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pubblicate lettere inedite di Pietro Giordani, del marchese di Montrone e di G. B. Niccolini a Raffaele d’Ortensio e una della Guacci a Niccola Castagna. Vi figuravano, inoltre, un carme di Paolo Emilio Imbriani, un’ode del Bisazza, un inno e un sonetto di Francesco Dall'Ongaro e componimenti di tre poetesse: Eloisa Ruta, Battistina Cenasco e Giannina Milli: le tre grazie della strenna, come le chiamò il Verrati. Di più, Francesco Auriti, poi alto magistrato e senatore, consacrava lacrimose ottave alla Malinconia; Tito Livio de Sanctis, il celebre chirurgo, un’ode piena di affetto a sua figlia morta e Leopoldo Dorrucci cantava i conforti di un’altra vita.

Anche a Campobasso si pubblicò una strenna molisana, con prose del Chiavitti, del De Lisio e di don Pasquale Albino, e versi dei poeti Buccione, Ferrone e Cerio. Ed un’altra ne fu pubblicata nel 1858 a Potenza, dal titolo La Ginestra, a cura di Michele de Carlo di Avigliano, e conteneva poesie e scritti di Niccola Sole, di Francesco Ambrosini, del Giura, del Battista e di altri.


I teatri erano aperti tutto l’anno. Avevano compagnie fisse il San Carlo e il Fondo con una dotazione di 70 000 ducati; e Adamo Alberti avea il monopolio del teatro di prosa, per mezzo del quale potè mettere insieme una discreta fortuna, alla quale purtroppo diè fondo negli ultimi anni della sua impresa, tanto diversi dai primi. E dalla sua rovina, irrisione della sorte!, non andò neppure incolume quell’ameno villino al Petraio, lieto convegno di letterati ed artisti del tempo e sul quale aveva fatta scrivere l’epigrafe "L’arte mel diede, mel conservi l’arte„.

Teneva il primo posto il San Carlo, il classico e magnifico teatro, dove con tenue spesa si assisteva a rappresentazioni di prim’ordine. Una sedia numerata in platea si pagava sei carlini, cioè lire 2,60, e nelle sere di abbonamento sospeso, quattro e anche tre carlini. Non v’erano biglietti d’ingresso. Esisteva perciò una classe così detta di smestitori, i quali assistevano allo spettacolo gratuitamente, o girando di palco in palco, o valendosi del mezzo biglietto che, alla fine del primo atto, ricevevano fuori della sala da un amico compiacente. Quest’astuzia, che era una frode bella e buona, la chiamavano scoppola e veniva particolarmente adoperata dagli studenti; nè erano rari i casi