La chioma di Berenice (1803)/Discorso IV

Discorso IV. Della ragione poetica di Callimaco

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Gaio Valerio Catullo - La chioma di Berenice (I secolo a.C.)
Traduzione di Ugo Foscolo (1803)
Discorso IV. Della ragione poetica di Callimaco
Discorso III Epistolium Catulli ad Hortalum

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DISCORSO QUARTO

Della ragione poetica di Callimaco

I. Esporrò l’economia di questo componimento, risalendo alla natura della poesia, e specialmente della lirica. Questo poema che, per lo suo metro, corre sotto il nome di elegia, racchiude quasi tutti i fonti del mirabile e del passionato. È mirabile una chioma mortale rapita da Zefiro alato, per comando di una novella deità, da pochi anni fatta partecipe del culto di Venere. Mirabile che sia locata fra le costellazioni, che sovr’essa passeggino gli Dei, che all’apparire del Sole ritornisi anch’ella in compagnia di Tetide, e fra i conviti e le danze delle fanciulle oceanine. Ma questo mirabile riescirebbe nullo, ove non fosse appoggiato alla religione di que’ popoli, e poco efficace se la religione non lusingasse le loro passioni e non ridestasse nell’immaginazione simolacri non solamente divini, ma simili a quelle cose che sono care e necessarie a’ mortali. Onde questa sorte di meraviglia chiude in se stessa anche una certa passione, diversa da quella di cui parleremo dapoi. [p. 52 modifica]

II. Leggeri conoscitori dell’uomo sono que’ retori, che, disapprovando la favola e le fantasie soprannaturali, vorrebbero istillare ne’ popoli la filosofia de’ costumi per mezzo di una poesia ragionatrice, la quale si può usurpare bensì nella satira, ove l’acre malignità, cara all’umano orecchio, quando specialmente è condita dal ridicolo, può talor dilettare1. Ma non diletterebbe un poema che proceda argomentando, e che non idoleggi le cose, ma le svolga e le narri. La favola degli antichi trae l’origine dalle cose fisiche e civili, che, idoleggiate con allegorie, formavano la teologia di quelle nazioni2; e nella teologia de’ popoli stanno sempre riposti i principi della politica e della morale: però nel corso del commento andrò estendendomi per provare con gli esempi questa sentenza, la quale dà lume a quel passo del filosofo: [p. 53 modifica] Essere i poeti ispirati da’ numi, e i loro versi venire da Dio. Onde, se la poetica è tutta quanta enigmatica, ciò avviene perché non sia conosciuta sapientemente dal volgo3.

III. Non è colpa delle favole né degli antichi, se la loro religione è per noi piena di capricci e d’incoerenze, bensì dell’estensione di quella religione quasi universale, delle vicende de’ secoli e della nostra ignoranza. Che l’umana mente abbia bisogno di cose soprannaturali, e quindi i popoli di religione, è massima celebrata dall’esperienza e dagli annali di tutte le generazioni. Anzi è di tanta preponderanza questa umana necessità, che, sebbene le religioni nascano dalla tempra de’ popoli e si stabiliscano per le età e le circostanze degli Stati, i popoli ed i tempi prendono in progresso aspetto e qualità dalle religioni. Ora la poesia deve per istituto cantare memorabili storie, incliti fatti ed eroi, accendere gli animi al valore, gli uomini alla civiltà, le città all’indipendenza, gl’ingegni al vero ed al bello. Ha perciò d’uopo di percuotere le menti col meraviglioso ed il cuore con le passioni. Torrà le passioni dalla società; ma donde [p. 54 modifica] il meraviglioso, se non dal cielo? Dal cielo, poiché la natura e l’educazione hanno fatto elemento dell’uomo le idee soprannaturali. Quel meraviglioso, che non è tratto dalle inclinazioni e dalle nozioni umane, o riesce ridicolo come le poesie e i romanzi del Seicento, o incredibile e balordo come le frenesie degli incliti ciurmadori de’ miei tempi, non dissimili a quegli statuari e pittori che rappresentassero mostri e chimere rimote dalle idee di tutte le genti: onde né pittori sono, né scultori, né poeti quei che abbandonano la imitazione, madre delle arti belle.

