La bottega del caffè/Atto II

Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Ridolfo dalla strada, poi Trappola dalla bottega interna.


Ridolfo. Ehi, giovani, dove siete?

Trappola. Son qui, padrone.

Ridolfo. Si lascia la bottega sola, eh?

Trappola. Ero lì coll’occhio attento, e coll’orecchio in veglia. E poi, che volete voi che rubino? Dietro1 al banco non vien nessuno.

Ridolfo. Possono rubar le chicchere. So io che vi è qualcheduno, che si fa l’assortimento di chicchere, sgraffignandole una alla volta ai poveri bottegai.

Trappola. Come quelli che vanno dove sono rinfreschi, per farsi provvisione di tazze e di tondini. [p. 244 modifica]

Ridolfo. Il signor Eugenio è andato via?

Trappola. Oh, se sapeste! E venuta sua moglie; oh, che pianti! oh, che lamenti! Barbaro, traditore, crudele! Un poco amorosa, un poco sdegnata. Ha fatto tanto, che lo ha intenerito2.

Ridolfo. E dove è andato?

Trappola. Che domande! Stanotte non è stato a casa, sua moglie lo viene a ricercare, e domandate dove è andato?

Ridolfo. Ha lasciato nessun ordine?

Trappola. È tornato per la porticina di dietro, a dirmi che a voi si raccomanda per il negozio dei panni, perchè non ne ha uno.

Ridolfo. Le due pezze di panno le ho vendute a tredici lire il braccio, ed ho tirato il denaro, ma non voglio ch’egli lo sappia; non glieli voglio dar tutti, perchè, se li ha nelle mani, li farà saltare in un giorno.

Trappola. Quando sa che li avete, li vorrà subito.

Ridolfo. Non gli dirò d’averli avuti, gli darò il suo bisogno, e mi regolerò con prudenza.

Trappola. Eccolo che viene. Lupus est in fabula.

Ridolfo. Che cosa vuol dire questo latino?

Trappola. Vuol dire: il lupo pesta la fava. (si ritira in bottega ridendo)

Ridolfo. È curioso costui. Vuol parlare latino, e non sa nemmeno parlare italiano.

SCENA II.

Ridolfo ed Eugenio.

Eugenio. Ebbene, amico Ridolfo, avete fatto niente?

Ridolfo. Ho fatto qualche cosa.

Eugenio. So che avete avute le due pezze di panno: il giovine me lo ha detto. Le avete esitate?

Ridolfo. Le ho esitate.

Eugenio. A quanto? [p. 245 modifica]

Ridolfo. A tredici lire il braccio.

Eugenio. Mi contento; danari subito?

Ridolfo. Parte alla mano, e parte col respiro.

Eugenio. Oimè! Quanto alla mano?

Ridolfo. Quaranta zecchini.

Eugenio. Via, non vi è male. Datemeli, che vengono a tempo.

Ridolfo. Ma piano, signor Eugenio, V. S. sa pure che gli ho prestati trenta zecchini.

Eugenio. Bene, vi pagherete, quando verrà il restante del panno.

Ridolfo. Questo, la mi perdoni, non è un sentimento onesto da par suo. Ella sa come l’ho servita, con prontezza, spontaneamente, senza interesse, e la mi vuol far aspettare? Anch’io, signore, ho bisogno del mio.

Eugenio. Via, avete ragione. Compatitemi, avete ragione. Tenetevi li trenta zecchini, e date quei dieci a me.

Ridolfo. Con questi dieci zecchini non vuol pagare il signor don Marzio? Non si vuol levar d’intorno codesto diavolo tormentatore?

Eugenio. Ha il pegno in mano, aspetterà.

Ridolfo. Così poco stima V. S. la sua riputazione? Si vuol lasciar malmenare dalla lingua d’un chiacchierone? Da uno che fa servizio apposta per vantarsi d’averlo fatto, e che non ha altro piacere che metter in discredito i galantuomini?

Eugenio. Dite bene, bisogna pagarlo. Ma ho io da restar senza denari? Quanto respiro avete accordato al compratore?

Ridolfo. Di quanto avrebbe di bisogno?

Eugenio. Che so io? Dieci o dodici zecchini.

Ridolfo. Servita subito: questi sono dieci zecchini, e quando viene il signor don Marzio, io ricupererò gli orecchini.

Eugenio. Questi dieci zecchini che mi date, di qual ragione s’intende che sieno?

Ridolfo. Li tenga, e non pensi altro3. A suo tempo conteggeremo. [p. 246 modifica]

Eugenio. Ma quando tireremo il resto del panno?

Ridolfo. La non ci pensi. Spenda quelli, e poi qualche cosa sarà: ma badi bene di spenderli a dovere, di non gettarli.

Eugenio. Sì, amico, vi sono obbligato4. Ricordatevi nel conto del panno tenervi la vostra senseria.

Ridolfo. Mi maraviglio: fo il caffettiere e non fo il sensale. Se m’incomodo per un padrone, per un amico, non pretendo di farlo per interesse. Ogni uomo è in obbligo di aiutar l’altro quando può, ed io principalmente ho obbligo di farlo con V. S., per gratitudine del bene che ho ricevuto dal suo signor padre. Mi chiamerò bastantemente ricompensato, se di questi denari, che onoratamente gli ho procurati, se ne servirà per profitto della sua casa, per risarcire il suo decoro e la sua estimazione.

Eugenio. Voi siete un uomo molto proprio e civile: è peccato che facciate questo mestiere; meritereste meglio stato e fortuna maggiore.

Ridolfo. Io mi contento di quello che il cielo mi concede, e non iscambierei il mio stato con tanti altri che hanno più apparenza, e meno sostanza. A me nel mio grado non manca niente. Fo un mestiere onorato, un mestiere nell’ordine degli artigiani, pulito, decoroso e civile. Un mestiere che, esercitato con buona maniera e con riputazione, si rende grato a tutti gli ordini delle persone. Un mestiere reso necessario, al decoro della città, alla salute degli uomini, e all’onesto divertimento di chi ha bisogno di respirare. (entra in bottega)

Eugenio. Costui è un uomo di garbo: non vorrei però che qualcheduno dicesse che è troppo dottore. Infatti per un caffettiere pare che dica troppo; ma in tutte le professioni vi sono degli uomini di talento e di probità. Finalmente non parla nè di filosofia, nè di matematica: parla da uomo di buon giudizio: e volesse il cielo che io ne avessi tanto, quanto egli ne ha. [p. 247 modifica]

SCENA III.

Conte Leandro, di casa di Lisaura, ed Eugenio.

Leandro. Signor Eugenio, questi sono i vostri denari; eccoli qui tutti in questa borsa; se volete che ve li renda, andiamo.

Eugenio. Son troppo sfortunato, non giuoco più.

Leandro. Dice il proverbio: Una volta corre il cane, e l’altra la lepre.

Eugenio. Ma io sono sempre la lepre, e voi sempre il cane.

Leandro. Ho un sonno che non ci vedo. Son sicuro di non poter tenere le carte in mano; eppure per questo maledetto vizio non m’importa di perdere, purchè giuochi.

Eugenio. Anch’io ho sonno. Oggi non giuoco certo.

