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Virginio doveva occuparsi di tutto, dar consigli e buone parole a tutti. Aveva bisogno di conforti per sè, e gli cascavano gli altri sulle braccia. Per allora, gli toccava di consolare il signor Demetrio della sua solitudine ed anche della ingratitudine dei suoi figliuoli. Perchè infatti era un tratto d’ingratitudine bella e buona, non voler venire per un paio di giorni a Mercurano, al nido, alla terra natale di Fulvia. Che potere aveva la contessa di San Cesario sull’anima del marito, se non riusciva a persuadergli la necessità di quel viaggio? E che cosa pensava, che cosa sentiva ella stessa se non provava il bisogno di usare di tutta la sua autorità per muovere il marito? O forse non era da sospettare che pensasse e sentisse anche lei come quell’uomo, e che il Bottegone la facesse arrossire? Virginio non aveva più da domandar queste cose a sè stesso; la verità gli si era affacciata alla mente da un pezzo. Ed egli, frattanto, che intendeva la ragione del fatto, egli doveva col signor Demetrio ritrovare argomenti per giustificarlo, per farlo parere la cosa più innocente, più naturale del mondo.

Consolava adunque come poteva quel povero padre, lasciato così lungamente solo dalla sua cara figliuola. E presto ebbe da consolare qualchedun altro, a cui era morta la serva. Sicuro, la serva, o serva padrona; la signora Placidia, ve ne ricordate? quella bofficiona, che aveva mandato via un povero orfano dalla casa del suo unico parente? Sì, costei per l’appunto, soffocata dall’idrope, aveva resa la sua bell’anima a Dio.

Don Virginio Lorini l’aveva assistita con evangelico amore; le aveva amministrati tutti i sacramenti con quella forza d’animo maravigliosa che viene probabilmente dal costante esercizio di un sacro ministero. Ma si è uomini finalmente, non [p. 131 modifica] eroi, nè filosofi greci; e il signor arciprete di Bercignasco non era un eroe nè un filosofo di quella nazione fortissima. Sopportò anche quella perdita, che aveva il guaio di venirgli così a contrattempo. Oramai si era assuefatto a quella donna di governo, che faceva tre passi sopra un mattone, che dieci volte al giorno gli esercitava la pazienza, meglio che non avrebbe fatto un sacco di nerbate, ma che dopo tutto possedeva la inestimabil virtù di tenergli casa pulita e lucente come uno specchio, e l’altra, non meno preziosa nelle grandi occasioni, di preparare un budino, variandolo sempre da una sostanza all’altra, dal dolce al brusco, di semolino, di riso, di patate, alla inglese, alla francese, destando ogni volta le maraviglie dei suoi religiosi commensali.

Triste cosa, la solitudine, a tutti e in ogni caso; ma più tristo nel caso di don Virginio Lorini. Non sentì egli a tutta prima quanto avesse perduto; ma non indugiò neanche molto ad esserne persuaso. Aveva preso un’altra donna di governo, sinodale e già pratica dell’ufficio, poichè era stata due anni col prevosto di Pannocchiara. Era una grande armeggiona; pareva il finimondo; metteva le mani da per tutto, e non concludeva mai nulla. In sala, nello studio del signor arciprete, niente si trovava al posto suo, e su tutti i mobili c’era sempre un dito di polvere. In cucina la confusione regnava sovrana; il fuoco si accendeva sempre troppo tardi; il desinare e la cena non erano mai all’ordine; l’arrosto sapeva troppo spesso di bruciato; la minestra non sapeva per contro di nulla.

— Santa Pazienza, voi me l’avete mandata in pena dei miei peccati, non è vero? Santa Pace benedetta, non ne posso più, non ne posso più! — esclamava il povero don Virginio, mandando interamente a quel paese la sua nuova padrona.

Quando proprio non ne potè più, prese il cappello a tre punte, e il suo ombrellone di seta verde dalle lunghe stecche di balena, annunziando che andava a Mercurano e non sarebbe ritornato fino al giorno seguente. Calato a Mercurano, [p. 132 modifica] andò a piangere la sua sventura in seno al suo collega di San Zenone, ma più assai in quello del suo nipote Virginio.