IV. Fortunati dunque que’ popoli, a’ quali toccava in sorte una religione, che a tutte le umane necessità, a tutti gli eventi naturali assegnava un Iddio. Così il sapere, il coraggio, l’amore, l’aere, la terra, le cose insomma tutte quante, erano in tutela di un nume lor proprio, che avea propria storia e proprie forme. Così i benefattori degli uomini venivano, coll’andare degli anni, ascritti al coro de’ celesti. Così i poeti traeano da tutti i più astratti pensieri allegorie e pitture sensibili, più de’ sillogismi e de’ numeri preste a persuadere: quello più doma e vince le menti, che più percuote [p. 55 modifica] i sensi. Magnificavano le passioni, umanizzando gli dèi e divinizzando i mortali. La fantasia inclina ad abbellire i numi; e, siccome fra gli antichi i numi erano in tutte le passioni e in tutti gli effetti naturali, così l’uomo e la natura erano luminosamente rappresentati. E, quando le nostre azioni si attribuiscano agli dèi, noi ci compiacciamo, perché ci sembra che contraggano del divino. Chi de’ greci e de’ troiani di Omero non aspirava a’ baci di Venere, poiché li avevano conseguiti Adone ed Anchise? Ché se taluno opponesse queste cose non essere vere, non gli domanderò io che mai sappia egli di vero, anzi dirò che ben mi si oppone, giacché la nostra poesia è vóto suono e lusso letterario. Ma, se ella fosse teologica e legislatrice come l’antica, assai meglio torrebbero i pastori de’ popoli di descrivere al volgo la sera, dicendo col poeta Stesicoro: Che il Sole, figliuolo d’Ipperione, discendeva nell’aureo cocchio, acciocché, traversando l’oceano, pervenisse a’ sacri profondi vadi della notte oscura, onde abbracciare la madre, la virginale consorte ed i cari figliuoli4. La qual dipintura più agevolmente [p. 56 modifica] le virtù domestiche persuadeva a’ mortali, ch’ei le vedeano sì care al ministro maggiore della natura, che in siì poca ora traversava splendidamente l’oceano. Non so se le scienze abbiano cooperato a far meno malvagia o più lieta l’umana razza, ch’io né dotto sono, né temerario da giudicarne. Questo vedo: che, essendo destinate a pochi, ove questi volessero rompere a noi popolo il velo dell’illusione da cui traspare un mondo di belle e care immaginazioni, ci farebbero essi più sovente ricordare la noia e le ansietà della vita, dove niuno va lieto senza il dolore dell’altro. Né mi smuoverò da questa sentenza, se prima non mi abbiano compiaciuto di due discrete domande: Le arti veramente utili sono figlie del caso o delle scienze? E questi chiamati comodi ed utilità, perfezionati dalle scienze, han questo nome per intrinseca qualità o per la nostra opinione?

V. Tornando dunque alla poesia la quale non è per gli scienziati che tutto veggono, o credono di vedere, discevrato dalle umane fantasie, bensi per la moltitudine, parmi provato ch’ella non possa stare senza religione. Nondimeno quel poeta, che volesse usare di una religione involuta da misterj [p. 57 modifica] incomprensibili, che rifugge dall’amore e da tutte le universali passioni dell’uomo, che tutti i piaceri concede alla morte, ma scevri di sensi, nulla, fuorché meditazioni e pentimenti, alla vita, che poco alla patria ed alla gloria, poco al sapere, è prodiga a sottili speculazioni ed avarissima al cuore, che, per l’ignoranza o il cangiamento di una idea, per la lite di una parola, produce scismi ed attira le folgori celesti, quel poeta procaccerebbe infinito sudore a se stesso e scarsa fama al suo secolo. Che ove cotal religione fosse poetica, chi potea meglio maneggiarla di quell’ingegno sovrano, il quale dopo, avere dipinta tutta la commedia de’ mortali, dove la religione prende qualità dalle azioni ed opinioni volgari, non sì tosto arriva allo spirituale, ch’ei s’inviluppa in tenebre ed in sofismi? i quali se mancassero del nerbo dello stile e della ricchezza della lingua, e se non fossero interrotti dalle storie de’ tempi, sconforterebbero per se stessi gli uomini più studiosi. Nel che fu più avveduto Torquato Tasso, prendendo a cantare le imprese di una religione allora armata, e riferita ad una età eroica, quando le idee delle cose sono per i governi e per le nazioni assai men metafisiche. Pur gli fu forza ricorrere [p. 58 modifica] ad incantesimi e macchine d’altre religioni, e sotto nomi diversi rappresentare le fantasie greche e romane. Non v’ha greca tragedia senza il cielo: delle moderne certamente le streghe in Shakespeare, i prestigi nella Semiramide e nel Maometto di Voltaire, l’Atalia di Racine, la fatalità nella Mirra alfieriana, e molto più l’ira divina nel Saulle, grandissima fra le tragedie, ci percotono più di quelle che hanno per soggetto memorandi casi e passioni scevre di religione.