Leandro. Se non avete denari, non importa; io vi credo.

Eugenio. Credete che sia senza denari? Questi sono zecchini; ma non voglio giuocare. (mostra la borsa con li dieci zecchini)

Leandro. Giuochiamo almeno una cioccolata.

Eugenio. Non ne ho volontà.

Leandro. Una cioccolata per servizio.

Eugenio. Ma se vi dico...

Leandro. Una cioccolata sola sola, e chi parla di giuocar di più, perda un ducato.

Eugenio. Via, per una cioccolata, andiamo. (Già Ridolfo non mi vede). (da sè)

Leandro. Il merlotto è nella rete. (entra con Eugenio nella bottega del giuoco)

SCENA IV.

Don Marzio, poi Ridolfo dalla bottega.


Don Marzio. Tutti gli orefici gioiellieri mi dicono che non vagliono dieci zecchini. Tutti si meravigliano che Eugenio m’abbia gabbato. Non si può far servizio; non do più un soldo a nessuno, se lo vedessi crepare. Dove diavolo sarà costui? Si sarà nascosto per non pagarmi. [p. 248 modifica]

Ridolfo. Signore, ha ella gli orecchini del signor Eugenio?

Don Marzio. Eccoli qui, questi belli orecchini non vagliono un corno; mi ha trappolato. Briccone! si è ritirato per non pagarmi; è fallito, è fallito.

Ridolfo. Prenda, signore, e non faccia altro fracasso; questi sono dieci zecchini, favorisca darmi i pendenti.

Don Marzio. Sono di peso? (osserva coll’occhialetto)

Ridolfo. Glieli mantengo di peso; e se calano, son qua io.

Don Marzio. Li mettete fuori voi?

Ridolfo. Io non c’entro; questi sono denari del signor Eugenio.

Don Marzio. Come ha fatto a trovare questi denari?

Ridolfo. Io non so i fatti suoi.

Don Marzio. Li ha vinti al giuoco?

Ridolfo. Le dico che non lo so.

Don Marzio. Ah, ora che ci penso, avrà venduto il panno. Sì, sì, ha venduto il panno; gliel’ha fatto vendere messer Pandolfo.

Ridolfo. Sia come esser si voglia, prenda i danari, e favorisca rendere a me gli orecchini.

Don Marzio. Ve li ha dati da sè il signor Eugenio, o ve li ha dati Pandolfo?

Ridolfo. Oh, l’è lunga! Li vuole, o non li vuole?

Don Marzio. Date qua, date qua. Povero panno! L’avrà precipitato.

Ridolfo. Mi dà gli orecchini?

Don Marzio. Li avete da portar a lui?

Ridolfo. A lui.

Don Marzio. A lui, o a sua moglie?

Ridolfo. O a lui, o a sua moglie. (con impazienza)

Don Marzio. Egli dov’è?

Ridolfo. Non lo so.

Don Marzio. Dunque li porterete a sua moglie?

Ridolfo. Li porterò a sua moglie.

Don Marzio. Voglio venire anch’io.

Ridolfo. Li dia a me, e non pensi altro. Sono un galantuomo. [p. 249 modifica]

Don Marzio. Andiamo, andiamo, portiamoli a sua moglie. (s’incammina)

Ridolfo. So andarvi senza di lei.

Don Marzio. Voglio farle questa finezza. Andiamo, andiamo. (parte)

Ridolfo. Quando vuole una cosa, non vi è rimedio. Giovani, badate alla bottega. (lo segue)

SCENA V.

Garzoni in bottega, Eugenio dalla biscazza.

Eugenio. Maladetta fortuna! Li ho persi tutti. Per una cioccolata ho perso dieci zecchini. Ma l’azione che mi ha fatto, mi dispiace più della perdita. Tirarmi sotto, vincermi tutti i denari, e poi non volermi credere sulla parola? Ora sì, che son punto; ora sì, che darei dentro a giuocare fino a domani. Dica Ridolfo quel che sa dire; bisogna che mi dia degli altri denari. Giovani, dov’è il padrone?

Garzone. È andato via in questo punto.

Eugenio. Dov’è andato?

Garzone. Non lo so, signore.

Eugenio. Maladetto Ridolfo! Dove diavolo sarà andato? Signor Conte, aspettatemi, che or ora torno. (alla porta della bisca) Voglio veder se trovo questo diavolo di Ridolfo. (in atto di partire)

SCENA VI.

Pandolfo dalla strada, e detto.


Pandolfo. Dove, dove, signor Eugenio, così riscaldato?

Eugenio. Avete veduto Ridolfo?

Pandolfo. Io no.

Eugenio. Avete fatto niente del panno?

Pandolfo. Signor sì, ho fatto.

Eugenio. Via, bravo: che avete fatto?

Pandolfo. Ho ritrovato il compratore del panno; ma con che fatica! L’ho fatto vedere da più di dieci, e tutti lo stimano poco.

Eugenio. Questo compratore quanto vuol dare? [p. 250 modifica]

Pandolfo. A forza di parlare l’ho tirato a darmi otto lire al braccio.

Eugenio. Che diavolo dite? Otto lire al braccio? Ridolfo me ne ha fatto vendere due pezze a tredici lire.

Pandolfo. Denari subito?

Eugenio. Parte subito, e il resto con respiro.

Pandolfo. Oh che buon negozio! Col respiro! Io vi fo dare tutti i denari un sopra l’altro. Tante braccia di panno, tanti bei ducati d’argento veneziani.

Eugenio. (Ridolfo non si vede! Vorrei denari; son punto). (da sè)

Pandolfo. Se avesse voluto vendere il panno a credenza, l’avrei venduto anche sedici lire. Ma col denaro alla mano, al dì d’oggi, quando si possono pigliare, si pigliano.

Eugenio. Ma se costa a me dieci lire.

Pandolfo. Cosa importa perder due lire al braccio nel panno, se avete i quattrini per fare i fatti vostri, e da potervi ricattare di quel che avete perduto?

Eugenio. Non si potrebbe migliorare il negozio? Darlo per il costo?

Pandolfo. Non vi è speranza di crescere un quattrinello.

Eugenio. (Bisogna farlo per necessità). (da sè) Via, quel che s’ha da fare, si faccia subito.

Pandolfo. Fatemi l’ordine per aver le due pezze di panno, e in mezz’ora vi porto qui il denaro.

Eugenio. Son qui subito. Giovani, datemi da scrivere. (i garzoni portano il tavolino, col bisogno per iscrivere)

Pandolfo. Scrivete al giovine, che mi dia quelle due pezze di panno che ho segnate io.

Eugenio. Benissimo, per me è tutt’uno. (scrive)

Pandolfo. (Oh, che bell’abito che mi voglio fare!) (da sè)

SCENA VII.

Ridolfo dalla strada, e detti.


Ridolfo. (Il signor Eugenio scrive d’accordo con messer Pandolfo. Vi è qualche novità). (da sè)

Pandolfo. (Non vorrei che costui mi venisse a interrompere sul più bello). (da sè, vedendo Ridolfo) [p. 251 modifica]

Ridolfo. Signor Eugenio, servitor suo.

