per far piacere alla haute napoletana. Le discussioni furono lunghe e vivaci, anche per la fama dell’autore. Pietro Laviano Tito e Stanislao Gatti dissertavano sulle fonti, dalle quali si attinsero i fatti della sventurata e colpevole regina della Colchide e anche sulle più famose artiste, che l’avevano a volta a volta rappresentata, la Pellanti, la Marchionni, la Ristori e la Sadowski, ricercando quale di esse aveva saputo rappresentar meglio il personaggio della protagonista, il modo come si conosceva il mondo greco e donde il Ventignano trasse il suo dramma, se lo trasse più da Eschilo che da Sofocle, e se quanto vi era di più greco e di tracio nella rappresentazione spettasse più all’autore, che all’arte della Ristori. Persino il duca Proto ne scrisse una noiosa epistola alla duchessa Teresa Ravaschieri.


Al Teatro Nuovo l’impresario Musella riapri la stagione del 1858 con la Maria de Rohan; il pubblico si annoiava a Cicco e Cola e a Ser Pomponio, ma applaudì Paolo e Virginia del maestro Aspa, l’Elmava e i Pirati spagnuoli del Petrella e una nuova musica del maestro Pappalardo, l’Atrabilare, la quale visse assai poco. La Fenice inaugurò la stagione del 1858 con la Pazza del Vesuvio di Federigo Riccio, e nello stesso tempo destava furore al San Carlino la parodia delle crinoline e [p. 147 modifica]quella del Trovatore, succeduta all’altra, esilarantissima, del Roberto di Piccardia, nonchè alle 99 disgrazie di Pulcinella e alla commedia del Marullo: Pulcinella che fa tricchetracche tanto a parte co no finto Farfariello. San Carlino e la Fenice, posti a pochi passi di distanza, si facevano una rabbiosa concorrenza, ma la palma del primato fu sempre del San Carlino. La Fenice scritturò il De Lise, che si faceva applaudire da un pubblico eteroclito. Al Sebeto si davano, annunziate da rumorosi colpi di grancassa e dal noto grido: jamme, jamme, ca mo se principia,2 tre rappresentazioni al giorno, senza che si riuscisse a sfamare la numerosa compagnia. Oltre i teatri, c’erano i circhi equestri. Nel 1858 levò rumore quello diretto dai fratelli Guillaume e un anno prima, uguale rumore aveva levato quello del Soullier.


Fiorivano i filodrammatici. Non poche famiglie signorili avevano nel proprio palazzo il teatrino, dove i dilettanti recitavano, alla presenza di amici e d’invitati, drammi, commedie e tragedie. La sera del 10 giugno 1857 si rappresentò, nel teatrino di casa Lucchesi Palli, il noto dramma Luigi Rolla. L’interpetrarono Ernesto Cassitto, Ottavio Serena, protagonista, il conte Eduardo Lucchesi, Maddalena Torelli, Massimo Consalvi, Achille Torelli, Lorenzo de Francesco e Alfonso Cassitto: “tutti egregi giovani — scriveva il Nomade — e degni veramente d’ogni lode, non solo già pel nobile fine che si hanno proposto, ma eziandio pei rapidi progressi, che sempre più essi fanno nella bellissima arte della drammatica„. Pochi mesi dopo, in casa del barone Proto Cicconi, la baronessa, la signorina Del Casale, i fratelli Bisceglie, i signori Santoro, Romeo e Pelsenet recitarono la Pia dei Tolomei del Marenco e poi Il sistema di Giorgio di Del Testa, i Due sergenti e alcune farse. Ma in quell’anno fu l’elegante teatro del conte di Siracusa, alla Riviera di Chiaia, che sali ai maggiori onori. La sera del 15 marzo 1858 vi si rappresentò, con un allestimento scenico splendidissimo, Alda, la Stella di Mantova, dramma in versi, scritto appositamente dal duca Proto e inteso a dimostrare che la vera bellezza non solo può condurre a virtù un cuore pervertito, ma comporre vecchi [p. 148 modifica]odii di parte. La duchessa Ravaschieri era Alda; Marcello Gallo, Luigi II da Gonzaga, marchese di Mantova; Cammillo Caracciolo, l’Astrologo della Certosa; Giovanni Barracco, Marcantonio Soranzo, gentiluomo veneziano; Marcello Spinelli, Liborio di San Zenone, podestà; Vincenzo Santorelli, Odorisio Maltraverso, siniscalco. Questa parte era affidata a Giovanni Barracco, ma egli la rifiutò, preferendo l’altra non odiosa dell’Astrologo che fu accettata dal Santorelli, il quale da qualche anno era divenuto marito della Fanny Sadowski. Quella rappresentazione fu un clamoroso avvenimento. Vi assistettero la Corte e la diplomazia. Erano in prima fila il Re, la Regina, il duca di Calabria, i principi, tutta l’alta nobiltà di Napoli, tutto l’olimpo delle maggiori bellezze e anche Adolfo Rothschild. La duchessa Ravaschieri era splendida, vestita di bianco, con un diadema di brillanti sul capo. Quando, alla scena quarta, ella comparve sul palcoscenico, uscendo da una stella, fu un coro di ammirazioni e di applausi. Disse stupendamente la ballata e queste prime strofe, sulle sue labbra, persero molto della loro stiracchiatura:

Odo musiche e ballate,
Che dall’uno all'altro mar,
Dell’Insubria le salvate
Genti invita a giubilar.
Il lor duce è biondo e bello
Delle vergini è l’amor,
Il suo petto e il suo castello
Sfidar ponno ogni valor.
Scese in campo, e di Milano
Già la serpe ai pie’ gli sta;
E dall’Alpi al Mantovano
La tenzone è di amistà.

E più innanzi, animandosi ancora di più, ed eccitata dalla voce della sua intima amica, la bella principessa di Camporeale che era fra le quinte e le diceva: coraggio, Teresa, ci va della patria! riportò un grande successo quando recitò, con intelligente significato, due stanze le quali hanno bisogno di una spiegazione. Nel mondo liberale e intellettuale di allora si sognava un’unione molto intima fra Napoli e il Piemonte: i due regni, uniti fra loro, avrebbero dovuto essere gli arbitri dell’Italia, liberata dai piccoli principi e indipendente dallo straniero. Di questa lega doveva esser pegno un [p. 149 modifica]matrimonio fra il duca di Calabria, che contava ventidue anni e la principessa Clotilde di Savoia, che ne contava quindici. La Stella di Mantova doveva suggerire al Re quest’idea e deciderlo ad attuarla. Alda, dunque, rivolta al marchese di Mantova, declamò queste due stanze, il cui senso, benché ascoso, era chiarissimo e muoveva la principessa di Camporeale a gridar dalle quinte: coraggio, Teresa, ci va della patria!

Ma bada: ai pargoli che vuoi felici
Madre non scegliere fra’ tuoi nemici;
Non vien di borea sui nostri campi
Soave zefiro fecondator,
Ma il torbid’euro, fra nubi e lampi,
Che li diserta nel suo furor.
E fra il tuo popolo scegli una sposa,
Che il fior d’Italia, prence, è la rosa,
Che l’aura imbalsama fiera ed umile.
La rosa simbolo di verità.
Che il verno infuri, che brilli aprile.
Giammai smentisce la sua beltà.

Un fremito scosse tutta la sala, ma il solo che si mostrasse indifferente e quasi inconscio, fu il principe ereditario, il quale durante lo spettacolo tenne quasi sempre gli occhi bassi, intento solo a stropicciarsi le ginocchia. Quei lumi, quella gente, tanta ricchezza di vita non ebbero la virtù di commuoverlo! Il Re parve contento dello spettacolo, ma quando fu finito, levandosi per andar via, disse non senza sarcasmo a voce alta: "Vi che m’ha fatto ’a duchessa stasera!3 E veramente Alda fu l’eroina dello spettacolo, al principio del quale avvenne un incidente imbarazzante. Dimenticando la presenza di Adolfo Rothschild, il Siniscalco, nella seconda scena dell’atto primo, disse al Podestà com’era scritto nel dramma:

. . . . . . . . . . . . . . . è forse
Di minor prezzo la pelle d’un cane.
Che di un giudeo la scorza? ...