VI. Ma quale delle religioni reca uso stabile e continuato nella poesia? La greca; perché ha che fare con tutte le passioni e le azioni, con tutti gli enti e gli aspetti del mondo abitato dall’uomo. Testimonio il perpetuo consentimento di tutte le moderne letterature, le quali dal diradamento della barbarie hanno richiamati gli dèi di Virgilio e di Omero. Lucrezio, che appositamente persuadeva la materialità dell’anima e la impassibilità degl’iddii, invoca sua musa la natura5, ma idoleggiandola con le sembianze, le tradizioni e le passioni di Venere; e, mentre pur vuole [p. 59 modifica] dissipare lo spavento del Tartaro6, illustra la sua filosofia spiegando le allusioni teologiche. La religione ebrea, che può conferire alla poesia minacciosa e terribile, fugge ogni altro argomento; e perché non fu celebrata da molti e grandi popoli con diverse storie e vari costumi, e perché il terrore, senza la pietà derivante dalle altre soavi passioni, ignote a quella religione, si converte agevolmente in ribrezzo. S’io potessi domandare alle genti che verranno qual utile e quanto diletto trarrebbero dal poema della Germania, e se la Messiade può somministrare argomenti di tragedia e di pittura come l’Iliade, forse saprei che la curiosità di quel poema, grande per questi tempi e grandissimo per l’età morte, sarà rapita con le rivoluzioni, le quali porteranno nuove religioni e nuove favelle alla terra. Così il Petrarca, che dell’avanzo della cavalleria errante e delle fantasie platoniche, riferite sino dagli antichi cristiani alla religione, sì gentilmente adornava il suo amore, non ebbe imitatori se non puerili, tostoché quelle usanze e quelle idee soprannaturali, non fondate sul cuore umano, sono state relegate [p. 60 modifica] ne’ romanzi de’ Caloandri e nelle biblioteche claustrali. Che se nella sua terra natia, e con la stessa sua lingua, non felici seguaci

Ebbe quel dolce di Calliope labbro,


il quale narrò con tanto pianto soave la passione universale dei cuore, solo perché è riferita a scaduti costumi e ad idee celesti poco sensibili; come può l’uomo nato fra popoli da gran tempo usciti dello stato eroico, e sotto il beato cielo d’Italia, imitare la magnifica barbarie d’Ossian, e tentare di trasportarne nelle sue solitudini? Ben io, volando con l’immaginazione a que’ tempi, guido fra le sue montagne quel cieco poeta e siedo devoto su la sua tomba; ma io grido ad un tempo agl’italiani: — Lasciate quest’albero nel suo terreno, poiché trapiantato tralignerà: simile a que’ fieri animali, che, dalla libertà delle selve tratti fra gli uomini, appena serbano vestigi della loro indole generosa. — Ardiremo noi far soggetto di poema quella religione e quelle storie, se il solo dubbio che l’autore viva nell’età nostra, scema gran parte della meraviglia? La poesia non aspira ad accendere soltanto gl’ingegni che hanno l’ésca in se stessi, ma a cangiare [p. 61 modifica] in fervidi anche i più riposati: al che non giunge, se non toccando gli stati della società, ne’ quali gli uomini vivono, e tutte le passioni, come sono modificate da’ costumi.