Quanto tempo era che non lo vedeva più, il suo caro nipote! Alla sfuggita, sì, una volta all’anno, in occasione delle feste solenni di Mercurano, quando il signor arciprete di Bercignasco calava laggiù come tanti altri colleghi dei paesi circonvicini, per dare una mano all’arciprete di San Zenone, che nell’alta sua dignità di vicario foraneo era un po’ il superiore di tutti. Ma se don Virginio Lorini calava a Mercurano e si faceva veder sulla piazza, non era altrimenti necessario che entrasse al Bottegone. Qualche volta, vedendo il nipote e il signor Demetrio sull’uscio, si fermava a chiacchierare per qualche minuto; qualche volta si combinavano per via; qualche altra, non vedendosi, non si cercavano neanche. Erano come due amici d’antica data, che, senza perdersi addirittura di vista l’un l’altro, hanno mutato di consuetudini; si salutano, quando si vedono da lontano, e magari si sorrìdono a vicenda, ma non sentono il bisogno di parlarsi; e quando pure il caso li ravvicina, non hanno niente da dirsi. Sono allora vani discorsi, superficiali notizie, della salute, dell’annata, dei gran freddi che han fatto oltre il termine, dei bachi che non hanno potuto lavorare a tempo, del fieno di primo taglio ch’è andato a male, e simili altre scioccherie, nelle quali non mette importanza chi le dice, nè attenzione chi le sta ad ascoltare.

I discorsi di don Virginio zio e di Virginio nipote erano anche più vani. — E così? — Bene grazie al cielo, e voi? — Mai di peggio; abbiamo sbarcato quest’altro. — Così sbarcheremo gli altri che verranno. E buon giorno signoria. —

Virginio nipote era sempre in queste conversazioni il più premuroso, il più gentile dei due; un po’ per indole, molto per riflessione, avendo anche più merito a mostrarsi cortese. Non gli era mai avvenuto di fare un atto men che rispettoso ed amorevole allo zio, neanche nei primi anni della sua cacciata dalla canonica, quando [p. 133 modifica] era più fresca la ferita e poteva sentirsi più acerba. In un solo particolare non era così buono, il giovane Virginio: se ne doleva dentro di sè, ma non poteva fare altrimenti. Domandava allo zio notizie di Bercignasco, del sagrestano, del messo comunale, del barbiere, del pastaio, del fittaiuolo, perfino della stalla e del pollaio; ma non proferiva mai il nome della signora Placidia. Quella bofficiona per lui era già morta da un pezzo; anzi meglio, non era mai nata.

Eppure una volta, tant’anni dopo averlo fatto andar via di casa, la bofficiona aveva sentito il desiderio di scendere a Mercurano, per vedere il commesso, il segretario, il factotum del signor Demetrio Bertòla. Aveva colto il pretesto della gran festa di San Zenone e del panegirico che si diceva affidato ad un predicatore coi fiocchi. Era un frate olivetano di Piacenza, e correva la voce per tutta la regione che fosse la prima penna del convento; ma qualche maligno sosteneva non fosse neanche il primo calamaio. Comunque, se ne faceva un gran discorrere, e la signora Placidia aveva mostrato curiosità di sentirlo. Perciò era capitata a Mercurano, in una vettura stangata dov’erano pigiati come le aringhe nel bariglione, lei, l'arciprete, il sindaco, il segretario ed il conciliatore, le autorità maggiori di Bercignasco; quelle che avevano più voce in paese, salvi, s’intende, i diritti del campanaio.

Virginio aveva veduta la carrozza da lontano e riconosciuta alla sua gran mole carnosa e bianchiccia la serva sinodale dello zio arciprete. La carrozza era venuta a fermarsi poco distante dal Bottegone; novità da mettere in pensiero, minaccia da mettere in guardia. Virginio non istette a meditarci su; prese il cappello, girò dalla cartoleria, e infilò l’ultimo uscio del Bottegone, sul corso Garibaldi.

— Vado e torno; — disse in fretta alla signorina Maddalena, che stava al banco della cartoleria. — Se il signor Demetrio domanda di me, ditegli che sono andato alla Castigliona, per quel discorso che sa, col caciaio. — [p. 134 modifica]

La Castigliona era una possessione del signor Bertòla, distante forse mezz’ora di cammino, dalla parte dei monti. «Vado e ritorno» aveva detto Virginio; ma si capiva che tra mezz’ora per andare, mezza per ritornare, e un’ora o due per restare a discorrere di affari col caciaio, poi fors’anche col fittaiuolo, avrebbe consumata una parte del giorno. Il signor Demetrio si maravigliò molto, quando seppe che il suo segretario era andato laggiù, e in un giorno come quello, di festa solenne, che il caciaio stesso e probabilmente anche il fittaiuolo sarebbero venuti a Mercurano. Ma non diede importanza alla cosa; pensò invece che un’occhiata al podere non fosse inutile, data con piena libertà, mentre erano lontane le persone più interessate a nascondere il vero.

