La bottega del caffè/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Ridolfo, Trappola e altri garzoni.
Ridolfo. Animo, figliuoli, portatevi bene; siate lesti e pronti a servir gli avventori con civiltà, con proprietà: perchè tante volte dipende il credito di una bottega dalla buona maniera di quei che servono.
Trappola. Caro signor padrone, per dirvi la verità, questo levarsi di buon’ora non è niente fatto per la mia complessione.
Ridolfo. Eppure bisogna levarsi presto. Bisogna servir tutti. A buon’ora vengono quelli che hanno da far viaggio1. I lavoranti, i barcaruoli, i marinai, tutta gente che si alza di buon mattino.
Trappola. È veramente una cosa che fa crepar di ridere, veder anche i facchini venir a bevere il loro caffè.
Ridolfo. Tutti cercan di fare quello che fanno gli altri. Una volta correva l’acquavite, adesso è in voga il caffè.
Trappola. E quella signora, dove porto il caffè tutte le mattine, quasi sempre mi prega che io le compri quattro soldi di legna, e pur vuol bever2 il suo caffè.
Ridolfo. La gola è un vizio che non finisce mai, ed è quel vizio che cresce sempre, quanto più l’uomo invecchia.
Trappola. Non si vede venir nessuno a bottega, si poteva dormire un’altra oretta.
Ridolfo. Or ora verrà della gente; non è poi tanto di buon’ora. Non vedete? Il barbiere ha aperto, è in bottega lavorando3 parrucche. Guarda, anche il botteghino del giuoco è aperto.
Trappola. Oh! in quanto poi a questa biscazza, è aperta che è un pezzo. Hanno fatto nottata.
Ridolfo. Buono. A messer Pandolfo avrà fruttato bene.
Trappola. A quel cane frutta sempre bene; guadagna nelle carte, guadagna negli scrocchi, guadagna a far di balla4 coi barattieri5. I denari di chi va là dentro, sono tutti suoi.
Ridolfo. Non v’innamoraste mai di questo guadagno, perchè la farina del diavolo va tutta in crusca.
Trappola. Quel povero signor Eugenio! Lo ha precipitato.
Ridolfo. Guardate anche quegli, che poco giudizio! Ha moglie, una giovine di garbo e di proposito, e corre dietro a tutte le donne, e poi di più giuoca da disperato.
Trappola. Piccole galanterie della gioventù moderna.
Ridolfo. Giuoca con quel conte Leandro, e li ha persi sicuri.
Trappola. Oh, quel signor Conte è un bel fior di virtù.
Ridolfo. Oh via, andate a tostare il caffè, per farne una caffettiera di fresco.
Trappola. Vi metto degli avanzi di ieri sera?
Ridolfo. No, fatelo buono.
Trappola. Signor padrone, ho poca memoria. Quant’è che avete aperto bottega?
Ridolfo. Lo sapete pure. Saranno incirca otto mesi.
Trappola. È tempo da mutar costume.
Ridolfo. Come sarebbe a dire?
Trappola. Quando si apre una bottega nuova, si fa il caffè perfetto. Dopo sei mesi al più, acqua calda e brodo lungo. (parte)
Ridolfo. È grazioso costui; spero che farà bene per la mia bottega, perchè in quelle botteghe dove vi è qualcheduno che sappia fare il buffone, tutti corrono.
SCENA II.
Ridolfo e messer Pandolfo dalla bottega del giuoco,
strofinandosi gli occhi come assonnato.
Ridolfo. Messer Pandolfo, volete il caffè?
Ridolfo. Sì, mi farete piacere.
Ridolfo. Giovani, date il caffè a messer Pandolfo. Sedete, accomodatevi.
Ridolfo. No, no, bisogna che io lo beva presto, e che ritorni al travaglio. (un giovane porta il caffè a Pandolfo)
Ridolfo. Giuocano ancora in bottega?
Ridolfo. Si lavora a due telai.
Ridolfo. Così presto?
Ridolfo. Giuocano da ieri in qua.
Ridolfo. A che giuoco?
Ridolfo. A un giuoco innocente: prima e seconda6
Ridolfo. E come va?
Ridolfo. Per me va bene.
Ridolfo. Vi siete divertito anche voi a giuocare?
Ridolfo. Sì, anch’io ho tagliato un poco.
Ridolfo. Compatite, amico, io non ho da entrare nei vostri interessi, ma non istà bene che il padrone della bottega giuochi, perchè se perde, si fa burlare, e se guadagna, fa sospettare.
Ridolfo. A me basta che non mi burlino; del resto poi, che sospettino quanto vogliono, non ci penso.
Ridolfo. Caro amico, siamo vicini, e non vorrei che vi accadessero delle disgrazie. Sapete che per il vostro giuoco siete stato dell’altre volte in cattura.
Ridolfo. Mi contento di poco. Ho buscati due zecchini, e non ho voluto altro.
Ridolfo. Bravo, pelar la quaglia senza farla gridare. A chi gli avete vinti?
Ridolfo. Ad un garzone d’un orefice.
Ridolfo. Male, malissimo; così si dà mano ai giovani, perchè rubino ai loro padroni.
Ridolfo. Eh! non mi venite7 a moralizzare. Chi è gonzo, stia a casa sua. Io tengo giuoco per chi vuol giuocare.
Ridolfo. Tener giuoco stimo il meno; ma voi siete preso di mira per giuocator di vantaggio, e in questa sorta di cose si fa presto a precipitare.
Ridolfo. Io bricconate non ne fo. So giuocare; son fortunato, e per questo vinco8.
Ridolfo. Bravo, tirate innanzi così. Il signor Eugenio ha giuocato questa notte?
Ridolfo. Giuoca anche adesso. Non ha cenato, non ha dormito, e ha perso tutti i denari.
Ridolfo. (Povero giovine!) (da sè) Quanto avrà perduto?
Ridolfo. Cento zecchini in contanti; e ora perde sulla parola.
Ridolfo. Con chi giuoca?
Ridolfo. Col signor Conte.
Ridolfo. Con quello sì fatto?
Ridolfo. Appunto con quello.
Ridolfo. E con chi altri?
Ridolfo. Essi due soli: a testa a testa.
Ridolfo. Poveraccio! Sta fresco davvero!9
Pandolfo. Che importa? A me basta che scozzino10 delle carte assai.
Ridolfo. Non terrei giuoco, se credessi di farmi ricco.
Pandolfo. No? Per qual ragione?
Ridolfo. Mi pare che un galantuomo non debba soffrire di vedere assassinar la gente.
Pandolfo. Eh, amico, se sarete così delicato di pelle, farete pochi quattrini.
Ridolfo. Non me ne importa niente. Finora sono stato a servire, e ho fatto il mio debito onoratamente. Mi sono avanzato quattro soldi, e coll’aiuto del mio padrone di allora, ch’era il padre, come sapete, del signor Eugenio, ho aperta questa bottega, e con questa voglio vivere onoratamente, e non voglio far torto alla mia professione11.
Pandolfo. Oh, anche nella vostra professione vi sono de’ bei capi d’opera!
Ridolfo. Ve ne sono in tutte le professioni. Ma da quelli non vanno le persone ragguardevoli, che vengono alla mia bottega.
Pandolfo. Avete anche voi gli stanzini segreti.
Ridolfo. È vero; ma non si chiude la porta.
Pandolfo. Il caffè non potete negarlo a nessuno.
Ridolfo. Le chicchere non si macchiano.
Pandolfo. Eh via! Si serra un occhio.
Ridolfo. Non si serra niente; in questa bottega non vien che12 gente onorata.
Pandolfo. Sì, sì; siete principiante.
