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LA BOTTEGA DEL CAFFÈ 247

SCENA III.

Conte Leandro, di casa di Lisaura, ed Eugenio.

Leandro. Signor Eugenio, questi sono i vostri denari; eccoli qui tutti in questa borsa; se volete che ve li renda, andiamo.

Eugenio. Son troppo sfortunato, non giuoco più.

Leandro. Dice il proverbio: Una volta corre il cane, e l’altra la lepre.

Eugenio. Ma io sono sempre la lepre, e voi sempre il cane.

Leandro. Ho un sonno che non ci vedo. Son sicuro di non poter tenere le carte in mano; eppure per questo maledetto vizio non m’importa di perdere, purchè giuochi.

Eugenio. Anch’io ho sonno. Oggi non giuoco certo.

Leandro. Se non avete denari, non importa; io vi credo.

Eugenio. Credete che sia senza denari? Questi sono zecchini; ma non voglio giuocare. (mostra la borsa con li dieci zecchini)

Leandro. Giuochiamo almeno una cioccolata.

Eugenio. Non ne ho volontà.

Leandro. Una cioccolata per servizio.

Eugenio. Ma se vi dico...

Leandro. Una cioccolata sola sola, e chi parla di giuocar di più, perda un ducato.

Eugenio. Via, per una cioccolata, andiamo. (Già Ridolfo non mi vede). (da sè)

Leandro. Il merlotto è nella rete. (entra con Eugenio nella bottega del giuoco)

SCENA IV.

Don Marzio, poi Ridolfo dalla bottega.


Don Marzio. Tutti gli orefici gioiellieri mi dicono che non vagliono dieci zecchini. Tutti si meravigliano che Eugenio m’abbia gabbato. Non si può far servizio; non do più un soldo a nessuno, se lo vedessi crepare. Dove diavolo sarà costui? Si sarà nascosto per non pagarmi.