— Avrà anche fatta una passeggiata; — conchiuse mentalmente il signor Demetrio. — Poveraccio! non si muove mai dal Bottegone. Quanto al panegirico, se lo farà raccontare, come farò io certamente. —

La signora Placidia era proprio scesa di carrozza coll’idea di dare una capatina al Bottegone. Si stava per chiudere, essendo vicina l’ora della funzione in chiesa: si tenne aperto ancora un quarto d’ora per lei, che voleva fare certe piccole spese. Non aveva chiesto del signor Virginio, no davvero; ne chiedeva in sua vece lo zio arciprete, ma così per accademia, senza un deliberato proposito di vedere il nipote. Il nipote era andato per affari alla Castigliona; segno che stava bene; lo salutassero per lui, e non occorreva più altro. La signora Placidia aveva fatte le sue compre; aveva salutato; le avevano spalancato i due battenti dell’invetriata, per lasciarla passare più comodamente che non fosse entrata; e così la sua curiosità insoddisfatta se n’era andata a prendere conforto in una tazza di cioccolata alla canonica di San Zenone, dove un’altra serva sinodale, magra, rugosa e nera come un fico secco, le aveva fatto di gran complimenti sul suo florido aspetto, dichiarandola il vero ritratto della salute. Tre o quattr’ore dopo, finita [p. 135 modifica] la gran funzione di chiesa, la siguora Placidia, rimontata sul cocchio trionfale, riprendeva la via di Bercignasco, e «buon giorno signoria» anche per lei.

Così aveva cansata Virginio la noia; così poteva seguitare ad ignorare l'esistenza della signora Placidia. Quando seppe che quella bofficiona era morta, si commosse tuttavia un pochino. Il male altrui fa pena a tutte le anime ben nate. Ma egli non si dolse tanto per la morte di lei, che infine se ne era partita dal mondo conciliata con Dio e sicuramente pentita di qualche durezza di cuore. Se ne dolse più per lo zio, che aveva fatta l’abitudine a vivere con quella donna in casa, e che era costretto a cangiar d’abitudine in un cattivo periodo della sua vita, essendo già avanti negli anni. Gli si mostrò dolentissimo, quando lo ebbe là, nel salottino del Bottegone, e lo sentì lagnarsi tanto compassionevolmente della triste vita che faceva, con un’altra persona di servizio, grande armeggiona, buona a nulla, e solo capace di mandargli la casa in rovina.

— Ah, ti assicuro, figliuol mio, che non ne posso più; — diceva il vecchio arciprete, torcendo i muscoli del viso e spremendo perfino una lagrima dagli occhi. — Quella povera casa è troppo sola, dopo che è morta quella santa donna. Aveva i suoi difetti, ne convengo; ma chi non ne ha? Solo i santi: ma i santi sono in cielo, dove certamente l’hanno accolta, quella poveretta, che nei suoi ultimi momenti ha tanto sofferto. La casa è sola, Virginio, sola, troppo sola.

— Capisco; — rispose Virginio, non intendendo bene dove volesse andare a parare lo zio. — Ma, se la persona di servizio che avete presa non va, non dovete disperarvene: se ne può trovare un’altra più adatta. Se volete, cercheremo anche qui.

— Ah, non è questo, non è questo che fa al caso mio; — gemeva lo zio. — Senti, Virginio, ragazzo mio, figlioccio mio, vorrei dirti una cosa.... una cosa che sto meditando da un pezzo.... [p. 136 modifica] Ci pensavo anche prima che morisse quella santa donna di Placidia. Perchè non verresti tu a Bercignasco? Ci son tante cose da fare; tante cose da vedere, alle quali non posso più accudir io! Sai pure, quel poco che possiedo è tuo; sei il mio unico parente.... figliuolo del mio povero fratello, e porti anche il mio nome. —

Virginio fremette, a quell’idea dello zio, che gli giungeva così nuova. Si aggrappò per disperato alle ultime parole di lui, non rispondendo che a quelle.

— Non parliamo di ciò, ve ne prego; — diss’egli. — Quel che possedete è vostro, e sarà vostro per molti anni ancora.

— Non tanti, ragazzo, non tanti. Son vecchio, oramai, molto vecchio.

— Eh via! Vecchio è chi muore. Così robusto e arzillo come siete, potete vivere ancora mezzo secolo. Ma sì, caro zio; non l’avete letto il «Corriere» di domenica scorsa? C’è la notizia di un tale che è morto a cento diciassette anni, e solo per effetto d’indigestione.

— Dove?

— Nell’America settentrionale, nello stato dell'Illinois.

— Già; — osservò don Virginio, non potendo trattenersi dal ridere. — Tutte dall’America, ci vengono quelle belle notizie. Qui si campa un po’ meno; ed io, ad ogni modo, non ispero di vivere tanto, e non lo chiedo. Alla mia ora me ne andrò rassegnato. Ma ti confesso che non vorrei morir così solo.

— Perchè non venite a vivere a Mercurano? — gli chiese Virginio.

— A Mercurano! io? e la parrocchia?