VII. Ma (purtroppo!) la nostra poesia non può avere né lo scopo, né i mezzi de’ greci e delle nazioni magnanime; perocché, non potendole conferire le moderne religioni, né il sistema algebraico de’ presenti governi, poco può ella conferire alla politica. Massimi fatti e straordinari destano la poesia storica, face illuminatrice dell’antichità. La navigazione degli Argonauti e la confederazione di tutta la Grecia sotto Troia hanno dato luce a’ lor secoli, per avere eccitati i poeti a cantar quella impresa. Che se non a nazioni vere, ma a regali famiglie ed a grandi volghi tende il canto del poeta, allora pare giusto Tesilio che decretava Platone. Il decadimento della poesia storica s’incomincia a travedere sino da’ tempi di Virgilio. Ma se i secoli gotici non ci avessero invidiate le poesie di Alceo, forse l’amor della patria e delle virili virtù suonerebbe più dalla lira di quel capitano odiator de’ tiranni7, di quel che suoni dalle imitazioni [p. 62 modifica] di un cortigiano, che lusinga il suo signore, confessandogli di essere fuggito dalla battaglia, estremo esperimento degli ultimi romani contro la fazione di Cesare8, e fa aiutatore un iddio del suo tradimento. È da badare che di tutte quasi le reliquie di Alceo, restate presso Eraclide Pontico ed Ateneo, si trova, non dirò l’imitazione, ma la traduzione letterale in Orazio9. Che s’ha dunque a pensare sì d’Alceo che degli altri lirici, de’ quali quantunque incontriamo rari vestigi, vivono i nomi tuttora e vivranno immortali come le muse? Quasi una intera ode si appropriò Catullo della sventurata Saffo10, imitata ad un tempo da Lucrezio 11; ed ho argomenti, non opportuni a questo discorso, per sospettare greco l’inno a Cibele12. Poco ha Virgilio di veramente pastorale nelle egloghe, che non sia di Teocrito; ed oltre i versi trapiantati da Omero e dagli altri 13, il celebre [p. 63 modifica] libro quarto dell’Eneide sarebbe più letto in Apollonio 14, se questi lo avesse cantato con la divinità dello stile virgiliano, come lo architettò due secoli prima con circostanze più passionate e più vere. Se non che, e la imitazione e le adulazioni sono più colpa dello stato di Roma che di que’ poeti, a’ quali vennero le lettere con le scienze, con la mollezza del vivere civile e con le discipline retoriche; e il loro ingegno fu da prima atterrito dalla tirannide, indi innaffiato dannosamente da’ benefici. E ben Virgilio, Pollione e gli altri grandi furono, se non propugnatori della patria, certamente ammansatori di quell’imperadore, non, come altri si crede, con la dolcezza delle sacre muse, ma perché, non avendo i delitti liberato dalla coscienza dell’infamia, comperava le lettere, quasi testimoni al tribunale de’ posteri; e quest’ambizione lo distraeva in appresso dalle pedate di Silla, ch’ei cominciò a calcare dopo la vittoria, sino a patteggiare la morte di Cicerone15, ad insultare al capo mozzato di Bruto16 ed a meritarsi sul tribunale il nome di carnefice. Ma [p. 64 modifica] i poeti primitivi, teologi e storici delle loro nazioni, vissero, siccome Omero e i profeti d’Israele, in età ferocemente magnanime; e Shakespeare, che insegna anche oggi al volgo inglese gli annali patri, viveva fra le discordie civili, indotto d’ogni scienza; e l’Alighieri cantò i tumulti d’Italia sul tramontare della barbarie, valoroso guerriero, devoto cittadino ed esule venerando. Argomento della originalità delle loro nazioni, dalla quale erano educati quegl’ingegni supremi, si è che, essendo tutti eguali nelle forze e nella tempra, sono però così diversi ed incomparabili, che non si può trovare orma di somiglianza fra di loro, né d’imitazione dagli altri. Onde tanto questa originalità prevalse in Dante, che, intendendo egli di togliersi per esemplare l’Eneide, appena si trova ombra della scuola virgiliana nella maniera di vestire i concetti. Per questi esami confermasi la sentenza, che i poeti traggono qualità da’ tempi; e viene quindi abrogato il loro esilio decretato da Platone. Perocché, se erano corruttori i poeti, doveano essere prima corruttori i governi; o il governo platonico era, per istituzioni e per natura degli uomini, meno imperfetto, ed i poeti avrebbero preso qualità dalla generosità e dalla [p. 65 modifica] giustizia e dall’idee tutte di quella repubblica. Se non che quella idea metafisica è più, a mio parere, una obbliqua satira della specie umana. Poiché, dipingendo costumi e governi liberi d’ogni passione, e dalla sola ragione diretti, e però impossibili non solo, ma né atti pure ad esperimento, viene a provare che le leggi tutte devono prendere norma da’ vizi e dalla naturale e necessaria malvagità de’ mortali. E Platone stesso, perché scriveva ad uomini greci, e non agli angioli della sua repubblica, non è forse, e per l’altezza de’ concetti, e per la pittura de’ personaggi, e per la passione delle sue narrazioni, e per quell’intrinseco incantesimo del suo stile, più poeta d’ogni altro scrittore, e più che non si conviene forse a filosofo? Non chiama egli divini i poeti, e gli stessi interpreti loro ispirati dall’alto?17. Era dunque non esilio, ma ostracismo quello de’ poeti dalla sua repubblica; la quale opinione, assurdamente raccolta, serve di spada agli scienziati illiberali ed a’ principi ignoranti, degni di essere capitanati da quell’imperadore, il quale, per non parere da men di Platoneì18, [p. 66 modifica] poco mancò che non cacciasse da tutte le biblioteche le statue ed i libri di Virgilio e di Livio.