Eugenio. Oh, Vi saluto. (seguitando a scrivere)

Ridolfo. Negozi, negozi, signor Eugenio? Negozi?

Eugenio. Un piccolo negozietto. (scrìvendo)

Ridolfo. Posso esser degno di saper qualche cosa?

Eugenio. Vedete cosa vuol dire a dar la roba a credenza? Non mi posso prevalere del mio; ho bisogno di denari e convien ch’io rompa il collo ad altre due pezze di panno.

Ridolfo. Non si dice, che rompa il collo a due pezze di panno, ma che le venda come si può.

Ridolfo. Quanto le danno al braccio?

Eugenio. Mi vergogno a dirlo. Otto lire.

Pandolfo. Ma i suoi quattrini uno sopra l’altro.

Ridolfo. E V. S. vuol precipitar la sua roba così miseramente?

Eugenio. Ma se non posso fare a meno! Ho bisogno di denari.

Pandolfo. Non è anche poco, da un’ora all’altra trovar i denari che gli bisognano.

Ridolfo. Di quanto avrebbe di bisogno? (ad Eugenio)

Eugenio. Che? Avete da darmene?

Pandolfo. (Sta a vedere che costui mi rovina il negozio), (da sè)

Ridolfo. Se bastassero sei o sette zecchini, li troverei.

Eugenio. Eh via! Freddure, freddure! Ho bisogno di denari. (scrive)

Pandolfo. (Manco male!) (da sè)

Ridolfo. Aspetti; quanto importeranno le due pezze di panno a otto lire il braccio?

Eugenio. Facciamo il conto. Le pezze tirano sessanta braccia l’una: due via sessanta, cento e venti. Cento e venti ducati d’argento.

Pandolfo. Ma vi è poi la senseria da pagare.

Ridolfo. A chi si paga la senseria? (a Pandolfo)

Pandolfo. A me, signore, a me. (a Ridolfo)

Ridolfo. Benissimo. Cento e venti ducati d’argento, a lire otto l’uno, quanti zecchini fanno?

Eugenio. Ogni undici, quattro zecchini. Dieci via undici, cento [p. 252 modifica] e dieci, e undici cento e ventuno. Quattro via undici, quarantaquattro. Quarantaquattro zecchini, meno un ducato. Quarantatre e quattordici lire, moneta veneziana.

Pandolfo. Dica pure quaranta zecchini. I rotti vanno per la senseria.

Eugenio. Anche i tre zecchini vanno ne’ rotti?

Ridolfo. Certo, ma i denari subito.

Eugenio. Via, via, non importa. Ve li dono.

Pandolfo. (Oh che ladro!) (da sè) Faccia ora il conto, signor Eugenio, quanto importano le due pezze di panno, a tredici lire?

Eugenio. Oh, importano molto più.

Pandolfo. Ma col respiro; e non può fare i fatti suoi.

Ridolfo. Faccia il conto.

Eugenio. Ora lo farò colla penna. Cento e venti braccia, a lire tredici al braccio. Tre Mia nulla; due via tre sei; un via tre; un via nulla; un via due; un via uno; somma: nulla; sei; due e tre cinque; uno. Mille cinquecento e sessanta lire.

Ridolfo. Quanti zecchini fanno?

Eugenio. Subito ve lo so dire. (conteggia) Settanta zecchini e venti lire.

Ridolfo. Senza la senseria.

Eugenio. Senza la senseria.

Pandolfo. Ma aspettarli chi sa quanto. Val più una pollastra oggi, che un cappone domani.

Ridolfo. Ella ha avuto da me: prima trenta zecchini, e poi dieci che fan quaranta, e dieci degli orecchini che ho ricuperati, che sono cinquanta. Dunque ha avuto da me a quest’ora dieci zecchini di più di quello che gli dà subito alla mano, un sopra l’altro, questo onoratissimo signor sensale.

Pandolfo (Che tu sia maledetto!) (da sè)

Eugenio. È vero, avete ragione; ma adesso ho necessità di denari.

Ridolfo. Ha necessità di denari? Ecco i denari: questi sono venti zecchini e venti lire, che formano il resto di settanta zecchini e venti lire, prezzo delle cento e venti braccia di panno, a tredici lire il braccio, senza pagare un soldo di senseria; subito [p. 253 modifica] alla mano, un sopra l’altro, senza ladronerie, senza scrocchi, senza bricconate da truffatori.

Eugenio. Quand’è così, Ridolfo caro, sempre più vi ringrazio; straccio quest’ordine, e da voi, signor sensale, non mi occorre altro. (a Pandolfo)

Ridolfo. (Il diavolo l’ha condotto qui. L’abito è andato 5 in fumo). (da sè) Bene, non importa, averò gettati via i miei passi.

Eugenio. Mi dispiace del vostro incomodo.

Ridolfo. Almeno da bevere l’acquavite.

Eugenio. Aspettate, tenete questo ducato. (cava un ducato dalla borsa che gli ha dato Ridolfo)

Ridolfo. Obbligatissimo. (Già vi cascherà un’altra volta), (da sè)

Ridolfo. (Ecco come getta via i suoi denari). (da sè)

Pandolfo. Mi comanda altro? (ad Eugenio)

Eugenio. La grazia vostra.

Pandolfo. (Vuole?) (gli fa cenno se vuol giuocare, in maniera che Ridolfo non veda)

Eugenio. (Andate, che vengo). (di nascosto egli pure a Ridolfo)

Pandolfo. (Già se li giuoca prima del desinare). (va nella sua bottega e poi torna fuori)

Eugenio. Come è andata, Ridolfo? Avete veduto il debitore così presto? Vi ha dati subito li denari?

Ridolfo. Per dirgli la verità, li avevo in tasca sin dalla prima volta; ma io non glieli voleva dar tutti subito, acciò non li mandasse male sì presto.

Eugenio. Mi fate torto a dirmi così: non sono già un ragazzo. Basta... dove sono gli orecchini?

Ridolfo. Quel caro signor don Marzio, dopo aver avuti i dieci zecchini, ha voluto per forza portar gli orecchini colle sue mani alla signora Vittoria.

Eugenio. Avete parlato voi con mia moglie?

Ridolfo. Ho parlato certo: sono andato anch’io col signor don Marzio.

Eugenio. Che dice? [p. 254 modifica]

Ridolfo. Non fa altro che piangere, poverina! Fa compassione.

Eugenio. Se sapeste come era arrabbiata contro di me! Voleva andar da suo padre, voleva la sua dote, voleva far delle cose grandi.

Ridolfo. Come l’ha accomodata?

Eugenio. Con quattro carezze.

Ridolfo. Si vede che le vuol bène; è assai di buon cuore.

Eugenio. Ma quando va in collera, diventa una bestia.

Ridolfo. Non bisogna poi maltrattarla. E una signora nata bene, allevata bene. M’ha detto, che s’io lo vedo, gli dica che vada a pranzo a buon’ora.

Eugenio. Sì sì, ora vado.

Ridolfo. Caro signor Eugenio, la prego, badi al sodo, lasci andar il giuoco; non si perda dietro alle donne; giacchè V. S. ha una moglie giovine, bella e che gli vuol bene, che vuol cercare di più?