Ridolfo. Che vorreste dire?
(Gente dalla bottega del giuoco chiama.) Carte.
Pandolfo. La servo. (verso la sua bottega)
Ridolfo. Per carità, levate dal tavolino quel povero signor Eugenio.
Pandolfo. Per me, che perda anche la camicia; non ci penso. (s incammina verso la sua bottega)
Ridolfo. Amico, il caffè ho da notarlo?
Pandolfo. Niente, lo giuocheremo a primiera.
Ridolfo. Io non son gonzo, amico.
Pandolfo. Via, che serve? Sapete pure che i miei avventori si servono alla vostra bottega. Mi maraviglio che attendiate a queste piccole cose. (s’incammina)
(Tornano a chiamare.)
Pandolfo. Eccomi13! (entra nel giuoco)
Ridolfo. Bel mestiere! Vivere sulle disgrazie, sulla rovina della gioventù! Per me, non vi sarà mai pericolo che tenga giuoco. Si principia con i giuochetti, e poi si termina colla bassetta. No, no, caffè, caffè; giacchè col caffè si guadagna il cinquanta per cento, che cosa vogliamo cercar di più?
SCENA III.
Don Marzio e Ridolfo.
Ridolfo. (Ecco qui quel che non tace mai, e che sempre vuole aver ragione). (da sè)
Don Marzio. Caffè.
Ridolfo. Subito, sarà servita.
Don Marzio. Che vi è di nuovo, Ridolfo?
Ridolfo. Non saprei, signore.
Don Marzio. Non si è ancora veduto nessuno a questa vostra bottega?
Ridolfo. E per anco buon’ora.
Don Marzio. Buon’ora? Sono sedici ore sonate14.
Ridolfo. Oh illustrissimo no, non sono ancora quattordici.
Don Marzio. Eh via, buffone.
Ridolfo. Le assicuro io che le quattordici non son sonate.
Don Marzio. Eh via, asino.
Ridolfo. Ella mi strapazza senza ragione.
Don Marzio. Ho contato in questo punto le ore, e vi dico che sono sedici; e poi guardate il mio orologio: questo non fallisce mai. (gli mostra l’orologio)
Ridolfo. Bene; se il suo orologio non fallisce, osservi: il suo orologio medesimo mostra tredici ore e tre quarti.
Don Marzio. Eh, non può essere. (cava l'occhialetto e guarda)
Ridolfo. Che dice?
Don Marzio. Il mio orologio va male. Sono sedici ore. Le ho sentite io.
Ridolfo. Dove l’ha comprato quell’orologio?
Don Marzio. L’ho fatto venir di Londra.
Ridolfo. L’hanno ingannata.
Don Marzio. Mi hanno ingannato? Perchè?
Ridolfo. Le hanno mandato un orologio cattivo. (ironicamente)
Don Marzio. Come cattivo? È uno dei più perfetti che abbia fatto il Quarè15.
Ridolfo. Se fosse buono, non fallirebbe di due ore.
Don Marzio. Questo va sempre bene, non fallisce mai.
Ridolfo. Ma se fa quattordici ore meno un quarto, e dice che sono sedici16.
Don Marzio. Il mio orologio va bene.
Ridolfo. Dunque saranno or ora quattordici, come dico io.
Don Marzio. Sei un temerario. Il mio orologio va bene, tu dici male, e guarda ch’io non ti dia qualche cosa nel capo. (un giovane porta il caffè)
Ridolfo. È servita del caffè. (con isdegno)17 (Oh che bestiaccia!) (da sè)
Don Marzio. Si è veduto il signor Eugenio?
Ridolfo. Illustrissimo signor no.
Don Marzio. Sarà in casa a carezzare la moglie. Che uomo effeminato! Sempre moglie! Sempre moglie! Non si lascia più vedere, si fa ridicolo. È un uomo di stucco. Non sa quel che si faccia. Sempre moglie, sempre moglie. (bevendo il caffè)
Ridolfo. Altro che moglie! È stato tutta la notte a giuocare qui da messer Pandolfo.
Don Marzio. Se lo dico io. Sempre giuoco! Sempre giuoco! (dà la chicchera, e s’alza)
Ridolfo. (Sempre giuoco; sempre moglie; sempre il diavolo che se lo porti). (da sè)
Don Marzio. È venuto da me l’altro giorno, con tutta segretezza, a pregarmi che gli prestassi dieci zecchini sopra un paio d’orecchini di sua moglie.
Ridolfo. Vede bene; tutti gli uomini sono soggetti ad avere qualche volta bisogno, ma non hanno piacere poi che si sappia; e per questo sarà venuto da lei, sicuro che non dirà niente a nessuno.
Don Marzio. Oh, io non parlo. Fo volentieri servizio a tutti, e non me ne vanto. Eccoli qui; questi sono gli orecchini di sua moglie. Gli ho prestato dieci zecchini; vi pare che io sia al coperto? (mostra gli orecchini in una custodia)
Ridolfo. Io non me ne intendo, ma mi par di sì.
Don Marzio. Avete il vostro garzone?
Ridolfo. Vi sarà18.
Don Marzio. Chiamatelo. Ehi, Trappola.
SCENA IV.
Trappola dall’interno della bottega, e detti.
Trappola. Eccomi.
Don Marzio. Vieni qui. Va dal gioielliere qui vicino, fagli vedere questi orecchini, che sono della moglie del signor Eugenio, e dimandagli da parte mia, se io sono al coperto di dieci zecchini, che gli ho prestati.
Trappola. Sarà servita. Dunque questi orecchini sono della moglie del signor Eugenio?
Don Marzio. Sì, or ora non ha più niente; è morto di fame.
Ridolfo. (Meschino, in che mani è capitato!) (da sè)
Trappola. E al signor Eugenio non importa niente di far sapere i fatti suoi a tutti?
Don Marzio. Io sono una persona, alla quale si può confidare un segreto.
Trappola. Ed io sono una persona, alla quale non si può confidar niente.
Don Marzio. Perchè?
Trappola. Perchè ho un vizio, che ridico tutto con facilità.
Don Marzio. Male, malissimo; se farai così, perderai il credito, e nessuno si fiderà di te.
Trappola. Ma come ella l’ha detto a me, così io posso dirlo ad un altro.
Don Marzio. Va a vedere se il barbiere è a tempo per farmi la barba.
Trappola. La servo. (Per dieci quattrini vuol bevere il caffè, e vuole un servitore al suo comando). (da sè, entra dal barbiere)
Don Marzio. Ditemi, Ridolfo: che cosa fa quella ballerina qui vicina?
Ridolfo. In verità, non so niente.
Don Marzio. Mi è stato detto che il conte Leandro la tiene sotto la sua tutela.
Ridolfo. Con grazia, signore, il caffè vuol bollire. (Voglio badare a fatti miei). (da sè, entra in bottega)
SCENA V.
Trappola e Don Marzio.
Trappola. Il barbiere ha uno sotto; subito che avrà finito di scorticar quello, servirà V. S. Illustrissima.
Don Marzio. Dimmi: sai niente tu di quella ballerina, che sta qui vicino?
Trappola. Della signora Lisaura?
Don Marzio. Sì.
Trappola. So e non so.
Don Marzio. Raccontami qualche cosa.
Trappola. Se racconterò i fatti degli altri, perderò il credito, e nessuno si fiderà più di me.
Don Marzio. A me lo puoi dire. Sai chi sono; io non parlo. Il conte Leandro la pratica?
Trappola. Alle sue ore la pratica.
Don Marzio. Che vuol dire alle sue ore?
Trappola. Vuol dire, quando non è in caso di dar soggezione.
