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per questo egli non aveva accettato di entrare nel consiglio di amministrazione della «Nuova Esperia». Si poteva fargliene un carico? No davvero; bisognava anzi lodare la sua prudenza. Il signor Demetrio, per verità, non intendeva che si rifiutasse l’occasione di piccoli guadagni, specie trattandosi d’un titolo che pareva tanto sicuro, appoggiato dal credito di amministratori come il principe Andolfi e il banchiere Spitzbolzen: ma egli, in fin dei conti, non capiva niente di banche, di assunzioni di lavori pubblici e di oscillazioni di titoli industriali: chinò la testa alle sottigliezze del suo nobilissimo genero, ed approvò tutto con due mani.
— Auguro bene; — conchiudeva egli; — auguro bene. Voi altri che siete nei grandi affari ne sapete più di me, povero negoziante al minuto. Ieri sera, per esempio, quel tuo principe, colla sua teoria del meccanismo del credito, mi ha gonfiata la testa, me l'ha fatta diventar grossa come un pallone. —
Il conte Attilio era sempre con banchieri e pezzi grossi; ed anche più ci stava, essendo a Roma il signor Demetrio, a cui bisognava lasciare il conforto di godersi la compagnia della sua cara figliuola. La contessa, s’indovina, dava al suo babbo tutte le ore libere della giornata; lo voleva con sè intorno alla culla del piccolo Lamberto, o accanto alla rustica Giunone di Lanuvio che gli dava la poppa, promettendo, col sodo rigoglio delle forme potenti, di farne un piccolo corazziere. Quando non aveva da badare al rampollo, Fulvia accompagnava il babbo a passeggio, facendogli far sempre qualche scarrozzata nei dintorni di Roma. Non amava portarlo in giro per le vie della città, dove bisognava stare in contegno come idoli antichi; lo conduceva fuori, a vedere illustri rovine e storici luoghi, che lo facevano restare a bocca aperta; non già per maraviglia, ma per non sapere di che cosa dovesse maravigliarsi. Egli non era un dotto; una rovina, per lui, non era che una rovina, e un luogo storico valeva spesso meno di un luogo senza