Eugenio. Dite bene; vi ringrazio davvero.

Pandolfo. (Dalla sua bottega si spurga, acciò Eugenio lo senta e lo guardi. Eugenio si volta. Pandolfo fa cenno che Leandro l’aspetta a giuocare. Eugenio colla mano fa cenno che onderà; Pandolfo torna in bottega. Ridolfo non se ne avvede.)

Ridolfo. Io la consiglierei andar a casa adesso. Poco manca al mezzogiorno. Vada, consoli la sua cara sposa.

Eugenio. Sì, vado subito. Oggi ci rivedremo.

Ridolfo. Dove posso servirla, la mi comandi.

Eugenio. Vi sono tanto obbligato. (vorrebbe andare al giuoco, ma teme che Ridolfo lo veda)

Ridolfo. Comanda niente? Ha bisogno di niente?

Eugenio. Niente, niente. A rivedervi.

Ridolfo. Le son servitore. (si volta verso la sua bottega)

Eugenio. ( Vedendo che Ridolfo non l’osserva, entra nella bottega del giuoco.)

SCENA VIII.

Ridolfo, poi Don Marzio.


Ridolfo. Spero un poco alla volta tirarlo in buona strada. Mi dirà qualcuno: perchè vuoi tu romperti il capo per un giovine [p. 255 modifica] che non è tuo parente, che non è niente del tuo? E per questo? Non si può voler bene a un amico? Non si può far del bene a una famiglia, verso la quale ho delle obbligazioni? Questo nostro mestiere ha dell’ozio assai. Il tempo che avanza, molti lo impiegano o a giuocare, o a dir male del prossimo. Io l’impiego a far del bene, se posso.

Don Marzio. Oh che bestia! Oh che bestia! Oh che asino!

Ridolfo. Con chi l’ha, signor don Marzio?

Don Marzio. Senti, senti, Ridolfo, se vuoi ridere. Un medico vuol sostenere che l’acqua calda sia più sana dell’acqua fredda.

Ridolfo. Ella non è di quest’opinione?

Don Marzio. L’acqua calda debilita lo stomaco.

Ridolfo. Certamente rilassa la fibra.

Don Marzio. Cos’è questa fibra?

Ridolfo. Ho sentito dire che nel nostro stomaco vi sono due fibre, quasi come due nervi, dalle quali si macina il cibo, e quando queste fibre si rallentano, si fa una cattiva digestione.

Don Marzio. Sì signore, sì signore; l’acqua calda rilassa il ventricolo, e la sistole e la diastole non possono triturare il cibo.

Ridolfo. Come6 c’entra la sistole e la diastole?

Don Marzio. Che cosa sai tu, che sei un somaro? Sistole e diastole sono i nomi delle due fibre, che fanno la triturazione del cibo digestivo.

Ridolfo. (Oh che spropositi! Altro che il mio Trappola!) (da sè)

SCENA IX.

Lisaura alla finestra, e detti.


Don Marzio. Ehi? L’amica della porta di dietro. (a Ridolfo)

Ridolfo. Con sua licenza, vado a badare al caffè. (va nell’interno della bottega)

Don Marzio. Costui è un asino, vuol serrar presto la bottega7. Servitor suo, padrona mia. (a Lisaura, guardandola di quando in quando col solito occhialetto) [p. 256 modifica]

Lisaura. Serva umilissima.

Don Marzio. Sta bene?

Lisaura. Per servirla.

Don Marzio. Quant’è che non ha veduto il conte Leandro?

Lisaura. Un’ora in circa.

Don Marzio. È mio amico il Conte.

Lisaura. Me ne rallegro.

Don Marzio. Che degno galantuomo!

Lisaura. È tutta sua bontà.

Don Marzio. Ehi? È vostro marito?

Lisaura. I fatti miei non li dico sulla finestra.

Don Marzio. Aprite, aprite, che parleremo.

Lisaura. Mi scusi, io non ricevo visite.

Don Marzio. Eh via!

Lisaura. No davvero.

Don Marzio. Verrò per la porta di dietro.

Lisaura. Anche ella si sogna della porta di dietro? Io non apro a nessuno.

Don Marzio. A me non avete a dir così. So benissimo che introducete la gente per di là.

Lisaura. Io sono una donna onorata.

Don Marzio. Volete che vi regali quattro castagne secche? (le cava dalla tasca)

Lisaura. La ringrazio infinitamente.

Don Marzio. Sono buone, sapete. Le fo seccare io ne’ miei beni.

Lisaura. Si vede che ha8 buona mano a seccare.

Don Marzio. Perchè?

Lisaura. Perchè ha seccato anche me.

Don Marzio. Brava! Spiritosa! Se siete così pronta a far le capriole, sarete una brava ballerina.

Lisaura. A lei non deve premere che sia brava o non brava.

Don Marzio. In verità, non me ne importa un fico. [p. 257 modifica]

SCENA X.

Placida da pellegrina, alla finestra della locanda, e detti.

Placida. (Non vedo più il signor Eugenio). (da sè)

Don Marzio. Ehi? Avete veduto la pellegrina? (a Lisaura, dopo avere osservato Placida coll’occhialetto)

Lisaura. E chi è colei?

Don Marzio. Una di quelle del buon tempo.

Lisaura. E il locandiere riceve gente di quella sorta?

Don Marzio. È mantenuta.

Lisaura. Da chi?

Don Marzio. Dal signor Eugenio.

Lisaura. Da un uomo ammogliato? Meglio!

Don Marzio. L’anno passato, ha fatto le sue.

Lisaura. Serva sua. (ritirandosi)

Don Marzio. Andate via?

Lisaura. Non voglio stare alla finestra, quando in faccia vi è una donna di quel carattere. (si ritira)

SCENA XI.

Placida alla finestra, Don Marzio nella strada.


Don Marzio. Oh, oh, oh, questa è bella! La ballerina si ritira, per paura di perdere il suo decoro! Signora pellegrina; la reverisco. (coll’occhialetto)

Placida. Serva devota.

Don Marzio. Dov’è il signore Eugenio?

Placida. Lo conosce ella il signore Eugenio?

Don Marzio. Oh, siamo amicissimi. Sono stato poco fa a ritrovare sua moglie.

Placida. Dunque il signore Eugenio ha moglie?

Don Marzio. Sicuro che ha moglie; ma ciò non ostante gli piace divertirsi coi bei visetti. Avete veduto quella signora che era a quella finestra? [p. 258 modifica]

Placida. L’ho veduta; mi ha fatto la finezza di chiudermi la finestra in faccia, senza fare alcun motto, dopo avermi ben bene guardata.

Don Marzio. Quella è una che passa per ballerina, ma! M’intendete.

Placida. È una poco di buono?

Don Marzio. Sì, e il signore Eugenio è uno dei suoi protettori.

Placida. E ha moglie?

Don Marzio. E bella ancora.

Placida. Per tutto il mondo vi sono de’ giovani scapestrati.

Don Marzio. Vi ha forse dato ad intendere che non era ammogliato?

Placida. A me poco preme che lo sia o non lo sia.

Don Marzio. Voi siete indifferente. Lo ricevete com’è.