Don Marzio. Bravo; ora capisco. È un amico di buon cuore, che non vuole recarle pregiudizio.
Trappola. Anzi desidera che la si profitti, per far partecipe anche lui delle sue care grazie.
Don Marzio. Meglio! Oh, che Trappola malizioso! Va via, va a far vedere gli orecchini.
Trappola. Al gioielliere posso dire che sono della moglie del signor Eugenio?
Don Marzio. Sì, diglielo pure.
Trappola. (Fra il signor Marzio ed io, formiamo una bellissima segretaria). (da sè, parte)
SCENA VI.
Don Marzio, poi Ridolfo.
Don Marzio. Ridolfo.
Ridolfo. Signore.
Don Marzio. Se voi non sapete niente della ballerina, vi racconterò io.
Ridolfo. Io, per dirgliela, dei fatti degli altri non me ne curo molto.
Don Marzio. Ma sta bene saper qualche cosa, per potersi regolare. Ella è protetta da quella buona pezza19 del conte Leandro, ed egli dai profitti della ballerina ricava il prezzo della sua protezione. Invece di spendere, mangia tutto a quella povera diavola, e per cagione di lui forse è costretta a fare quello che non farebbe. Oh che briccone!
Ridolfo. Ma io son qui tutto il giorno; e posso attestare che in casa sua non vedo andare altri che il conte Leandro.
Don Marzio. Ha la porta di dietro; pazzo, pazzo! Sempre flusso, e riflusso. Ha la porta di dietro, pazzo!
Ridolfo. Io bado alla mia bottega; s’ella ha la porta di dietro, che importa a me? Io non vado a dar di naso a nessuno.
Don Marzio. Bestia! Così parli con un par mio? (s’alza
Ridolfo. Le domando perdono: non si può dire una facezia?
Don Marzio. Dammi un bicchier di rosolio.
Ridolfo. (Questa barzelletta mi costerà due soldi). (fa cenno ai giovani che dieno il rosolio)
Don Marzio. (Oh, questa poi della ballerina voglio che tutti la sappiano).
Ridolfo. Servita del rosolio.
Don Marzio. Flusso e riflusso, per la porta di dietro. (bevendo il rosolio)
Ridolfo. Ella starà male, quando ha il flusso e riflusso per la porta di dietro.
SCENA VII.
Eugenio dalla bottega del giuoco, vestito da notte e stralunato,
guardando il cielo e battendo i piedi; e detti.
Don Marzio. Schiavo, signor Eugenio.
Eugenio. Che ora è?
Don Marzio. Sedici ore sonate.
Ridolfo. E il suo orologio va bene.
Eugenio. Caffè.
Ridolfo. La servo subito. (va in bottega)
Don Marzio. Amico, com’è andata?
Eugenio. Caffè. (non abbadando a Don Marzio)
Ridolfo. Subito. (di lontano)
Don Marzio. Avete perso? (ad Eugenio)
Eugenio. Caffè. (gridando forte)
Don Marzio. (Ho inteso, li ha persi tutti). (da sè, va a sedere)
SCENA VIII.
Ridolfo dalla bottega del giuoco, e detti.
Ridolfo. Signor Eugenio, una parola. (lo tira in disparte)
Eugenio. So quel che volete dirmi. Ho perso trenta zecchini sulla parola. Son galantuomo, li pagherò.
Ridolfo. Ma il signor Conte è là che aspetta. Dice che ha esposto al pericolo i suoi denari, e vuol esser pagato.
Don Marzio. (Quanto pagherei a sentire che cosa dicono!) (da sè)
Ridolfo. Ecco il caffè. (ad Eugenio)
Eugenio. Andate via. (a Ridolfo) Ha vinti20 cento zecchini in contanti; mi pare che non abbia gettata via la notte, (a Pandolfo)
Ridolfo. Queste non sono parole da giuocatore; V. S. sa meglio di me come va l’ordine in materia di giuoco.
Ridolfo. Signore, il caffè si raffredda. (ad Eugenio)
Eugenio. Lasciatemi stare. (a Ridolfo)
Ridolfo. Se non lo voleva....
Eugenio. Andate via.
Ridolfo. Lo beverò io. (si ritira col caffè)
Don Marzio. (Che cosa21 dicono?) (a Ridolfo, che non gli risponde)
Eugenio. So ancor io che, quando si perde, si paga, ma quando non ve n’è, non si può pagare. (a Pandolfo)
Ridolfo. Sentite, per salvare la vostra riputazione, son uomo capace di ritrovare trenta zecchini.
Eugenio. Oh bravo! Caffè. (chiama forte)
Ridolfo. Ora bisogna farlo. (ad Eugenio)
Eugenio. Sono tre ore che domando caffè, e ancora non l’avete fatto?
Ridolfo. L’ho portato, ed ella mi ha cacciato via.
Ridolfo. Gliel’ordini con premura, che lo farà da suo pari.
Eugenio. Ditemi, vi dà l’animo di farmi un caffè, ma buono? Via, da bravo. (a Ridolfo)
Ridolfo. Quando mi dia tempo, la servo. (va in bottega)
Don Marzio. (Qualche grand’affare. Son curioso di saperlo). (da sè)
Eugenio. Animo, Pandolfo, trovatemi questi trenta zecchini.
Ridolfo. Io ho un amico che li darà; ma pegno e regalo.
Eugenio. Non mi parlate di pegno, che non facciamo niente. Ho quei panni a Rialto, che voi sapete; obbligherò quei panni, e quando li venderò, pagherò.
Don Marzio. (Pagherò. Ha detto pagherò. Ha perso sulla parola). (da sè)
Ridolfo. Bene; che cosa vuol dar di regalo?
Eugenio. Fate voi quel che credete a proposito.
Ridolfo. Senta; non vi vorrà meno di un zecchino alla settimana.
Eugenio. Un zecchino di usura alla settimana?
Ridolfo. (Col caffè) Servita del caffè. (ad Eugenio)
Eugenio. Andate via. (a Ridolfo)
Ridolfo. La seconda di cambio.
Eugenio. Un zecchino alla settimana? (a Pandolfo)
Ridolfo. Per trenta zecchini, è una cosa discreta.
Ridolfo. Lo vuole o non lo vuole? (ad Eugenio)
Eugenio. Andate via, che ve lo getto in faccia. (a Ridolfo)
Ridolfo. (Poveraccio! Il giuoco l’ha ubbriacato). (da sè, porta il caffè in bottega)
Don Marzio. (S’alza e va vicino ad Eugenio) Signor Eugenio, vi è qualche differenza? Volete che l’aggiusti io?
Eugenio. Niente, signor don Marzio: la prego lasciarmi stare.
Don Marzio. Se avete bisogno, comandate.
Eugenio. Le dico che non mi occorre niente.
Don Marzio. Messer Pandolfo, che avete voi col signor Eugenio?
Ridolfo. Un piccolo affare, che non abbiamo piacere di farlo sapere a tutto il mondo.
Don Marzio. Io sono amico del signor Eugenio, so tutti i fatti suoi, e sa che non parlo con nessuno. Gli ho prestati anche dieci zecchini sopra un paio d’orecchini, non è egli vero? e non l’ho detto a nessuno.
Eugenio. Si poteva anche risparmiare il dirlo adesso.
Don Marzio. Eh, qui con messer Pandolfo si può parlare con libertà. Avete perso sulla parola? Avete bisogno di nulla? Son qui.
Eugenio. Per dirgliela, ho perso sulla parola trenta zecchini.
Don Marzio. Trenta zecchini, e dieci che ve ne ho dati, sono quaranta; gli orecchini non possono valer tanto.