— La parrocchia vivrà certamente più di voi, e speriamo fino alla consumazione dei secoli. Non potete lasciarla, per avere un po’ di pace? un po’ di pace, che avete ben guadagnato, con tanti anni di cure e di strapazzi? Anche il soldato incanutito nelle armi ottiene e si gode la sua pensione di riposo. Venendo voi qui, potrò tenervi compagnia, se valgo qualche cosa per voi. [p. 137 modifica]

— E non potresti venir tu a Bercignasco? Ti ripeto la domanda, alla quale non hai ancora risposto.

— E mi pesa molto rispondere; — disse Virginio. — Ma voi siete buono, caro zio, voi avete senno e pratica di mondo, e intenderete le cose, vi vorrete penetrar bene del caso mio. Come potrei lasciare il signor Bertòla, che m’ha preso ragazzo in casa sua, che mi ha nutrito, che mi ha dato modo d’istruirmi, che mi ha insegnato per così dire il mestier suo, che mi ha assuefatto ad essere il suo braccio destro, fino al punto che si è disavvezzato lui dagli affari, per lasciarne a me tutto il carico? Siamo proprio a questo, mio caro zio; il signor Demetrio non fa più nulla, fidandosi in tutto e per tutto di me. Ed oggi, proprio oggi che egli ha bisogno di riposare tra due guanciali, io lo abbandonerei? Io pianterei lì il mio benefattore, obbligandolo a ripigliare tutte le fila ormai dimenticate del suo esteso commercio? a torturarsi il cervello? a rovinarsi la salute? Che gratitudine sarebbe la mia? Spero bene che mi approverete, quando io vi avrò detto che dal Bottegone io non potrò allontanarmi mai, fino a tanto ch’io meriterò la fiducia del mio principale. Mi tenesse egli pure per un servitore, e non per un figlio suo, come fa, e fossi io ricco a milioni, vi giuro che non vorrei andarmene di qui, dove sento di potergli pagare in qualche utile servizio una parte del mio debito di riconoscenza, di riconoscenza indelebile, eterna. —

Erano molte parole, e forse più che non ne bisognassero: Ma Virginio le diceva volentieri. Gli venivano bene alle labbra, sgorgando direttamente dal cuore. E le prendesse lo zio come voleva: era finalmente necessario che una volta tanto si sentisse dire che chi fa bene deve aver bene, e chi ha fatto male non deve sperare di togliere ad un altro le sue giuste ricompense.

Lo zio prete la intese pel suo verso. Mentre il nipote parlava con tanta animazione, avrebbe avuto più d’una occasione di farsi rosso; ma alla sua età, con tante rughe e tanta abbronzatura di pelle, non era più il caso. [p. 138 modifica]

— Capisco.... capisco.... — balbettò egli. — Tu hai ragione, troppa ragione, e Dio ti benedirà. Fors’anche hai ragione a consigliarmi di lasciar la parrocchia.

— Ah, ecco! — gridò Virginio, con accento e aria di trionfo. — Ho dunque gittata la semente in un buon terreno, come vuol la parabola? Pensateci, caro zio, e più presto farete, più mi darete consolazione. Calate a Mercurano; il paese non è nuovo per voi; l’aria non è diversa da quella di Bercignasco; vi troverete come lassù, nella vostra canonica, vicino sempre abbastanza ai vostri poderi, ai vostri interessi; ed anche vicino al vostro figlioccio, sempre disposto a darvi tutto il tempo che potrà. Siamo dunque intesi, a Mercurano?

— Ci penserò; benedetto ragazzo!... ci penserò. —

La cosa non era di poco momento, e don Virginio Lorini ci pensò lungamente. Almeno, così parve che dovesse fare, poichè passarono settimane e mesi, senza che il signor arciprete di Bercignasco si facesse vivo col nipote.

Sopraggiunse l’inverno, e fu rigido; la primavera fu anche più lunga a venire. Virginio avrebbe voluto fare una visita a Bercignasco, ma fu costretto a contentarsi di scrivere qualche lettera. Era solo al Bottegone; il signor Deetrio aveva dovuto partire per Roma, chiamato dalla notizia di una gran gioia in casa Spilamberti. «Quod erat in fatis», la famiglia s’era accresciuta; «quod erat in votis», il neonato era un maschio. Ma, quantunque il signor Demetrio lo tenesse al fonte battesimale, il bambino non portò primo tra i suoi nomi quello del nonno materno; bensì quello di Lamberto, che era stato il nome del nonno paterno, e che a generazioni alternate tutti gli Spilamberti portavano, da cinquecent’anni a dir poco.