Placida. Per quello che ne ho da far io, mi è tutt’uno.

Don Marzio. Già si sa. Oggi uno, domani un altro.

Placida. Come sarebbe a dire? Si spieghi.

Don Marzio. Volete quattro castagne secche? (le cava di tasca)

Placida. Bene obbligata.

Don Marzio. Davvero, se volete, ve le do.

Placida. È molto generoso, signore.

Don Marzio. Veramente al vostro merito quattro castagne sono poche. Se volete, aggiugnerò alle castagne un paio di lire.

Placida. Asino, senza creanza. (serra la finestra, e parte)

Don Marzio. Non si degna di due lire, e l’anno passato si degnava di meno9. Ridolfo. (chiama forte)

SCENA XII.

Ridolfo e detto.

Ridolfo. Signore?

Don Marzio. Carestia di donne. Non si degnano di due lire.

Ridolfo. Ma ella le mette tutte in un mazzo.

Don Marzio. Roba che gira il mondo? Me ne rido. [p. 259 modifica]

Ridolfo. Gira il mondo anche della gente onorata.

Don Marzio. Pellegrina! Ah, buffone!

Ridolfo. Non si può saper chi sia quella pellegrina.

Don Marzio. Lo so10. È quella dell’anno passato.

Ridolfo. Io non l’ho più veduta.

Don Marzio. Perchè sei un balordo.

Ridolfo. Grazie alla sua gentilezza11. (Mi vien volontà di pettinargli quella parrucca). (da sè)

SCENA XIII.

Eugenio dal giuoco, e detti.

Eugenio. Schiavo, signori, padroni cari. (allegro e ridente)

Ridolfo. Come! Qui il signore Eugenio?

Eugenio. Certo; qui sono12. (ridendo)

Don Marzio. Avete vinto?

Eugenio. Sì signore, ho vinto, sì signore.

Don Marzio. Oh, che miracolo!

Eugenio. Che gran caso! Non posso vincere io? Chi sono io? Sono uno stordito?

Ridolfo. Signor Eugenio, è questo il proponimento di non giuocare?

Eugenio. State zitto. Ho vinto.

Ridolfo. E se perdeva?

Eugenio. Oggi non potevo perdere.

Ridolfo. No? Perchè?

Eugenio. Quando ho da perdere, me lo sento.

Ridolfo. E quando se lo sente, perchè giuoca?

Eugenio. Perchè ho da perdere.

Ridolfo. E a casa quando si va?

Eugenio. Via, mi principierete a seccare?

Ridolfo. Non dico altro. (Povere le mie parole!) (da sè) [p. 260 modifica]

SCENA XIV.

Leandro dalla bottega del giuoco, e detti.

Leandro. Bravo, bravo; mi ha guadagnati i miei denari; e s’io non lasciava stare13, mi sbancava.

Eugenio. Ah? Son uomo io? In tre tagli ho fatto il servizio.

Leandro. Mette da disperato.

Eugenio. Metto da giuocatore.

Don Marzio. Quanto vi ha guadagnato? (a Leandro)

Leandro. Assai.

Don Marzio. Ma pure, quanto avete vinto? (ad Eugenio)

Eugenio. Ehi; sei zecchini. (con allegria)

Ridolfo. (Oh pazzo maledetto! Da ieri in qua ne ha perduti cento e trenta, e gli pare aver vinto un tesoro ad averne guadagnati sei). (da sè)

Leandro. (Qualche volta bisogna lasciarsi vincere, per allettare). (da sè)

Don Marzio. Che volete voi fare di questi sei zecchini? (ad Eugenio)

Eugenio. Se volete che li mangiamo, io ci sono14.

Don Marzio. Mangiamoli pure.

Ridolfo. (O povere le mie fatiche!) (da sè)

Eugenio. Andiamo all’osteria? Ognuno pagherà la sua parte.

Ridolfo. (Non vi vada, la tireranno a giuocare). (piano ad Eugenio)

Eugenio. (Lasciateli15 fare: oggi sono in fortuna), (piano a Ridolfo)

Ridolfo. (Il male non ha rimedio). (da sè)

Leandro. In vece di andare all’osteria, potremmo far preparare qui sopra, nei camerini di messer Pandolfo.

Eugenio. Sì, dove volete; ordineremo il pranzo qui alla locanda, e lo faremo portar là sopra.

Don Marzio. Io con voi altri che siete galantuomini, vengo per tutto.

Ridolfo. (Povero gonzo! Non se ne accorge). (da sè)

Leandro. Ehi, messer Pandolfo. [p. 261 modifica]

SCENA XV.

Pandolfo dal giuoco, e detti.

Ridolfo. Son qui a servirla.

Leandro. Volete farci il piacere di prestarci i vostri stanzini per desinare?

Ridolfo. Son padroni; ma vede, anch’io... pago la pigione...

Leandro. Si sa, pagheremo l’incomodo.

Eugenio. Con chi credete aver che fare? Pagheremo tutto.

Ridolfo. Benissimo, che si servano. Vado a far ripulire16. (va in bottega del giuoco)

Eugenio. Via, chi va a ordinare?

Leandro. Tocca a voi, come più pratico del paese. (ad Eugenio)

Don Marzio. Sì, fate voi. (ad Eugenio)

Eugenio. Che cosa ho da ordinare?

Leandro. Fate voi.

Eugenio. Ma dice la canzone: L’allegria non è perfetta, quando manca la donnetta.

Ridolfo. (Anche di più vuol la donna!) (da se)

Don Marzio. Il signor Conte potrebbe far venire la ballerina.

Leandro. Perchè no? In una compagnia d’amici non ho difficoltà di farla venire.

Don Marzio. È vero che la volete sposare? (a Leandro)

Leandro. Ora non è tempo di parlare di queste cose.

Eugenio. Ed io vedrò di far venire la pellegrina.

Leandro. Chi è questa pellegrina?

Eugenio. Una donna civile e onorata.

Don Marzio. (Sì, sì, l’informerò io di tutto). (da sè)

Leandro. Via, andate a ordinare il pranzo.

Eugenio. Qanti siamo? Noi tre, due donne che fanno cinque. Signor don Marzio, avete dama?

Don Marzio. Io no. Son con voi. [p. 262 modifica]

Eugenio. Ridolfo, verrete anche voi a mangiare un boccone con noi.

Ridolfo. Le rendo grazie; io ho da badare alla mia bottega.

Eugenio. Eh via, non vi fate pregare.

Ridolfo. (Mi pare assai che abbia tanto cuore). (piano ad Eugenio)

Eugenio. Che volete voi fare? Giacchè ho vinto17 voglio godere.

Ridolfo. E poi?

Eugenio. E poi, buona notte: all’avvenire ci pensan gli astrologhi. (entra nella locanda)

Ridolfo. (Pazienza! Ho gettata via la fatica). (da sè, si ritira)

SCENA XVI.

Don Marzio e il conte Leandro.


Don Marzio. Via, andate a prendere la ballerina.

Leandro. Quando sarà preparato, la farò venire.18

Don Marzio. Sediamo. Che cosa v’è di nuovo delle cose del mondo?