Ridolfo. Trenta zecchini glieli troverò io.
Don Marzio. Bravo; trovategliene quaranta; mi darete i miei dieci, e vi darò i suoi orecchini.
Eugenio. (Maladetto sia, quando mi sono impicciato con costui!) (da se)
Don Marzio. Perchè non prendete il danaro che vi offerisce il signor Pandolfo? (ad Eugenio)
Eugenio. Perchè vuole un zecchino alla settimana.
Ridolfo. Io per me non voglio niente; è l’amico che fa il servizio, che vuol così.
Eugenio. Fate una cosa: parlate col signor Conte, ditegli che mi dia tempo ventiquattr’ore; son galantuomo, lo pagherò.
Ridolfo. Ho paura ch’egli abbia da andar via, e che voglia il danaro subito.
Eugenio. Se potessi vendere una pezza o due di quei panni, mi spiccerei.
Ridolfo. Vuole che veda io di ritrovare il compratore?
Eugenio. Sì, caro amico, fatemi il piacere, che vi pagherò la vostra senseria.
Ridolfo. Lasci ch’io dica una parola al signor Conte, e vado subito. (entra nella bottega del giuoco)
Don Marzio. Avete perso molto? (ad Eugenio)
Eugenio. Cento zecchini che aveva riscossi ieri, e poi trenta sulla parola.
Don Marzio. Potevate portarmi i dieci che vi ho prestati.
Eugenio. Via, non mi mortificate più; ve li darò i vostri dieci zecchini.
Ridolfo. (Col tabarro e cappello, dalla sua bottega) Il signor Conte si è addormentato colla testa sul tavolino. Intanto vado a veder di far quel servizio. Se si risveglia, ho lasciato l’ordine al giovane, che gli dica il bisogno. V. S. non si parta di qui.
Eugenio. Vi aspetto in questo luogo medesimo.
Ridolfo. (Questo tabarro è vecchio; ora è il tempo di farmene un nuovo a ufo). (da sè, parte)
SCENA IX.
Don Marzio ed Eugenio, poi Ridolfo.
Don Marzio. Venite qui, sedete, beviamo il caffè.
Eugenio. Caffè. (siedono)
Ridolfo. A che giuoco giuochiamo, signor Eugenio? Si prende spasso de’ fatti miei?
Eugenio. Caro amico, compatite, sono stordito.
Ridolfo. Eh, caro signor Eugenio, se V. S. volesse badare a me, la non si troverebbe in tal caso.
Eugenio. Non so che dire, avete ragione.
Ridolfo. Vado a farle un altro caffè, e poi la discorreremo. (si ritira in bottega)
Don Marzio. Avete saputo della ballerina, che pareva non volesse nessuno? Il Conte la mantiene.
Eugenio. Credo di sì, che possa mantenerla; vince22 i zecchini a centinaia.
Don Marzio. Io ho saputo tutto.
Eugenio. Come l’avete saputo, caro amico?
Don Marzio. Eh! io so tutto. Sono informato di tutto. So quando vi va, quando esce. So quel che spende, quel che mangia; so tutto.
Eugenio. Il Conte è poi solo?
Don Marzio. Oibò; vi è la porta di dietro.
Ridolfo. (Col caffè) Ecco qui il terzo caffè. (ad Eugenio)
Don Marzio. Ah! Che dite, Ridolfo? So tutto io della ballerina?
Ridolfo. Io le ho detto un’altra volta, che non me ne intrico.
Don Marzio. Grand’uomo son io, per saper ogni cosa! Chi vuol sapere quel che passa in casa di tutte le virtuose e di tutte le ballerine, ha da venire da me.
Eugenio. Dunque questa signora ballerina è un capo23 d’opera.
Don Marzio. L’ho veramente scoperta come va. È roba di tutto gusto. Ah, Ridolfo, lo so io?
Ridolfo. Quando V. S. mi chiama in testimonio, bisogna ch’io dica la verità. Tutta la contrada la tiene per una donna da bene.
Don Marzio. Una donna da bene? Una donna da bene?
Ridolfo. Io le dico che in casa sua non vi va nessuno.
Don Marzio. Per la porta di dietro, flusso e riflusso.
Eugenio. E sì ella pare24 una ragazza più tosto savia.
Don Marzio. Sì, savia! Il conte Buonatesta la mantiene. Poi vi va chi vuole.
Eugenio. Io ho provato qualche volta a dirle delle paroline25, e non ho fatto niente.
Don Marzio. Avete un filippo da scommettere? Andiamo.
Ridolfo. (Oh che lingua!) (da sè)
Eugenio. Vengo qui a bever il caffè ogni giorno; e, per dirla, non ho veduto andarvi nessuno.
Don Marzio. Non sapete che ha la porta segreta qui nella strada remota26? Vanno per di là.
Eugenio. Sarà così.
Don Marzio. È senz’altro.
SCENA X.
Il Garzone del barbiere, e detti.
Garzone. Illustrissimo, se vuol farsi far la barba, il padrone l’aspetta. (a don Marzio)
Don Marzio. Vengo.27 E così come io vi dico. Vado a farmi la barba, e come torno, vi dirò il resto. (entra dal barbiere, e poi a tempo ritorna)
Eugenio. Che dite, Ridolfo? La ballerina si è tratta fuori.
Ridolfo. Cred’ella al signor don Marzio? Non sa la lingua ch’egli è?
Eugenio. Lo so che ha una lingua, che taglia e fende. Ma parla con tanta franchezza, che convien dire che ei sappia quello che dice28.
Ridolfo. Osservi, quella è la porta della stradetta. A star qui, la si vede; e giuro da uomo d’onore, che per di là in casa non va nessuno.
Eugenio. Ma il Conte la mantiene?
Ridolfo. Il Conte va per casa, ma si dice che la voglia sposare.
Eugenio. Se fosse così, non vi sarebbe male; ma dice il signor don Marzio che in casa vi va chi vuole.
Ridolfo. Ed io le dico che non vi va nessuno.
Don Marzio. (Esce dal barbiere col panno bianco al collo e la saponata sul viso)) Vi dico che vanno per la porta di dietro.
Garzone. Illustrissimo, l’acqua si raffredda.
Don Marzio. Per la porta di dietro, (entra dal barbiere col garzone)
SCENA XI.
Eugenio e Ridolfo.
Ridolfo. Vede? È un uomo di questa fatta. Colla saponata sul viso.
Eugenio. Sì, quando si è cacciata una cosa in testa, vuole che sia in quel modo.
Ridolfo. E dice29 male di tutti,
Eugenio. Non so come faccia a parlar sempre de’ fatti altrui.
Ridolfo. Le dirò: egli ha pochissime facoltà; ha poco da pensare a’ fatti suoi, e per questo pensa sempre a quelli degli altri.
Eugenio. Veramente è fortuna il non conoscerlo.
Ridolfo. Caro signor Eugenio, come ha ella fatto a intricarsi con lui? Non aveva altri da domandare dieci zecchini in prestito?
Eugenio. Anche voi lo sapete?
Ridolfo. L’ha detto qui pubblicamente in bottega30.
Eugenio. Caro amico, sapete come va: quando uno ha bisogno, si attacca a tutto.
Ridolfo. Anche questa mattina, per quel che ho sentito, V. S. si è attaccata poco bene.
Eugenio. Credete che messer Pandolfo mi voglia gabbare?
Ridolfo. Vedrà che razza di negozio le verrà a proporre31.
Eugenio. Ma che devo fare?32 Bisogna che io paghi trenta zecchini, che ho persi sulla parola. Mi vorrei liberare dal tormento di don Marzio. Ho qualche altra premura; se posso vendere due pezze di panno, fo tutti i fatti miei.
