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LA BOTTEGA DEL CAFFÈ | 265 |
SCENA XVIII.
Camerieri di locanda, che portano tovaglia, tovaglioli, tondini, posate, vino, pane, bicchieri e pietanze in bottega di Pandolfo, andando e tornando varie volte; poi Leandro, Lisaura e detti.
Cameriere. Signori, la minestra è in tavola. (va cogli altri in bottega del giuoco)
Eugenio. Il Conte dov’è? (a don Marzio)
Don Marzio. (Batte forte alla porta di Lisaura) Animo, presto, la zuppa si fredda.
Leandro. (Dando mano a Lisaura) Eccoci, eccoci.
Eugenio. Padrona mia riverita. (a Lisaura)
Don Marzio. Schiavo suo. (a Lisaura, guardandola coll’occhialetto)
Lisaura. Serva di lor signori.
Eugenio. Godo che siamo degni della sua compagnia. (a Lisaura)
Lisaura. Per compiacere il signor Conte.
Don Marzio. E per noi niente?
Lisaura. Per lei, particolarmente, niente affatto.
Don Marzio. Siamo d’accordo. (Di questa sorta di roba non mi degno). (piano ad Eugenio)
Eugenio. Via, andiamo, che la minestra patisce: resti servita. (a Lisaura)
Lisaura. Con sua licenza, (entra con Leandro nella bottega nel giuoco)
Don Marzio. Ehi! Che roba! Non ho mai veduta la peggio. (ad Eugenio, col suo occhialetto, poi entra nella bisca)
Eugenio. Nè anche la volpe non voleva le ciriegie. Io per altro mi degnerei. (entra ancor esso)
SCENA XIX.
Ridolfo dalla bottega.
Ridolfo. Eccolo lì, pazzo più che mai. A tripudiare1 con donne, e sua moglie sospira, e sua moglie patisce. Povera donna2! Quanto mi fa compassione.