Leandro. Io di nuove non me ne diletto. (siedono)

Don Marzio. Avete saputo che le truppe moscovite sono andate a quartier d’inverno?

Leandro. Hanno fatto bene: la stagione lo richiedeva.

Don Marzio. Signor no, hanno fatto male; non dovevano abbandonare il posto che avevano occupato.

Leandro. È vero. Dovevano soffrire il freddo, per non perdere l’acquistato.

Don Marzio. Signor no: non avevano da arrischiarsi a star lì, con pericolo di morire nel ghiaccio.

Leandro. Dovevano dunque tirare avanti.

Don Marzio. Signor no. Oh che bravo intendente di guerra! Marciar nella stagione d’inverno!

Leandro. Dunque, che cosa avevano da fare? [p. 263 modifica]

Don Marzio. Lasciate ch’io veda la carta geografica, e poi vi dirò per l’appunto dove avevano a andare.

Leandro. (Oh che bel pazzo!) (da sè)

Don Marzio. Siete stato all’opera?

Leandro. Signor sì.

Don Marzio. Vi piace?

Leandro. Assai.

Don Marzio. Siete di cattivo gusto.

Leandro. Pazienza.

Don Marzio. Di che paese siete?

Leandro. Di Torino.

Don Marzio. Brutta città.

Leandro. Anzi passa per una delle belle d’Italia.

Don Marzio. Io sono napolitano. Vedi Napoli e poi muori.

Leandro. Vi darei la risposta del Veneziano19.

Don Marzio. Avete tabacco?

Leandro. Eccolo. (gli apre la scatola)

Don Marzio. Oh che cattivo tabacco!

Leandro. A me piace così.

Don Marzio. Non ve n’intendete. Il vero tabacco è il rapè.

Leandro. A me piace il tabacco di Spagna.

Don Marzio. Il tabacco di Spagna è una porcheria.

Leandro. Ed io dico che è il miglior tabacco che si possa prendere.

Don Marzio. Come! A me volete insegnare che cos’è tabacco? Io ne faccio, ne faccio fare, ne compro di qua, ne compro di là. So quel che è questo, so quel che è quello. Rapè, rapè, vuol essere rapè. (gridando forte)

Leandro. (Forte ancor esso) Signor sì, rapè, rapè, è vero; il miglior tabacco è il rapè.

Don Marzio. Signor no. Il miglior tabacco non è sempre il rapè. Bisogna distinguere; non sapete quel che20 vi dite. [p. 264 modifica]

SCENA XVII.

Eugenio ritorna dalla locanda, e detti.

Eugenio. Che è questo strepito?

Don Marzio. Di tabacco non la cedo a nessuno.

Leandro. Come va il desinare? (ad Eugenio)

Eugenio. Sarà presto fatto.

Don Marzio. Viene la pellegrina?

Eugenio. Non vuol venire.

Don Marzio. Via, signor dilettante di tabacco, andate a prendere la vostra signora.

Leandro. Vado. (Se a tavola fa così, gli tiro un tondo nel mostaccio).21 (picchia dalla ballerina)

Don Marzio. Non avete le chiavi?

Leandro. Signor no. (gli aprono ed entra)

Don Marzio. Avrà quelle della porta di dietro. (ad Eugenio)

Eugenio. Mi dispiace che la pellegrina non vuol venire.

Don Marzio. Farà per farsi pregare.

Eugenio. Dice che assolutamente non è più stata in Venezia.

Don Marzio. A me non lo direbbe.

Eugenio. Siete sicuro che sia quella?

Don Marzio. Sicurissimo; e poi, se poco fa ho parlato con lei e mi voleva aprire... Basta, non sono andato, per non far torto all’amico.

Eugenio. Avete parlato con lei?

Don Marzio. E come!

Eugenio. Vi ha conosciuto?

Don Marzio. E chi non mi conosce? Sono conosciuto più della betonica.

Eugenio. Dunque fate una cosa. Andate voi a farla venire.

Don Marzio. Se vi vado io, avrà soggezione. Fate così: aspettate che sia in tavola; andatela a prendere, e senza dir nulla conducetela su.

Eugenio. Ho fatto quanto ho potuto, e m’ha detto liberamente che non vuol venire. [p. 265 modifica]

SCENA XVIII.

Camerieri di locanda, che portano tovaglia, tovaglioli, tondini, posate, vino, pane, bicchieri e pietanze in bottega di Pandolfo, andando e tornando varie volte; poi Leandro, Lisaura e detti.

Cameriere. Signori, la minestra è in tavola. (va cogli altri in bottega del giuoco)

Eugenio. Il Conte dov’è? (a don Marzio)

Don Marzio. (Batte forte alla porta di Lisaura) Animo, presto, la zuppa si fredda.

Leandro. (Dando mano a Lisaura) Eccoci, eccoci.

Eugenio. Padrona mia riverita. (a Lisaura)

Don Marzio. Schiavo suo. (a Lisaura, guardandola coll’occhialetto)

Lisaura. Serva di lor signori.

Eugenio. Godo che siamo degni della sua compagnia. (a Lisaura)

Lisaura. Per compiacere il signor Conte.

Don Marzio. E per noi niente?

Lisaura. Per lei, particolarmente, niente affatto.

Don Marzio. Siamo d’accordo. (Di questa sorta di roba non mi degno). (piano ad Eugenio)

Eugenio. Via, andiamo, che la minestra patisce: resti servita. (a Lisaura)

Lisaura. Con sua licenza, (entra con Leandro nella bottega nel giuoco)

Don Marzio. Ehi! Che roba! Non ho mai veduta la peggio. (ad Eugenio, col suo occhialetto, poi entra nella bisca)

Eugenio. Nè anche la volpe non voleva le ciriegie. Io per altro mi degnerei. (entra ancor esso)

SCENA XIX.

Ridolfo dalla bottega.


Ridolfo. Eccolo lì, pazzo più che mai. A tripudiare22 con donne, e sua moglie sospira, e sua moglie patisce. Povera donna23! Quanto mi fa compassione. [p. 266 modifica]

SCENA XX.

Eugenio, Don Marzio, Leandro e Lisaura nelli stanzini della biscaccia, aprono le tre finestre che sono sopra le tre botteghe, ove sta preparato il pranzo, e si fanno vedere dalle medesime.

Ridolfo in istrada, poi Trappola.

Eugenio. Oh che bell’aria! Oh che bel sole! Oggi non è niente freddo. (alla finestra)

Don Marzio. Pare propriamente di primavera. (ad altra finestra)

Leandro. Qui almeno si gode la gente che passa, (ad altra finestra)

Lisaura. Dopo pranzo vedremo le maschere. (vicina a Leandro)

Eugenio. A tavola, a tavola. (siedono, restando Eugenio e Leandro vicini alla finestra)

Trappola. Signor padrone, che cos'è questo strepito? (a Ridolfo)

Ridolfo. Quei pazzo del signor Eugenio col signor don Marzio, ed il Conte colla ballerina, che pranzano qui sopra nei camerini di messer Pandolfo.

Trappola. Oh bella! (vien fuori, guarda in alto) Buon prò a lor signori. (verso le finestre)

Eugenio. (Dalla finestra) Trappola, evviva.