Ridolfo. Che qualità di panno è quello che vorrebbe esitare?
Eugenio. Panno padovano, che vale quattordici lire33 il braccio.
Ridolfo. Vuol ella che veda io di farglielo vendere con riputazione?
Eugenio. Vi sarei bene obbligato.
Ridolfo. Mi dia un poco di tempo, e lasci operare a me.
Eugenio. Tempo? volentieri. Ma quello aspetta i trenta zecchini.
Ridolfo. Venga qui, favorisca, mi faccia un ordine che mi sieno consegnate due pezze di panno, ed io medesimo le presterò i trenta zecchini.
Eugenio. Sì, caro, vi sarò obbligato. Saprò le mie obbligazioni.
Ridolfo. Mi maraviglio; non pretendo nemmeno un soldo. Lo farò per le obbligazioni ch’io ho colla buona memoria del suo signor padre, che è stato mio buon padrone, e dal quale riconosco la mia fortuna. Non ho cuor di vederla assassinare da questi cani.
Eugenio. Voi siete un gran galantuomo.
Ridolfo. Favorisca di stender l’ordine in carta.
Eugenio. Son qui; dettatelo voi, che io scriverò.
Ridolfo. Che nome ha il primo giovane del suo negozio?
Eugenio. Pasquino de’ Cavoli.
Ridolfo. Pasquino de’ Cavoli... (detta, ed Eugenio scrive) Consegnerete a messer Ridolfo Gamboni... pezze due panno padovano... a sua elezione, acciò egli ne faccia esito per conto mio... avendomi prestato gratuitamente... zecchini trenta... Vi metta la data, e si sottoscriva.
Eugenio. Ecco fatto.
Ridolfo. Si fida ella di me?
Eugenio. Capperi! Non volete?
Ridolfo. Ed io mi fido di lei. Tenga, questi sono trenta zecchini. (gli numera trenta zecchini)
Eugenio. Caro amico, vi sono obbligato.
Ridolfo. Signor Eugenio, gliegli do, acciò possa comparire puntuale e onorato; le venderò il panno io, acciò non le venga mangiato, e vado subito senza perder tempo: ma la mi permetta che faccia con lei un piccolo sfogo d’amore, per l’antica servitù che le professo. Questa che V. S. tiene, è la vera strada di andare in rovina. Presto presto si perde il credito, e si fallisce. Lasci andar il giuoco, lasci le male pratiche, attenda al suo negozio, alla sua famiglia, e si regoli con giudizio. Poche parole, ma buone, dette da un uomo ordinario, ma di buon cuore; se le ascolterà, sarà meglio per lei. (parte)
SCENA XII.
Eugenio solo, poi Lisaura alla finestra.
Eugenio. Non dice male; confesso che non dice male. Mia moglie, povera disgraziata, che mai dirà? Questa notte non mi ha veduto; quanti lunari avrà ella fatti? Già le donne, quando non vedono il marito in casa, pensano cento cose, una peggio dell’altra. Avrà pensato, o che io fossi con altre donne, o, che fossi caduto in qualche canale, o che per i debiti me ne fossi andato. So che l’amore, ch’ella ha per me, la fa sospirare; le voglio bene ancor io, ma mi piace la mia libertà. Vedo però che da questa mia libertà, ne ricavo più mal che bene, e che se facessi a modo di mia moglie, le faccende di casa mia andrebbero meglio. Bisognerà poi risolversi, e metter34 giudizio. Oh, quante volte ho detto così! (vede Lisaura alla finestra) (Capperi! Grand’aria! Ho paura di sì io, che vi sia la porticina col giuocolino). Padrona mia riverita.)
Lisaura. Serva umilissima.
Eugenio. È molto, signora, che è alzata dal letto?
Lisaura. In questo punto.
Eugenio. Ha bevuto il caffè?
Lisaura. È ancora presto. Non l’ho bevuto.
Eugenio. Comanda che io la faccia servire?
Lisaura. Bene obbligata: non s’incomodi.
Eugenio. Niente, mi maraviglio. Giovani, portate a quella signora caffè, cioccolata, tutto quel ch’ella vuole: pago io.
Lisaura. La ringrazio, la ringrazio. Il caffè e la cioccolata la faccio in casa.
Eugenio. Avrà della cioccolata buona.
Lisaura. Per dirla, è perfetta.
Eugenio. La sa far bene?
Lisaura. La mia serva s’ingegna.
Eugenio. Vuole che venga io a darle una frullatina?
Lisaura. È superfluo che s’incomodi.
Eugenio. Verrò a beveria con lei, se mi permette.
Lisaura. Non è per lei, signore.
Eugenio. Io mi degno di tutto; apra, via, che staremo un’oretta insieme.
Lisaura. Mi perdoni, non apro con questa facilità.
Eugenio. Ehi, dica, vuole che io venga per la porta di dietro?
Lisaura. Le persone che vengono da me, vengono pubblicamente.
Eugenio. Apra, via, non facciamo scene.
Lisaura. Dica in grazia, signor Eugenio, ha veduto ella il conte Leandro?
Eugenio. Così non lo avessi veduto!
Lisaura. Hanno forse giuocato insieme la scorsa notte?
Eugenio. Pur troppo; ma che serve che stiamo qui a far sentire a tutti i fatti nostri? Apra, che le dirò ogni cosa.
Lisaura. Vi dico, signore, che io non apro a nessuno.
Eugenio. Ha forse bisogno che il signor Conte le dia licenza? Lo chiamerò.
Lisaura. Se cerco del signor Conte, ho ragione di farlo.
Eugenio. Ora la servo subito. È qui in bottega, che dorme.
Lisaura. Se dorme, lasciatelo dormire.
SCENA XIII.
Leandro dalla bottega del giuoco, e detti.
Leandro. Non dormo, no, non dormo. Son qui che godo la bella disinvoltura del signor Eugenio.
Eugenio. Che ne dite dell’indiscretezza di questa signora? Non mi vuole aprir la porta.
Leandro. Chi vi credete ch’ella sia?
Eugenio. Per quel che dice don Marzio, flusso e riflusso.
Leandro. Mente don Marzio, e chi lo crede.
Eugenio. Bene, non sarà così: ma col vostro mezzo non potrei io aver la grazia di riverirla?
Leandro. Fareste meglio a darmi i miei trenta zecchini.
Eugenio. I trenta zecchini ve li darò. Quando si perde sulla parola, vi è tempo a pagare ventiquattr’ore.
Leandro. Vedete, signora Lisaura? Questi sono quei gran soggetti, che si piccano d’onoratezza. Non ha un soldo, e pretende di fare il grazioso.
Eugenio. I giovani della mia sorta, signor Conte caro, non sono capaci di mettersi in un impegno, senza fondamento di comparir con onore. Se ella mi avesse aperto, non avrebbe perduto il suo tempo, e voi non sareste restato al di sotto coi vostri incerti. Questi sono danari, questi sono trenta zecchini, e queste faccie, quando non ne hanno, ne trovano35. Tenete i vostri trenta zecchini, e imparate a parlare con i galantuomini della mia sorta. (va a sedere in bottega del caffè)
Leandro. (Mi ha pagato; dica ciò che vuole, che non m’importa). (da sè) Aprite. (a Lisaura)
Lisaura. Dove siete stato tutta questa notte?
Leandro. Aprite.
Lisaura. Andate al diavolo.