Quanta gloria in quella nobil casata! Un Lamberto Spilamberti occorreva primo in autentici documenti; era stato un gran legista intorno al Trecento, ed onorato di pubblici uffizi nella sua [p. 139 modifica] Modena. Ma le tradizioni della famiglia risalivano più su, quattrocent’anni più su, per collegare il primo rampollo, il capostipite della casata, al figliuolo di Guido di Spoleto, a quel valoroso ed amabil principe Lamberto, che, associato al padre nell’impero e fatto re d’Italia, era morto a caccia nel bosco di Marengo, cadendo da cavallo, nell’anno 898.

La filiazione non si poteva veramente derivare da quella illustre origine, se non per mezzo di una piccola macchia nel blasone. Viveva, sempre secondo la tradizione, viveva poco dopo il 900 uno «Spurius Lamberti», ritenuto da tutti figlio illegittimo di Lamberto; e infatti, perchè si sarebbe detto «Spurio», se non si fosse trattato di un padre di alto grado, di condizione regale? Così assicurata la filiazione, era facile ammettere che lo «Spurius Lamberti» si fosse scorciato nel nome di Spilamberti, rimasto ai figliuoli di lui e per essi tramandato alle generazioni seguenti. La nobile origine avrebbe potuto essere più regolare; ma infine il bastardume, trattandosi di stirpi così alte, non era mai stato disonorevole nel Medio Evo, e neanche più giù. Gli Spilamberti, a buon conto, se ne vantavano, mostrando volentieri le vecchie carte del Seicento, che facevano menzione della cosa, riferendoisi naturalmente a carte più antiche.

E la continuazione di tanta gloria era affidata al sangue dei Bertòla. Arcane preparazioni del destino! Non era anche da vedere un arcano consiglio, una affinità misteriosa, in quel «berto» che ricorreva nel nome degli Spilamberti come in quello dei Bertòla? Se n’era discorso qualche volta, come di una fortunata combinazione, innanzi che si facessero le nozze; e il conte Attilio se n’era compiaciuto molto col suo futuro suocero, il quale ne aveva provato una gioia non piccola. Se fosse stato un tacchino, certamente avrebbe fatto la ruota.

Peccato che nella occasione del battesimo non si facesse una gran pompa, come il signor Demetrio avrebbe voluto. Quando si è in ballo [p. 140 modifica] bisogna ballare, diceva lui; ma invano. Il suo signor genero, che aveva tanta boria in capo ed ostentava tanto i suoi titoli, in certe cose non amava far chiassi. Pure, la nascita d’un figliuolo, del primogenito, dell’erede del trono.... Ma no, il conte Attilio non voleva saperne, e la contessa Fulvia gli dava ragione, dicendo che le pompe del battesimo non erano di moda, non si usavano più che da semplici e grossi borghesi.

— Facciamo dunque le cose da gran signori; — aveva conchiuso il signor Demetrio, rassegnandosi ad un battesimo senza chiassi, alla sordina, quasi di soppiatto, come se si fosse trattato di un altro.

Per compenso, quasi per consolazione di quel piccolo dispiacere, il signor Demetrio era trattenuto a Roma dalla sua Fulvia, più a lungo che non avesse disegnato di rimanerci. Quella cara figliuola non sapeva spiccarsi da lui. E il signor Demetrio scriveva a Virginio, pregandolo di aver pazienza, se ancora per un po’ di tempo gli lasciava sulle spalle tutto il carico degli affari. Inutile preghiera; per quello che il signor Demetrio faceva al Bottegone, avrebbe potuto restare a Roma fino all’occasione di un secondo battesimo.

Virginio era dunque solo a Mercurano, col carico di tutti gli affari sulle spalle, quando gli capitò d’improvviso al Bottegone un pezzo grosso di Bercignasco; il campanaio, niente di meno. Veniva in gran fretta, con una grande ansietà dipinta sulla faccia. Se il signor Virginio voleva vedere ancora una volta lo zio arciprete, doveva accorrer subito subito. Non c’era tempo da perdere; il povero vecchio, già cagionevole di salute, colto da un male improvviso che lì per lì era stato gabellato per una semplice infreddatura, ma che avevano riconosciuto poi per un filosofo greco (il nome almeno era greco, come in tanti altri malanni della povera creta umana) si era improvvisamente aggravato, non aveva più che un filo di vita.

Il triste annunzio colpì dolorosamente [p. 141 modifica] Virginio. Si trattava del suo unico parente, del fratello di suo padre; e molte ragioni di giusto risentimento, se pure a queste cose avesse potuto aprirsi mai l’animo di Virginio, dovevano essere dimenticate. Non pose tempo in mezzo; lasciò ordini, esortazioni, raccomandazioni caldissime a tutti i commessi del Bottegone, e montò in calesse per correre a Bercignasco.