VIII. Tornando alla religione, ciascuno de’ poeti teologi e storici da noi citati, è pur poeta ebreo, inglese, italiano; ma Omero solo è poeta de’ secoli e delle genti. Si ha ciò forse ad ascrivere alla antichità, a cui amano i mortali di congiungersi con l’immaginazione per possederla ed aggiungerla alla loro vita presente? Ma gli ebrei furono contemporanei d’Omero; anzi, per le loro storie, più antichi. Forse al lume che gli scrittori hanno dato a que’ tempi? Sono più illustrate le storie inglesi e le nostre. Dunque è pur forza ascrivere questo effetto alla universalità di quella religione omerica, che, distesa a tutte quasi le nazioni, da cui le moderne discendono, la reputiamo eredità degli avi; e molto più alla allegoria che quegli iddii hanno a tutte quante le passioni ed a tutte le cose naturali. Per questa religione Omero, quel maestro di Alessandro, fu detto padre delle arti belle’, e l’Iliade fonte di tragedie; ed ebbe egli quindi gloriosi discepoli in Grecia, seguiti poi da que’ latini, che noi onoriamo come maestri della poesia. Uno de’ discepoli di Omero è [p. 67 modifica] Callimaco, siì onorato da’ letterati dell’aurea latinità19 e degno spesso della imitazione di Virgilio20. Del poemetto, a cui s’hanno a riferire questi principi, appena abbiamo pochi avanzi rosi dagli anni: ma la traduzione di Catullo ci serba un alto monumento di quel poeta. Considerandolo, si troverà pieno di quel mirabile richiesto alla poesia, perché è fondato su la religione degli egizi e sull’autorità di un astronomo illustre. Questo mirabile non è, come gl’incantamenti de’ romanzieri, vòto di effetto; ma fa più salde le fondamenta dello Stato, convalidando l’opinione popolare, che una delle madri de’ regnanti sia diva compagna di Venere21. Dalla metamorfosi della Chioma trae campo per istituire un novello culto, celebrato dalle vergini vereconde e dalle spose pudiche22. Troppo ho [p. 68 modifica] scritto, e più forse ch’io non voleva, onde mostrare il mirabile di Callimaco; ma mi ha tratto fuor di cammino il desiderio di dire quello

che ho portato nel cor gran tempo ascoso23,


da poi che vedo le greche e le latine lettere soverchiate in Italia dagl’idiomi d’oltramonti, e mal governate da’ pedanti, cicale pasciute non d’attica rugiada, che indegnamente le insegnano.