Leandro. Aprite. (versa gli zecchini nel cappello, acciò Lisaura li veda)
Lisaura. Per questa volta vi apro. (si ritira ed apre)
Leandro. Mi fa grazia, mediante la raccomandazione di queste belle monete. (entra in casa)
Eugenio. Egli sì, ed io no? Non son chi sono, se non gliela faccio vedere.
SCENA XIV.
Placida, da pellegrina, ed Eugenio.
Placida. Un poco di carità alla povera pellegrina.
Eugenio. (Ecco qui; corre la moda delle pellegrine). (da sè)
Placida. Signore, per amor del cielo, mi dia qualche cosa.(ad Eugenio)
Eugenio. Che vuol dir questo36, signora pellegrina? Si va così per divertimento, o per pretesto?
Placida. Nè per l’uno, nè per l’altro.
Eugenio. Dunque per qual causa si gira il mondo?
Placida. Per bisogno.
Eugenio. Bisogno di che?
Placida. Di tutto.
Eugenio. Anche di compagnia?
Placida. Di questa non avrei bisogno, se mio marito non mi avesse abbandonata.
Eugenio. La solita canzonetta: mio marito mi ha abbandonata. Di che paese siete, signora?
Placida. Piemontese.
Eugenio. E vostro marito?
Placida. Piemontese egli pure.
Eugenio. Che faceva egli al suo paese?
Placida. Era scritturale d’un mercante.
Eugenio. E perchè se n’è andato via?
Placida. Per poca volontà di far bene.
Eugenio. Questa è una malattia che l’ho provata anch’io, e non sono ancora guarito.
Placida. Signore, aiutatemi per carità. Sono arrivata in questo punto a Venezia. Non so dove andare, non conosco nessuno, non ho danari, son disperata.
Eugenio. Che cosa siete venuta a fare a Venezia?
Placida. A vedere se trovo quel disgraziato di mio marito.
Eugenio. Come si chiama?
Placida. Flaminio Ardenti.
Eugenio. Non ho mai sentito un tal nome37.
Placida. Ho timore che il nome se lo sia cambiato.
Eugenio. Girando per la città, può darsi che, se vi è, lo troviate.
Placida. Se mi vedrà, fuggirà.
Eugenio. Dovreste far così. Siamo ora di carnovale; dovreste mascherarvi, e così più facilmente lo trovereste.
Placida. Ma come posso farlo, se non ho alcuno che mi assista? Non so nemmeno dove alloggiare.
Eugenio. (Ho inteso, or ora vado in pellegrinaggio ancor io). (da sè) Se volete, questa è una buona locanda.
Placida. Con che coraggio ho da presentarmi alla locanda, se non ho nemmeno da pagare il dormire?
Eugenio. Cara pellegrina, se volete un mezzo ducato, ve lo posso dare. (Tutto quello che mi è avanzato dal giuoco). (da sè)
Placida. Ringrazio la vostra pietà. Ma più del mezzo ducato, più di qual si sia moneta, mi sarebbe cara la vostra protezione.
Eugenio. (Non vuole il mezzo ducato; vuole qualche cosa di più). (da sè)
SCENA XV.
Don Marzio dal barbiere, e detti.
Don Marzio. (Eugenio con una pellegrina! Sarà qualche cosa di buono!) (siede al caffè, guardando la pellegrina coll'occhialetto)
Placida. Fatemi la carità; introducetemi voi alla locanda, raccomandatemi al padrone di essa, acciò, vedendomi così sola, non mi scacci o non mi maltratti.
Eugenio. Volentieri. Andiamo, che vi accompagnerò. Il locandiere mi conosce, e a riguardo mio, spero che vi userà tutte le cortesie che potrà.
Don Marzio. (Mi pare d’averla veduta altre voltre). (da sè, guarda di lontano coll’occhialetto)
Placida. Vi sarò eternamente obbligata.
Eugenio. Quando posso, faccio del bene a tutti. Se non ritroverete vostro marito, vi assisterò io. Son di buon cuore.
Don Marzio. (Pagherei qualche cosa di bello a sentir cosa dicono). (da sè)
Placida. Caro signore, voi mi consolate colle vostre cortesissime esibizioni. Ma la carità d’un giovane, come voi, ad una donna che non è ancor vecchia, non vorrei che venisse sinistramente interpretata.
Eugenio. Vi dirò, signora: se in tutti i casi si avesse questo riguardo, si verrebbe a levare agli uomini la libertà di fare delle opere di pietà. Se la mormorazione è fondata sopra un’apparenza di male, si minora la colpa del mormoratore; ma se la gente cattiva prende motivo di sospettare da un’azion buona o indifferente, tutta la colpa è sua, e non si leva il merito a chi opera bene. Confesso d’esser anch’io uomo di mondo38; ma mi picco insieme d’esser un uomo civile ed onorato.
Placida. Sentimenti d’animo onesto, nobile e generoso.
Don Marzio. Amico, chi è questa bella pellegrina? (ad Eugenio)
Eugenio. (Eccolo qui: vuol dar di naso per tutto). (da sè) Andiamo in locanda. (a Placida)
Placida. Vi seguo39. (entra in locanda con Eugenio)
SCENA XVI.
Don Marzio, poi Eugenio dalla locanda.
Don Marzio. Oh, che caro signor Eugenio! Egli applica a tutto, anche alla pellegrina. Colei mi pare certamente sia quella dell’anno passato. Scommetterei che è quella che veniva ogni sera al caffè, a domandar l’elemosina. Ma io però non gliene ho mai dati, veh! I miei danari, che sono pochi, li voglio spender bene. Ragazzi, non è ancora tornato Trappola? Non ha riportati gli orecchini, che mi ha dati in pegno per dieci zecchini il signor Eugenio?
Eugenio. Che cosa dice de’ fatti miei?
Don Marzio. Bravo! colla pellegrina.
Eugenio. Non si può assistere una povera creatura, che si ritrova in bisogno?
Don Marzio. Sì, anzi fate bene. Povera diavola! Dall’anno passato in qua non ha trovato nessuno che la ricoveri?
Eugenio. Come dall’anno passato! La conoscete quella pellegrina?
Don Marzio. Se la conosco? E come! È vero che ho corta vista, ma la memoria mi serve.
Eugenio. Caro amico, ditemi chi ella è.
Don Marzio. E una che veniva l’anno passato a questo caffè ogni sera, a frecciare40 questo e quello.,
Eugenio. Se ella dice che non è mai più stata in Venezia.
Don Marzio. E voi glielo credete? Povero gonzo!
Eugenio. Quella dell’anno passato di che paese era?
Don Marzio. Milanese.
Eugenio. E questa è Piemontese.
Don Marzio. Oh sì, è vero; era di Piemonte.
Eugenio. E moglie d’un certo Flaminio Ardenti.
Don Marzio. Anche l’anno passato aveva con lei uno, che passava per suo marito.
Eugenio. Ora non ha nessuno.
Don Marzio. La vita di costoro; ne mutano uno al mese.
Eugenio. Ma come potete dire che sia quella?
Don Marzio. Se la conosco!
Eugenio. L’avete ben veduta?
Don Marzio. Il mio occhialetto non isbaglia; e poi l’ho sentita parlare.
Eugenio. Che nome aveva quella dell’anno passato?
Don Marzio. Il nome poi non mi sovviene41.
Eugenio. Questa ha nome Placida.
Don Marzio. Appunto; aveva nome Placida.
Eugenio. Se fossi sicuro di questo, vorrei ben dirle quello che ella si merita42.
Don Marzio. Quando dico una cosa io, la potete credere. Colei è una pellegrina che, invece d’esser alloggiata, cerca di alloggiare.
Eugenio. Aspettate, che ora torno. (Voglio sapere43 la verità). (entra in locanda)
SCENA XVII.