Trappola. Evviva. Hanno bisogno d’aiuto?

Eugenio. Vuoi venire a dar da bere?

Trappola. Darò da bere, se mi daranno da mangiare;

Eugenio. Vieni, vieni, che mangerai.

Trappola. Signor padrone, con licenza. (a Ridolfo) (Va per entrare nella bisca, ed un cameriere lo trattiene.)

Cameriere. Dove andate? (a Trappola)

Trappola. A dar da bere ai miei padroni.

Cameriere. Non hanno bisogno di voi: ci siamo noi altri.

Trappola. Mi è stato detto una volta, che oste in latino vuol dir nemico. Osti veramente nemici del pover’uomo!

Eugenio. Trappola, vieni su.

Trappola. Vengo. A tuo dispetto. (al cameriere, ed entra)

Cameriere. Badate ai piatti, che non si attacchi sui nostri avanzi. (entra in locanda) [p. 267 modifica]

Ridolfo. Io non so come si possa dare al mondo gente di così poco giudizio! Il signor Eugenio vuole andare in rovina, si vuole precipitare per forza. A me, che ho fatto tanto per lui, che vede con che cuore, con che amore lo tratto, corrisponde così? Mi burla, mi fa degli scherzi? Basta: quel che ho fatto, l’ho fatto per bene, e del bene non mi pentirò mai.

Eugenio. Signor don Marzio, e viva questa signora, (forte, bevendo)

Tutti. E viva, e viva.

SCENA XXI.

Vittoria mascherata, e detti.

Vittoria. (Passeggia avanti la bottega del caffè, osservando se vi è suo marito.)

Ridolfo. Che c’è24 signora maschera? che comanda?

Eugenio. Vivano i buoni amici. (bevendo)

Vittoria. (Sente la voce di suo marito, si avanza, guarda in alto, lo vede e smania.)

Eugenio. Signora maschera, alla sua salute. (Col bicchiere di vino fuor della finestra, fa un brindisi a Vittoria, non conoscendola.)

Vittoria. (Freme e dimena il capo.)

Eugenio. Comanda restar servita? È padrona, qui siamo tutti galantuommi. (a Vittoria, come sopra)

Lisaura. Chi è questa maschera che volete invitare? (dalla finestra)

Vittoria. (Smania.)

SCENA XXII.

Camerieri con altra portata vengono dalla locanda, ed entrano nella solita bottega; e detti.

Ridolfo. E chi paga? Il gonzo.

Eugenio. Signora maschera, se non vuol venire, non importa. Qui abbiamo qualche cosa meglio di lei. (a Vittoria, come sopra)

Vittoria. Oimè! mi sento25 male. Non posso più.

Ridolfo. Signora maschera, si sente26 male? (a Vittoria) [p. 268 modifica]

Vittoria. Ah Ridolfo, aiutatemi per carità. (si leva la maschera)

Ridolfo. Ella è qui?

Vittoria. Son io, pur troppo.

Ridolfo. Beva un poco di rosolio.

Vittoria. No, datemi dell’acqua.

Ridolfo. Eh, no acqua, vuol esser rosolio. Quando gli spiriti sono oppressi, vi vuol qualche cosa che li metta in moto. Favorisca, venga dentro.

Vittoria. Voglio andar su da quel cane; voglio ammazzarmi sugli occhi suoi.

Ridolfo. Per amor del cielo, venga qui, s’acquieti.

Eugenio. Evviva quella bella giovinotta. Cari quegli occhi! (bevendo)

Vittoria. Lo sentite il briccone? Lo sentite? Lasciatemi andare.

Ridolfo. Non sarà mai vero, che io la lasci precipitare. (la trattiene)

Vittoria. Non posso più. Aiuto, ch’io muoro. (cade svenuta)

Ridolfo. Ora sto bene. (la va aiutando e sostenendo alla meglio)

SCENA XXIII.

Placida sulla porta della locanda, e detti.

Placida. Oh cielo! Dalla finestra mi parve sentire la voce di mio marito; s’egli fosse qui27, sarei giunta bene in tempo a svergognarlo. (esce il cameriere dalla biscaccia) Quel giovine, ditemi in grazia, chi vi è lassù in quei camerini? (al cameriere che viene dalla biscaccia)

Cameriere. Tre galantuomini. Uno il signor Eugenio, l’altro il signor don Marzio, napolitano, ed il terzo il signor conte Leandro Ardenti.

Placida. (Fra questi non vi è Flaminio, quando non si fosse cangiato nome). (da sè)

Leandro. E viva la bella fortuna del signor Eugenio. (bevendo)

Tutti. E viva. [p. 269 modifica]

Placida. (Questi è mio marito senz’altro). (da sè) Caro galantuomo, fatemi un piacere, conducetemi su da questi signori, che voglio far loro una burla. (al cameriere)

Cameriere. Sarà servita. (Solita carica dei camerieri). (da sè; l’introduce per la solita bottega del giuoco)

Ridolfo. Animo, prenda28 coraggio, non sarà niente. (a Vittoria)

Vittoria. Io mi sento morire. (rinviene)
(Dalle finestre dei camerini si vedono alzarsi tutti da tavola in confusione, per la sorpresa di Leandro vedendo Placida, e perchè mostra di volerla uccidere.)

Eugenio. No, fermatevi.

Don Marzio. Non fate.

Leandro. Levati di qui.

Placida. Aiuto, aiuto. (Fugge via per la scala. Leandro vuol seguitarla colla spada, Eugenio lo trattiene.)

Trappola. (Con un tondino di roba in un tovagliuolo, salta da una finestra e fugge in bottega del caffè.)

Placida. (Esce dalla bisca correndo e fugge nella locanda.)

Eugenio. (Con arme alla mano in difesa di Placida, contro Leandro che la inseguisce.)

Don Marzio. (Esce pian piano dalla biscaccia e fugge via, dicendo) Rumores fuge.

Camerieri. (Dalla bisca passano nella locanda e serrano la porta.)

Vittoria. (Resta in bottega, assistita da Ridolfo.)

Leandro. Liberate il passo. Voglio entrare in quella locanda. (colla spada alla mano, contro Eugenio)

Eugenio. No, non sarà mai vero. Siete un barbaro contro la vostra29 moglie, ed io la difenderò sino all’ultimo sangue.

Leandro. Giuro al cielo, ve ne pentirete, (incalza Eugenio colla spada)

Eugenio. Non ho paura di voi.
(Incalza Leandro e l’obbliga rinculare tanto che trovando la casa della ballerina aperta, entra in quella e si salva.) [p. 270 modifica]

SCENA XXIV.

Eugenio, Vittoria e Ridolfo.

Eugenio. Vile, codardo, fuggi? Ti nascondi? Vien fuori, se hai coraggio30. (bravando verso la porta della ballerina)

Vittoria. Se volete sangue, spargete il mio. (si presenta ad Eugenio)

Eugenio. Andate via di qui, donna pazza, donna senza cervello.

Vittoria. Non sarà mai vero ch’io mi stacchi viva da voi.

