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266 ATTO SECONDO

SCENA XX.

Eugenio, Don Marzio, Leandro e Lisaura nelli stanzini della biscaccia, aprono le tre finestre che sono sopra le tre botteghe, ove sta preparato il pranzo, e si fanno vedere dalle medesime.

Ridolfo in istrada, poi Trappola.

Eugenio. Oh che bell’aria! Oh che bel sole! Oggi non è niente freddo. (alla finestra)

Don Marzio. Pare propriamente di primavera. (ad altra finestra)

Leandro. Qui almeno si gode la gente che passa, (ad altra finestra)

Lisaura. Dopo pranzo vedremo le maschere. (vicina a Leandro)

Eugenio. A tavola, a tavola. (siedono, restando Eugenio e Leandro vicini alla finestra)

Trappola. Signor padrone, che cos'è questo strepito? (a Ridolfo)

Ridolfo. Quei pazzo del signor Eugenio col signor don Marzio, ed il Conte colla ballerina, che pranzano qui sopra nei camerini di messer Pandolfo.

Trappola. Oh bella! (vien fuori, guarda in alto) Buon prò a lor signori. (verso le finestre)

Eugenio. (Dalla finestra) Trappola, evviva.

Trappola. Evviva. Hanno bisogno d’aiuto?

Eugenio. Vuoi venire a dar da bere?

Trappola. Darò da bere, se mi daranno da mangiare;

Eugenio. Vieni, vieni, che mangerai.

Trappola. Signor padrone, con licenza. (a Ridolfo) (Va per entrare nella bisca, ed un cameriere lo trattiene.)

Cameriere. Dove andate? (a Trappola)

Trappola. A dar da bere ai miei padroni.

Cameriere. Non hanno bisogno di voi: ci siamo noi altri.

Trappola. Mi è stato detto una volta, che oste in latino vuol dir nemico. Osti veramente nemici del pover’uomo!

Eugenio. Trappola, vieni su.

Trappola. Vengo. A tuo dispetto. (al cameriere, ed entra)

Cameriere. Badate ai piatti, che non si attacchi sui nostri avanzi. (entra in locanda)