Don Marzio, poi Vittoria mascherata.
Don Marzio. Non può esser altro che quella assolutamente: l’aria, la statura, anche l’abito mi par quello. Non l’ho veduta bene
nel viso, ma è quella senz’altro; e poi, quando mi ha veduto, subito si è nascosta nella locanda.
Vittoria. Signor don Marzio, la riverisco. (si smaschera)
Don Marzio. Oh signora mascheretta, vi sono schiavo.
Vittoria. A sorte, avreste voi veduto mio marito?
Don Marzio. Sì signora, l’ho veduto.
Vittoria. Mi sapreste dire dove presentemente egli sia?
Don Marzio. Lo so benissimo.
Vittoria. Vi supplico dirmelo per cortesia.
Don Marzio. Sentite, (la tira in disparte) È qui in questa locanda con un pezzo di pellegrina, ma coi fiocchi.
Vittoria. Da quando in qua?
Don Marzio. Or ora, in questo punto, è capitata qui una pellegrina; l’ha veduta, gli è piaciuta, ed è entrato subitamente nella locanda44.
Vittoria. Uomo senza giudizio! Vuol perder affatto la riputazione.
Don Marzio. Questa notte l’avrete aspettato un bel pezzo.
Vittoria. Dubitava gli fosse accaduta qualche disgrazia.
Don Marzio. Chiamate poca disgrazia aver perso cento zecchini in contanti, e trenta sulla parola?
Vittoria. Ha perso tutti questi danari?
Don Marzio. Sì! Ha perso altro! Se giuoca tutto il giorno e tutta la notte, come un traditore.
Vittoria. (Misera me! Mi sento strappar45il cuore). (da sè)
Don Marzio. Ora gli converrà vendere a precipizio quel poco di panno, e poi ha finito.
Vittoria. Spero che non sia in istato di andar in rovina.
Don Marzio. Se ha impegnato tutto.
Vittoria. Mi perdoni, non è vero.
Don Marzio. Lo volete dire a me?
Vittoria. Io l’avrei a saper più di voi.
Don Marzio. Se ha impegnato a me.... Basta. Son galantuomo, non voglio dir altro.
Vittoria. Vi prego dirmi che cosa ha impegnato. Può essere che io non lo sappia.
Don Marzio. Andate, che avete un bel marito.
Vittoria. Mi volete dire che cosa ha impegnato?
Don Marzio. Son galantuomo, non vi voglio dir nulla.
SCENA XVIII.
Trappola colla scatola degli orecchini, e detti.
Trappola. Oh, son qui; ha detto il gioielliere (Uh! Che vedo! La moglie del signor Eugenio. Non voglio farmi sentire). (Da sè)
Don Marzio. Ebbene, cosa dice il gioielliere? (piano a Trappola)
Trappola. Dice che saranno stati pagati più di dieci zecchini, ma che non glieli darebbe. (piano a don Marzio)
Don Marzio. Dunque non sono al coperto? (a Trappola)
Trappola. Ho paura di no. (a don Marzio)
Don Marzio. Vedete le belle baronate che fa vostro marito? (a Vittoria) Egli mi dà in pegno questi orecchini per dieci zecchini, e non vagliono nemmeno sei.
Vittoria. Questi sono i miei orecchini.
Don Marzio. Datemi dieci zecchini, e ve li do.
Vittoria. Ne vagliono più di trenta.
Don Marzio. Eh, trenta fichi! Siete d’accordo anche voi.
Vittoria. Teneteli fin a domani, ch’io troverò i dieci zecchini.
Don Marzio. Fin a domani? Oh, non mi corbellate. Voglio andar a farli vedere da tutti i gioiellieri di Venezia.
Vittoria. Almeno non dite che sono miei, per la mia riputazione.
Don Marzio. Che importa a me46 della vostra riputazione! Chi non vuol che si sappia, non faccia pegni. (parte)
SCENA XIX.
Vittoria e Trappola.
Vittoria. Che uomo indiscreto! Incivile! Trappola, dov’è il vostro padrone?
Trappola. Non lo so; vengo ora a bottega.
Vittoria. Mio marito dunque ha giuocato tutta la notte?
Trappola. Dove l’ho lasciato iersera, l’ho ritrovato questa mattina.
Vittoria. Maledettissimo vizio! E ha perso cento e trenta zecchini?
Trappola. Così dicono.
Vittoria. Indegnissimo giuoco! E ora se ne sta con una forastiera in divertimenti?
Trappola. Signora sì, sarà con lei. L’ho veduto varie volte girarle d’intorno; sarà andato in casa.
Vittoria. Mi dicono che questa forastiera sia arrivata poco fa.
Trappola. No, signora; sarà un mese che la c’è.
Vittoria. Non è una pellegrina?
Trappola. Oibò, pellegrina; ha sbagliato, perchè finisce in ina; è una ballerina.
Vittoria. E sta qui alla locanda?
Trappola. Signora no, sta qui in questa casa. (accennando la casa)
Vittoria. Qui? Se mi ha detto il signor don Marzio ch’egli ritrovasi in quella locanda con una pellegrina!
Trappola. Buono! Anche una47 pellegrina?
Vittoria. Oltre la pellegrina vi è anche la ballerina? Una di qua e una di là?
Trappola. Sì signora; farà per navigar col vento sempre in poppa. Orza e poggia, secondo soffia la tramontana o lo scirocco.
Vittoria. E sempre ha da far questa vita? Un uomo di quella sorta, di spirito, di talento, ha da perdere così miseramente il suo tempo, sacrificare le sue sostanze, rovinar la sua casa? Ed io l’ho da soffrire? Ed io mi ho da lasciar maltrattare senza risentirmi? Eh, voglio esser buona, ma non balorda; non voglio che il mio tacere faciliti la sua mala condotta. Parlerò, dirò le mie ragioni e se le parole non bastano48 ricorrerò alla giustizia.
Trappola. È vero, è vero. Eccolo che viene dalla locanda.
Vittoria. Caro amico, lasciatemi sola.
Trappola. Si serva pure, come più le piace49. (entra nell’interno della bottega)
SCENA XX.
Vittoria, poi Eugenio dalla locanda.
Vittoria. Voglio accrescere la di lui sorpresa col mascherarmi. (si maschera)
Eugenio. Io non so quel ch’io m’abbia a dire50; questa nega, e quei tien sodo. Don Marzio so che è una mala lingua. A queste donne che viaggiano, non è da credere. Mascheretta? A buon’ora!51Siete mutola? Volete caffè? Volete niente? Comandate.
Vittoria. Non ho bisogno di caffè, ma di pane. (si smaschera)
Eugenio. Come! Che cosa fate voi qui?52
Vittoria. Eccomi qui, strascinata dalla disperazione.
Eugenio. Che novità è questa? A quest’ora in maschera?
Vittoria. Cosa dite, eh? Che bel divertimento! A quest’ora in maschera.
Eugenio. Andate subito a casa vostra.
Vittoria. Anderò a casa, e voi resterete al divertimento.
Eugenio. Voi andate a casa, ed io resterò dove mi piacerà di restare.
Vittoria. Bella vita, signor consorte.
Eugenio. Meno ciarle, signora, vada a casa, che farà meglio.
Vittoria. Sì, anderò a casa; ma anderò a casa mia, non a casa vostra.
Eugenio. Dove intendereste d’andare?
Vittoria. Da mio padre, il quale, nauseato de’ mali trattamenti che voi mi fate, saprà farsi render ragione del vostro procedere e della mia dote.
Eugenio. Brava, signora, brava. Questo è il gran bene che mi volete, questa è la premura che avete di me e della mia riputazione.