Attori e pubblico si avvidero della inopportunità di questi versi, ma quando più rimedio non v’era. Rosthschild finse di non essersene accorto. Della Stella di Mantova, piena di [p. 150 modifica]sioni e dove, all’ultima scena, l’Astrologo diceva al Marchese di Mantova con enfatico accento:

. . . . . . . . . . . . più chiara
E più santa impresa oggi tu puoi,
Ad Italia dar pace. Una tenzone
Cessar, che grami ben facea suoi figli,
Ma gloriosi non mai,


il suggeritore fu Giuseppe Fiorelli, allora segretario del conte di Siracusa e che poi, direttore del museo di Napoli, associò per sempre a Pompei il nome suo e per molti anni diresse gli scavi d’antichità del Regno d’Italia. Vecchio e cieco, ritiratosi dai pubblici uffici, morì pochi anni or sono quasi dimenticato. L’Astrologo della Certosa, cioè Cammillo Caracciolo, è morto da pochi anni. Fu ministro a Pietroburgo e a Costantinopoli e prefetto di Roma: ideologo di molto e simpatica ingegno, ma non mai contento di nulla. Il gentiluomo veneziano, Giovanni Barracco, è oggi senatore del Regno e fu per molti anni deputato: la politica non più lo seduce, ma l’arte non lo invecchia. La sua preziosa collezione di marmi antichi, congiunta oramai alla storia dell’arte e che egli ha il proposito di donare allo Stato, ne eternerà il nome. È un piccolo museo quella collezione, formata con intelligenza e passione e dove tutte le grandi arti scultorie, l’egiziana e l’assira, la greca e la romana, la cipriota e l’etrusca, sono rappresentate da esemplari copiosi e interessanti. Giovanni Barracco scrive pure sonetti politici che recita agli intimi. Marcello Spinelli succedette per breve tempo al principe Gaetano Filangieri nella presidenza del Museo artistico industriale; Marcello Gallo e Vincenzo Santorelli, son morti; e Alda, rassegnata santamente ai dolori della vita, trova conforto a questi nella carità, una carità che non si esaurisce e ne santifica il nome.


Degli attori del teatrino Lucchesi Palli, Ottavio Serena è senatore e consigliere di Stato; Achille Torelli è sempre alla ricerca di quell’ideale, ch’è il tormento tenace di tanti nobili spiriti napoletani; Maddalena, sua sorella, è morta, ed Edoardo Lucchesi che sposò una Sant’Elia, fece nel 1888 alla biblioteca nazionale di Napoli un dono veramente principesco, arricchendola della sua copiosa collezione di libri e di opere musicali e [p. 151 modifica]colla dotazione di un’annua rendita di 3000 lire. Vi si contengono più di 70000 produzioni teatrali e una raccolta completa di giornali napoletani, dal 1848 al 1860, e preziosi autografi di Rossini, Bellini, Verdi, List, Wagner, Mercadante, non che una importante collezione di allegazioni scritte dai più illustri avvocati napoletani, fra le quali tutte quelle di Domenico Capitelli, raccolte in diciotto grandi volumi in folio. Occuperanno due sale, che il generoso donatore ha fatte decorare a sue spese da Ignazio Perricci e da Paolo Veltri. Larghezza che trova solo riscontro in quella, che Gaetano Filangieri fece del museo di sua famiglia alla città di Napoli, raccolto e ordinato nel palazzo Como.










Note

  1. P. Turiello, Dal 1848 al 1867, nella Rivista storica del Risorgimento italiano, diretta dal prof. Manzone. — Volume I, fascicoli 3 e 4.
  2. Andiamo, andiamo, che ora si principia.
  3. Vedi, che mi ha fatto la duchessa questa sera!