Quando giunse lassù, trovò il vecchio zio moribondo. Il curato usciva allora dalla camera, dopo avergli ministrato l’olio santo. Non c’era più speranza, oramai; il medico condotto del paese non abbandonava quasi più il capezzale dell’infermo, volendo mostrargli tutta la sua sollecitudine; ma non ordinava più nulla. La faccia ippocratica, il respiro affannoso, il rantolo dell’agonia, dicevano apertamente a Virginio che egli era arrivato proprio a tempo per raccogliere l’ultimo soffio di vita del suo vecchio parente.

Pure, al vedere il nipote, l’infermo si rianimò un poco, e rispose al suo saluto, con un cenno degli occhi. Voleva parlare; e il medico lo aiutò con una mezza cucchiaiata di pozione cordiale, che gli diede un istante di vigoria.

— Avrei fatto meglio a darti retta; — mormorò l’infermo, con un filo di voce. — Sia fatta la volontà del Signore. Là, nello stipo, il mio testamento. Le chiavi.... qui, nel comodino. Perdonami, se t’ho trattato un po’ male. —

Parlava a stento, e un’altra cucchiaiata di liquore era stata necessaria, perchè egli potesse fare un così lungo discorso.

— Caro zio! — disse Virginio, chinandosi amorevolmente su lui e baciandolo divotamente sulle guance scarne. — Non mi dite di queste cose. Tutto ciò che avete fatto è bene, o sarà stato, o sarà a fin di bene. Ora non vi affaticate, vi prego; intendo ogni vostro pensiero. Parleremo poi, quando avrete più forza. Speriamo infatti che le cose volgano al meglio. Certamente; — soggiunse, rispondendo ad un gesto di diniego che l’infermo gli faceva col capo; — non credete voi che Iddio possa tutto? Se a lui piace, [p. 142 modifica] ritornerete sano e forte come prima. Calma, adunque, mi raccomando; e sappiate che io non mi muoverò più di qui. —

Gli occhi del morente risposero con un lampo di gioia a quella buona promessa; e la sua mano strinse quella di Virginio in attestato di riconoscenza.

Il vecchio arciprete di Bercignasco durò ancora tutta la notte, in uno stato di assopimento, interrotto a quando a quando da riprese di rantolo. Il curato, Virginio, il sagrestano, i fabbriceri della chiesa lo vegliavano a gara. Di tanto in tanto giungevano parrocchiani a chieder notizie, e si univano a loro nella preghiera, bisbigliata con gran fervore intorno a quel letto di morte.

Don Virginio Lorini non era un’aquila, e neanche una colomba. Predicava male; trattava duramente il suo gregge, ed era per giunta un po’ avaro. Ma non era cattivo di fondo; e i suoi rustici parrocchiani, che lo vedevano fatto a loro immagine e somiglianza, potevano credere sincerità la ruvidezza dei modi, spirito di savia economia l’avarizia. C’è poi un’ora della vita che i difetti di un uomo si volgono più facilmente in qualità; ed è per l’appunto l’ora fatale del transito, nella quale, compassionando il proprio simile, ognuno pensa involontariamente a sè stesso.

Così in una ripresa di affetto ebbe facile perdono il vecchio arciprete di Bercignasco; e al perdono doveva seguire ben presto il rimpianto, l’esaltazione delle sue modeste, oscure, ma vere ed innegabili virtù. Era l’alba, quando la sua scarsa fiammella di vita diede l’ultimo guizzo. Uno sforzo di tosse sollevò il petto del moribondo, che in quello sforzo si spense.

Quella mattina, Virginio non ebbe modo di scendere a Mercurano; tante erano le faccende a cui doveva provvedere. Fu aperto il testamento. Virginio era nominato erede universale, senz’altra gravezza fuorchè di qualche legato. L’arciprete di Bercignasco aveva fatto nobilmente la cose: [p. 143 modifica] lasciava ventimila lire all’asilo d’infanzia e cinquemila all’ospedale. L’asilo serviva a tutto il paese, l’ospedale, tenuto fin allora in una casupola, non si poteva neanche dire aperto, perchè i poveri del paese quando cadevano ammalati, non ci volevano andare. Si ritrovò adunque che così quella distribuzione proporzionale di beneficenza tra i due istituti, don Virginio Lorini aveva disposte egregiamente le cose; e tutti benedissero la sua memoria, levarono a cielo la sua generosità. Per questo, adunque, egli era stato in vita così tirchio, che salvo in chiesa, per il suo ministero, non avrebbe dato un Cristo a baciare. Il grosso legato alle opere pie, che tutti potevano approfittarne e per sempre, valeva assai meglio dei quattro soldi dati in elemosina, spesso a falsi bisognosi, e perciò indubbiamente sprecati.