Vittoria. Ho sempre sentito dire che crudeltà consuma amore. Ho tanto sofferto, ho tanto pianto: ma ora non posso più.
Eugenio. Finalmente che cosa53 vi ho fatto?
Vittoria. Tutta la notte al giuoco.
Eugenio. Chi vi ha detto che io abbia giuocato?
Vittoria. Me l’ha detto il signor don Marzio, e che avete perduto cento zecchini in contanti e trenta sulla parola.
Eugenio. Non gli credete, non è vero.
Vittoria. E poi, a’ divertimenti con la pellegrina.
Eugenio. Chi vi ha detto questo?
Vittoria. Il signor Don Marzio.
Eugenio. (Che tu sia maledetto!) (da sè) Credetemi, non è vero.
Vittoria. E di più impegnare la roba mia; prendermi un paio di orecchini, senza dirmi niente? Sono azioni da farsi ad una moglie amorosa, civile e onesta, come sono io?
Eugenio. Come avete saputo degli orecchini?
Vittoria. Me l’ha detto il signor don Marzio.
Eugenio. Ah lingua da tanaglie!
Vittoria. Già dice il signor don Marzio, e lo diranno tutti, che uno di questi giorni sarete rovinato del tutto; ed io, prima che; ciò succeda, voglio assicurarmi della mia dote.
Eugenio. Vittoria, se mi voleste bene, non parlereste così.
Vittoria. Vi voglio bene anche troppo, e se non vi avessi amato tanto, sarebbe stato meglio per me.
Eugenio. Volete andare da vostro padre?
Vittoria. Sì, certamente.
Eugenio. Non volete più star con me?
Vittoria. Vi starò, quando avrete messo54 giudizio.
Eugenio. Oh signora dottoressa, non mi stia ora a seccare. (alterato)
Vittoria. Zitto; non facciamo scene per la55 strada.
Eugenio. Se aveste riputazione, non verreste a cimentare vostro marito in una bottega da caffè.
Vittoria. Non dubitate, non ci verrò più.
Eugenio. Animo, via di qua.
Vittoria. Vado, vi obbedisco, perchè una moglie onesta deve obbedire anche un marito indiscreto. Ma forse forse sospirerete d’avermi, quando non mi potrete vedere. Chiamerete forse per nome la vostra cara consorte, quando ella non sarà in grado più di rispondervi e di aiutarvi. Non vi potrete dolere dell’amor mio. Ho fatto quanto fare poteva una moglie innamorata di suo marito. M’avete con ingratitudine corrisposto; pazienza. Piangerò da voi lontana, ma non saprò così spesso i torti che voi mi fate. V’amerò sempre, ma non mi vedrete mai più. (parte)
Eugenio. Povera donna! Mi ha intenerito. So che lo dice, ma non è capace di farlo: le anderò dietro alla lontana, e la piglierò colle buone. S’ella mi porta via la dote, son rovinato. Ma non avrà cuore di farlo. Quando la moglie è in collera, quattro carezze bastano per consolarla. (parte)
Fine dell’Atto Primo.
Note
- ↑ Soltanto l’ed. Bettinelli ha qui una virgola.
- ↑ Bett.: e la vuol bevere.
- ↑ Bett. e Paper.: è aperto e in bottega lavorano di.
- ↑ Far di balla è un gergo lombardo, che significa intendersi fra gente accorta, partecipare dell’utile ecc. [nota originale]
- ↑ Bett.: baratori.
- ↑ Intende al Faraone. [nota originale]
- ↑ Bett.: Cosa mi venite.
- ↑ Bett.: guadagno.
- ↑ Segue nelle edd. Bett. e Pap.: «Pand. Glieli lascia, che fa la bella voglia. Rid. E voi di queste cose godete?»
- ↑ Bett.: Cosa mi preme? a me basta che smozzino ecc.
- ↑ Segue nell’ed. Bett.: esercitata da tanti galantuomini i quali, in grazia della loro onestà, vengono ammessi alla confidenza dei soggetti più riguardevoli.
- ↑ Bett. e Pap.: non vien altro.
- ↑ Bett. e Pap.: La servo.
- ↑ Le ore italiane si contavano fino a 24, dall’Ave Maria.
- ↑ V. la Vedova scaltra, A. II, sc. 2.
- ↑ Bett., Pap. ecc.: e sono.
- ↑ Bett., Pap. ecc.: (con i denti stretti).
- ↑ Bett., Pap. ecc. aggiungono: (si ritira indietro verso la bottega).
- ↑ Bett., Pap. ecc.: lana.
- ↑ Bett.: Mi ha guadagnati.
- ↑ Bett.: Ehi, cosa.
- ↑ Bett.: guadagna.
- ↑ Bett., Pap. ecc.: capetto.
- ↑ Bett.: E sì pareva.
- ↑ Bett. e Pap.: a dirle le belle parole.
- ↑ Bett. e Pap.: qui nella stradella.
- ↑ Bett. e Pap. aggiungono: (Il Garzone torna a bottega).
- ↑ Bett.: che si sappia tutto.
- ↑ Bett., Pap. ecc.: E sempre dice
- ↑ Segue nelle edd. Bett., Pap. ecc.: e ha mandato Trappola, mio garzone, a farli veder dall’orefice.
- ↑ Bett.: gli farà fare.
- ↑ Bett.: Ma cosa ho da fare?
- ↑ Bett., Pap. ecc.: lire veneziane.
- ↑ Bett.: far.
- ↑ Così segue nell’ed. Bett.: Tenete i vostri trenta zecchini; imparate a parlare coi galantuomini, e prima di nominarli, nettatevi ben bene la bocca, guardatevi nello specchio, e vergognatevi di mettervi con noi altri mercanti, che siamo sempre stati e saremo civili colle donne, fedeli cogli amici, generosi coi forestieri, ed onorati con tutto il mondo.
- ↑ Bett.: Cosa vuol dire.
- ↑ Bett. e Pap.: codesto nome.
- ↑ Segue nell’ed. Bett.: e qualche volta, dove posso arrivare, non ci metto la scala; ma sono un uomo civile; quando le donne non hanno voluto, non ho mai usato loro uno sgarbo. Opero con secondo fine, dove le apparenze mi fanno sperare; opero onestamente con chi si sa contenere. Son galantuomo con tutte, e tanto mi compiaccio di una donna che per gratitudine mi seconda, quanto di una che con onestà mi ringrazia; perchè con quella acquisto un piacere che presto passa e finisce; con quest’altra acquisto un merito assai maggiore. Merito che, contrapposto al piacere, si può paragonare al perfettissimo oro, in confronto del vilissimo fango.
- ↑ Bett. aggiunge: senza esitanza.
- ↑ Bett.: a batterla a.
- ↑ Bett.: non me l’arricordo.
- ↑ Bett.: l’animo mio; Pap.: le mie parole.
- ↑ Bett. e Pap.: ben sapere.
- ↑ Bett.: e lui dentro in locanda; Pap.: ed è insaccato subitamente nella locanda.
- ↑ Bett.: straziar.
- ↑ Bett.: Cosa m’importa a me.
- ↑ Bett. e Pap.: la.
- ↑ Bett.: basteranno.
- ↑ Bett.: Si serva pure, e se vuole il camerino, marito e moglie senza malizia.
- ↑ Bett.: cosa dire.
- ↑ Bett. e Pap. aggiungono: Andate per il mastico?
- ↑ Bett.: Come, siora, cosa fate qui?
- ↑ Bett.: Ma finalmente cosa.
- ↑ Bett.: fatto.
- ↑ Bett.: qui in.