Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1909, IV.djvu/278

268 ATTO SECONDO

Vittoria. Ah Ridolfo, aiutatemi per carità. (si leva la maschera)

Ridolfo. Ella è qui?

Vittoria. Son io, pur troppo.

Ridolfo. Beva un poco di rosolio.

Vittoria. No, datemi dell’acqua.

Ridolfo. Eh, no acqua, vuol esser rosolio. Quando gli spiriti sono oppressi, vi vuol qualche cosa che li metta in moto. Favorisca, venga dentro.

Vittoria. Voglio andar su da quel cane; voglio ammazzarmi sugli occhi suoi.

Ridolfo. Per amor del cielo, venga qui, s’acquieti.

Eugenio. Evviva quella bella giovinotta. Cari quegli occhi! (bevendo)

Vittoria. Lo sentite il briccone? Lo sentite? Lasciatemi andare.

Ridolfo. Non sarà mai vero, che io la lasci precipitare. (la trattiene)

Vittoria. Non posso più. Aiuto, ch’io muoro. (cade svenuta)

Ridolfo. Ora sto bene. (la va aiutando e sostenendo alla meglio)

SCENA XXIII.

Placida sulla porta della locanda, e detti.

Placida. Oh cielo! Dalla finestra mi parve sentire la voce di mio marito; s’egli fosse qui1, sarei giunta bene in tempo a svergognarlo. (esce il cameriere dalla biscaccia) Quel giovine, ditemi in grazia, chi vi è lassù in quei camerini? (al cameriere che viene dalla biscaccia)

Cameriere. Tre galantuomini. Uno il signor Eugenio, l’altro il signor don Marzio, napolitano, ed il terzo il signor conte Leandro Ardenti.

Placida. (Fra questi non vi è Flaminio, quando non si fosse cangiato nome). (da sè)

Leandro. E viva la bella fortuna del signor Eugenio. (bevendo)

Tutti. E viva.

  1. Bett., Pap. ecc.: se fosse lui.