Venticinque mila lire di legati facevano argomentare un asse cospicuo, lasciato in eredità al giovane Virginio Lorini. L’arciprete di Mercurano era in fama di uomo denaroso; si parlava di cedole che portava ogni anno alla tesoreria provinciale di Parma, per sette e più mila lire; ma non si era ben certi. Don Virginio, a chi gli toccava quel tasto, soleva rispondere col vecchio proverbio: «denari e santità, metà della metà». Ma le terre non si potevano nascondere come le cartelle di rendita al portatore: e le terre di don Virginio, stimate ad occhio da quei valenti periti che sono tutti gli uomini di campagna, andavano più presso alle centocinquantamila che non istessero vicine alle centomila lire. Come aveva egli potuto diventare così ricco? Di casa sua certamente aveva ereditato abbastanza, e ci aveva aggiunta a mano a mano la parte del fratello: il notaio, quel disgraziato finito così male per la sua sregolatezza. Ma tra la parte sua e quella del notaio ch’egli aveva potuto ricomprare a pezzi e bocconi coi proventi stessi del suo benefizio ecclesiastico, non si doveva andare molto più su delle centomila lire. Donde egli aveva cavato il resto? Ecco, del resto si sapeva poco; e poteva esser poco, come poteva esser molto. [p. 144 modifica] Comunque fosse, bisognava mettere in conto cinquantanove anni di mensa parrocchiale, tranquillamente goduta; una mensa abbastanza lauta, ch’egli aveva saputo far fruttare largamente, spendendo sempre così poco per sè. Buon governo di stabili, risparmio di tutti i giorni e lunga vita, portavano spiegazione e giustificazione di tutto.

Il giovane Virginio non aveva mai dato molta importanza al denaro, nè mai fatto assegnamento sulla eredità dello zio, al quale sinceramente egli augurava cent’anni di vita. Ma poichè questi fu morto, ed egli ebbe preso cognizione di quel testamento che lo faceva unico erede d’una vistosa sostanza, non potè trattenersi dal pensare che se il suo povero zio avesse pagato un anno prima il suo debito alla madre natura, egli, il povero segretario del Bottegone, si sarebbe trovato in ben altra condizione di spirito per accogliere una certa proposta del signor Demetrio Bertòla. E sospirò; ma anche subito si pentì di un moto involontario dell’animo, che era così poco conforme al suo modo di sentire.

Il signor Demetrio ritornò, quindici o venti giorni dopo, dalla sua impresa battesimale di Roma. Laggiù aveva avuto notizia del mortorio di Bercignasco; e fu quello per l’appunto che lo persuase ad abbreviare i termini del suo soggiorno nella eterna città. Anch’egli spese la sua parolina di rimpianto per la memoria del vecchio arciprete, e poi si rallegrò con Virginio della manna che gli era piovuta dal cielo.

— Ora sei ricco; — gli disse; — e penserai a lasciarmi qui solo, come Olimpia sullo scoglio.

— Io! — esclamò Virginio. — Che pensieri son questi? Mi credete un ingrato? e potete immaginare che un po’ di fortuna mi faccia impazzire? Capitata poi quando meno ne sentivo il bisogno! Che cos’è questo denaro? Io l’ho sempre stimato per quello che vale; poco per sè, niente per noi, se non serve ad assicurare la nostra felicità. Vedete, signor Demetrio? parlo come un libro stampato; — soggiunse Virginio, con un malinconico [p. 145 modifica] sorriso. — Ma son cose che restano sempre stampate nell’anima, quando rispondono ai nostri sentimenti più intimi. Del resto, ritorno a dirvelo; niente potrebbe mutare la condizione mia rispetto a voi, che mi avete accolto orfano e povero, che mi avete nutrito, che mi avete educato, per darmi poi tutta la vostra confidenza, per essermi amico, fratello e padre. —

Qui sospirò anche il signor Demetrio Bertòla.

— Ahi — esclamò egli, dopo aver sospirato. — Così fossi diventato davvero un padre per te! Ma il destino non l'ha voluto; o non l’ha voluto il diavolo, che soffia le ambizioni in testa alle donne. —

Virginio si turbò forte all’accenno; ma non disse parola in risposta.

