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260 | ATTO SECONDO |
SCENA XIV.
Leandro dalla bottega del giuoco, e detti.
Leandro. Bravo, bravo; mi ha guadagnati i miei denari; e s’io non lasciava stare1, mi sbancava.
Eugenio. Ah? Son uomo io? In tre tagli ho fatto il servizio.
Leandro. Mette da disperato.
Eugenio. Metto da giuocatore.
Don Marzio. Quanto vi ha guadagnato? (a Leandro)
Leandro. Assai.
Don Marzio. Ma pure, quanto avete vinto? (ad Eugenio)
Eugenio. Ehi; sei zecchini. (con allegria)
Ridolfo. (Oh pazzo maledetto! Da ieri in qua ne ha perduti cento e trenta, e gli pare aver vinto un tesoro ad averne guadagnati sei). (da sè)
Leandro. (Qualche volta bisogna lasciarsi vincere, per allettare). (da sè)
Don Marzio. Che volete voi fare di questi sei zecchini? (ad Eugenio)
Eugenio. Se volete che li mangiamo, io ci sono2.
Don Marzio. Mangiamoli pure.
Ridolfo. (O povere le mie fatiche!) (da sè)
Eugenio. Andiamo all’osteria? Ognuno pagherà la sua parte.
Ridolfo. (Non vi vada, la tireranno a giuocare). (piano ad Eugenio)
Eugenio. (Lasciateli3 fare: oggi sono in fortuna), (piano a Ridolfo)
Ridolfo. (Il male non ha rimedio). (da sè)
Leandro. In vece di andare all’osteria, potremmo far preparare qui sopra, nei camerini di messer Pandolfo.
Eugenio. Sì, dove volete; ordineremo il pranzo qui alla locanda, e lo faremo portar là sopra.
Don Marzio. Io con voi altri che siete galantuomini, vengo per tutto.
Ridolfo. (Povero gonzo! Non se ne accorge). (da sè)
Leandro. Ehi, messer Pandolfo.