IX. La passione, elemento della poesia, al pari della meraviglia, si trasfonde in noi, or dilicatamente, or generosamente, da questi versi. Affetti dilicati sono quelli che derivano dallo amore, dalla carità figliale e fraterna, dalla commiserazione, dal timore, da tutte insomma le molli passioni, comuni a tutte le umane condizioni. Questo poemetto n’è pieno: e più che mai, quando Berenice abbandonata sacrifica spesse volte agli dèi, ed, obbliando il suo magnanimo cuore, si strugge per la sollecitudine della battaglia, e vive trafitta dal desiderio dello sposo e del fratello. E que’ lamenti [p. 69 modifica] sono artificiosamente e con un certo soave furore interrotti dalla narrazione dei sacrifici, e le narrazioni interrotte dal pianto della giovinetta, finché poi scoppiano le passioni generose da quel verso

               ... Is haut in tempore longo
               captam Asiam Ægypti finibus addiderat:

perocché la conquista della Siria e l’augurio di maggiori vittorie nell’Asia doveano lusingare l’ambizione di Tolomeo, il valore degli eserciti, i cortigiani ed il popolo. E torna il suono di questa corda nell’episodio del monte Athos, scavato per invadere la Grecia da Serse, re de’ persiani, domi poi da Alessandro, il quale gloriavasi di avere vendicati i greci. La quale gloria ridonda a’ re d’Egitto, successori di Tolomeo Lago, commilitoni del macedone e greco egli pure. Ma queste generose passioni sono in tutti i tempi sentite da pochi; e meno, ove non si tratti di popoli liberi e di storie patrie e vicine a noi. Da questo principio emerge la ragione, per cui non comprendiamo la grandezza di Pindaro, che cantava in encomio de’ particolari cittadini i fasti d’intere tribù e di paesi. Quegli antichi, per [p. 70 modifica] lodare i privati, encomiavano le patrie; noi abbiamo necessità di disseppellire le virtù di qualche privato per potere onorare di alcun giusto elogio le nostre città.


Note

  1. — Nisi quod pede certo
    differt sermoni, senno merus. Horat., lib. i, sat. iv, vers. 77.

    Verbo togae sequeris, iunctura catlidus acri
    ore teres modico, pallentes radere mores
    doctus, et ingenuo culpam defigere ludo.
    Persius sat. v, vers. 14.

  2. Per questo anche i dottori cristiani stimano probabili testimoni i poeti. Lactant., Div. instit., lib. i, cap. ii; lib. ii, cap. ii; Augustin., De consens. Evangel ., lib. i, cap. 24.
  3. Plato in Ione; Id. in Alcibiade poster.
  4. Frammenti de’ lirici greci, stampati le più volte dopo Pindaro.
  5. Aeneadum genetrix ..., sino al verso 41.
  6. Lib. iii, verso 990 e sg.
  7. Quintil., lib. x; Orazio, lib. ii, ode x, verso 26 e sg.; lib. iv, ode viii, verso 8, ed altrove.
  8. Lib. ii, ode vii, verso 14; lib. iii, ode iv, verso 27; e ne’ Sermoni.
  9. Paragona, fra gli altri, le prime due strofe dell’ode x, lib. i, e l’ode xv, verso 5 e sg., con i frammenti d’Alceo, stampati fra’ lirici greci.
  10. Catullo, carm. li; Longino, sezione x.
  11. Lib. iii, verso 153 e sg.
  12. Catullo, carm. lxii.
  13. Vedili tutti presso Macrobio.
  14. Lib. iii, verso 284, e continua nel lib. iv.
  15. Plutarco, in Cicer.; Idem, in Anton.
  16. Svetonio, lib. ii, cap. 13.
  17. Plato, in Ione, passim.
  18. Sveton., in quarto Caesore, cap. 34.
  19. Catullo, carm. lxiv, verso 16; Orazio, lib. ii, epist. ii, verso 99; Properzio, lib. ii, eleg. xxiv, verso 31; Id., lib. iii, eleg. i; Id., ibid., eleg. vii, verso 43; Ovid., Amorum, lib. I, eleg. xv, verso 13; Remed. amor., verso 759; Tristium, lib. II, verso 363; In Ibim, verso 53; la quale poesia imprecativa Ovidio imitò da Callimaco.
  20. Paragona il principio dell’Inno ad Apollo col verso 90 e seguenti dell’Eneide, lib. iii, e col verso 253 e sg., lib. vi. Inno in Diana, verso 56 e sg. con l’Eneide, lib. viii, verso 415. Altre imitazioni vi saranno ch’io non so, e molte più forse ve n’era da’tanti libri perduti di Callimaco.
  21. Considerazioni al verso 54 (Considerazione IX).
  22. Id. al verso 79 (Considerazione XIII )
  23. Petrarca.