Pure, il desiderio di parlare lo aveva. Che cosa dite, signor Demetrio? Era dunque vero? Voi avevate messo avanti il mio nome? E la signorina Fulvia non ha voluto saperne? Sono stato ricusato da lei? Perchè non dirle almeno che io non vi avevo dato facoltà di parlare per me? Queste erano su per giù le domande che avrebbe voluto fare: ma non si sentì la forza di farle: quell’accenno all’ambizione di Fulvia, gittate là con un senso di amarezza, gli era passato davanti agli occhi come un lampo, illuminando molto spazio davanti a lui prima di spegnersi. Capì allora, o credette di capire, che il signor Demetrio lo aveva tradito. E rimase male, per tutto quel giorno, assai male. Più tardi volle ritornarci su col pensiero, ricordar le parole, pesarle, dubitare di ciò che a tutta prima gli lasciavano credere. Infatti, non poteva egli trattarsi di un’opinione del signor Demetrio? L’ambizione, senza dubbio, aveva travolto il giudizio di Fulvia: ma c’era forse bisogno di supporre che ella avesse scelto tra il conte Spilamberti e Virginio Lorini? Non bastava, per giustificare quella sentenza del signor Demetrio, non bastava ch’ella si fosse mostrata desiderosa di concedere la sua mano al conte Attilio, senza che il nome di Virginio fosse stato mai [p. 146 modifica] proferito? Sicuramente, doveva esser così, e le parole del signor Demetrio erano state male interpetrate da lui. Se fosse stato altrimenti, che vergogna per il povero Virginio! Un forte amore si conosce qualche volta all’oblìo della propria dignità. Ma questo sarà il caso di un amor fortunato, se mai. E ben diverso era il caso di Virginio Lorini.

Egli avrebbe potuto saperne l’intiero, tirando da capo sull'argomento doloroso il padre di Fulvia, e facendolo cantare. I modi non gli mancavano, poichè la lingua batte dove il dente duole, e il signor Demetrio parlava volentieri di sua figlia e di quel matrimonio, che alle volte gli piaceva a quel dio, e alle volte niente affatto. Ma egli non osò più di toccare quel tasto. Come sempre avviene quando un brutto presentimento ci avverte di una scoperta disgustosa che potremmo fare indagando troppo minutamente le cose, Virginio tremava di andare più oltre, e gli tornava meno spiacevole di rimanere nel dubbio.

Tacque adunque; e da quel giorno, per non correr pericoli, si rinchiuse sempre più nella cerchia dell’assiduo lavoro. Ma non era più quello di prima che una dolce malinconia rendeva ancora abbastanza trattabile. La dolce malinconia si era cambiata in profonda tristezza. I gravi pensieri gli si leggevano negli occhi, che non parevano fissarsi mai in nessuna delle cose circostanti. Quando gli si volgeva il discorso, dava un sobbalzo, come chi sia destato improvvisamente dal sonno: ritornando in sè per dare udienza alla gente, aveva sempre l’aria di cascar dalle nuvole.

Del resto, era lasciato molto tranquillo. Da lunga mano i commessi del Bottegone lo consideravano come un superiore, ed era tutta bontà sua se negli atti mostrava di voler essere tenuto come un eguale. Ma ormai, eguale o no nella condizione del lavoro comune, egli non era punto eguale ai suoi compagni nella condizione della ricchezza personale, e tutti incominciavano a guardarlo come un essere privilegiato. Che cosa fanno i quattrini! Egli, poveraccio, non si ricordava [p. 147 modifica] nemmeno di averne; ed era riverito già come un principe. Lo ammiravano anche di più, perchè non era punto orgoglioso. Ricco a quel modo, avrebbe potuto guardar tutti dall’alto in basso. Le sue ricchezze eran anche ingrandite dal fatto che non se ne conosceva precisamente la somma: ingrandite ancora da certi discorsi del signor Demetrio, che non pareva meno disposto degli altri ad ammirare e a riverire il suo segretario.

— Prendete esempio; — diceva egli ai suoi giovani di negozio, — prendete esempio dal signor Lorini. Egli è ricco, straricco, e potrebbe ridersi del suo principale. Ma niente; egli continua a lavorare, come un bue, come un negro. E questa è nuova di zecca, non vi pare? Ma c’è il suo perchè, come in tutte le cose di questo mondo. Quando il panno ha preso una piega, non c’è più ferro caldo che glie la levi. Quello ha fatto la piega a lavorare, e non si cambia più. Fate la piega anche voi, disutilacci, e vedrete come vi piacerà il lavorare. —

No, davvero, il signor Lorini non si cambiava più. E con gran dispiacere della signorina Maddalena, la bellissima ministressa della cartoleria, che faceva invano gli occhi teneri al signor Virginio, cercando sempre di trattenerlo con qualche discorso quando egli passava vicino al suo banco, e trovando tutte le occasioni possibili e immaginabili per andarlo a disturbare nel salottino. I begli occhi di Maddalena luccicavano, invitando ai complimenti, e meritandoli, in fede mia, meritandoli. Ma la formosa ragazza perdeva il suo tempo. Virginio rispondeva sempre cortesissimo, ma anche brevissimo, alle domande di lei, e tirava di lungo: levato di lì, non sapeva neppure che Maddalena esistesse.