Eugenio. Corpo di bacco, andate via, che farò qualche sproposito. (minacciandola colla spada)

Ridolfo. (Con arme alla mano, corre in difesa di Vittoria, e si presenta contro Eugenio) Che pretende di fare, padron mio? Che pretende? Crede, per aver quella spada, di atterrir tutto il mondo? Questa povera donna innocente non ha nessuno che la difenda, ma finchè avrò sangue, la difenderò io. Anche minacciarla? Dopo tanti strapazzi che le ha fatti, anche minacciarla? Signora, venga con me e non abbia timor di niente. (a Vittoria)

Vittoria. No, caro Ridolfo; se mio marito vuol la mia morte, lasciate che si soddisfaccia. Via, ammazzami, cane, assassino, traditore; ammazzami, disgraziato; uomo senza riputazione, senza cuore, senza coscienza.

Eugenio. (Rimette la spada nel fodero senza parlare, mortificato.)

Ridolfo. Ah, signor Eugenio, vedo che già è pentito, ed io le domando perdono, se troppo temerariamente ho parlato. V. S. sa se le voglio bene, e sa cosa ho fatto per lei, onde anche questo mio trasporto lo prenda per un effetto d’amore. Questa povera signora mi fa pietà. È possibile che le sue lagrime non inteneriscano il di lei cuore? (ad Eugenio)

Eugenio. (Si asciuga gli occhi e non parla.)

Ridolfo. Osservi, signora Vittoria, osservi il signor Eugenio, (piano a Vittoria) Piange, è intenerito, si pentirà, muterà vita, stia sicura che le vorrà bene.

Vittoria. Lagrime di coccodrillo. Quante volte mi ha promesso [p. 271 modifica] di mutar vita! Quante volte colle lagrime agli occhi mi ha incantata! Non gli credo più; è un traditore, non gli credo più.

Eugenio. (Freme tra il rossore e la rabbia. Getta il cappello in terra da disperato, e senza parlare va nella bottega interna del caffè.)

SCENA XXV.

Vittoria e Ridolfo.

Vittoria. Che vuol dire che non parla? (a Ridolfo)

Ridolfo. È confuso.

Vittoria. Che si sia in un momento cambiato?

Ridolfo. Credo di sì. Le dirò; se tanto ella, che io, non facevamo altro che piangere e che pregare, si sarebbe sempre più imbestialito. Quel poco di muso duro che abbiamo fatto, quel poco di bravata l’ha messo in soggezione, e l’ha fatto cambiare. Conosce il fallo, vorrebbe scusarsi, e non sa come fare.

Vittoria. Caro Ridolfo, andiamolo a consolare.

Ridolfo. Questa è una cosa che l’ha da fare V. S., senza di me.

Vittoria. Andate prima voi, sappiatemi dire come ho da contenermi.

Ridolfo. Volentieri. Vado a vedere; ma lo spero pentito. (entra in bottega)

SCENA XXVI.

Vittoria, poi Ridolfo.

Vittoria. Questa è l’ultima volta che mi vede piangere. O si pente, e sarà il mio caro marito, o persiste, e non sarò più buona a soffrirlo.

Ridolfo. Signora Vittoria, cattive nuove; non vi è più! E andato via per la porticina.

Vittoria. Non ve l’ho detto ch’è perfido, ch’è ostinato?

Ridolfo. Ed io credo che sia andato via per vergogna, pieno di confusione, per non aver coraggio di chiederle scusa, di domandarle perdono. [p. 272 modifica]

Vittoria. Eh, che da una moglie tenera, come son io, sa egli quanto facilmente può ottenere il perdono.

Ridolfo. Osservi. E andato via senza il cappello. (prende il cappello in terra)

Vittoria. Perchè è un pazzo.

Ridolfo. Perchè è confuso: non sa quel che si faccia.

Vittoria. Ma se è pentito, perchè non dirmelo?

Ridolfo. Non ha coraggio.

Vittoria. Ridolfo, voi mi lusingate.

Ridolfo. Faccia così; si ritiri nel mio camerino; lasci che io vada a ritrovarlo, e spero di condurglielo qui, come un cagnolino.

Vittoria. Quanto sarebbe meglio, che non ci pensassi più!

Ridolfo. Anche per questa volta faccia a modo mio, e spero non si pentirà.

Vittoria. Sì, così farò. Vi aspetterò nel camerino. Voglio poter dire che ho fatto tutto31 per un marito. Ma se egli se ne abusa, giuro di cambiare in altrettanto sdegno l’amore32. (entra nella bottega interna)

Ridolfo. Se fosse un mio figlio, non avrei tanta pena33. (parte)

SCENA XXVII.

Lisaura sola dalla bottega del giuoco, osservando se vi è nessuno che la veda.

Lisaura. Oh! Povera me, che paura! Ah, Conte briccone! Ha moglie, e mi lusinga di volermi sposare! In casa mia non lo voglio mai più. Quant’era meglio ch’io seguitassi a ballare e non concepissi la malinconia di diventare contessa. Piace un poco troppo a noi altre donne il viver senza fatica. (entra nella sua casa e chiude la porta)

Fine dell’Atto Secondo.


Note

  1. Bett.: dentro.
  2. Bett. e Pap. aggiungono: e se ne è andato con lei.
  3. Segue subito nell’ed. Bett.: Spenda quelli, e poi qualche cosa ecc.
  4. Bett., Pap. ecc.: obbligato della vita.
  5. Bett.: ito.
  6. Bett.: cosa.
  7. Bett.: presto bottega.
  8. Bett.: lei ha.
  9. Bett., Pap. ecc.: d’un tràiro.
  10. Bett., Pap. ecc.: lo so, lo so.
  11. Bett.: Grazie a lei.
  12. Bett.: E come che sono qua.
  13. Bett.: se non tralasciavo io.
  14. Bett.: ci sto.
  15. Così Zatta; Bettin., Paper., Pasq. ecc.: Lasciali.
  16. Segue nelle edd. Bett., Pap. ecc.: «Lean. (Ehi? Carte), piano a Pandolfo. Pand. (Ma di balla), piano a Leandro. Lean. (Basta il quinto?) piano a Pandolfo. Pand. (Sì, son contento). va in bottega del giuoco ecc.».
  17. Bett.: guadagnato.
  18. Bett. continua: Sediamo un poco.
  19. Bett., Pap. ecc. aggiungono: ma il cuor lavora.
  20. Bett.: cosa.
  21. Bett.: gli getto un bicchiere di vino nella faccia.
  22. Bett.: A mangiare, a tripudiare; Pap.: A gozzovigliare, a tripudiare.
  23. Bett., Pap. ecc.: creatura.
  24. Bett.: Cos’è.
  25. Bett.: vien.
  26. Bett.: le vien.
  27. Bett., Pap. ecc.: se fosse lui.
  28. Bett.: si dia.
  29. Bett. aggiunge: povera.
  30. Bett., Pap. ecc. aggiungono: Giuro al cielo, ti caverò tutto il sangue.
  31. Bett., Pap. ecc.: tutto il fattibile.
  32. Bett., Pap. ecc.: tutto l’amore.
  33. Bett., Pap. ecc. aggiungono: Sono stato allevato in casa sua, lo assisto per inclinazione, per gratitudine e per compassione.