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Eva non fosse morta ed egli avesse rinunziato al suo sogno.
Certo, avrebbe ignorato la febbre e la gloria, ma in cambio avrebbe conosciuto la felicità. Una felicità modesta e silenziosa — un nido, due braccia bianche, una fresca bocca, un ardente cuore acceso sempre come una lampada votiva — ma sicura e profonda e buona: la parte migliore.
Perchè non aveva ascoltato le preghiere di Eva? perchè non aveva ceduto alla intuizione di lei ratta acuta e infallibile dalla potenza del suo stesso amore? perchè non aveva rinunziato al folle sogno e accettata la piccola realtà sicura e ridente?
Ora, sarebbe stato oscuro e ignoto, ma avrebbe avuto caldo al cuore. E il suo viso sul quale nessuno, lungo la via, avrebbe posto un nome, si sarebbe illuminato della luce radiosa d’amore rientrando nella sua piccola casa felice. Invece.... Invece aveva tutto tranne la felicità. La ricchezza, sì, e la gloria e la popolarità: tutte le cose che abbagliano gli occhi ma che non scaldano il cuore.
Ed Eva era morta. Ed egli pure era come un morto, dentro, tanto tutte le fiamme erano spente nella sua anima e inaridite tutte le sorgenti. Era un morto che aspettava la morte e che la morte pareva disdegnare.
Il pensiero commentava, constatava, lamentava. E le mani, intanto, aprivano una dopo l’altra le lettere sulle quali gli occhi si posavano un istante distratti, staccati. Nomi estranei: cose estranee: offerte di concorsi, preghiere di Comitati, suppliche d’inventori.
Un istante, gli occhi si soffermarono attenti sopra un nome e anche il pensiero si arrestò: Minerva Fabbri scriveva per avvertire Noris che gli dava vacanza per dieci giorni:
«La primavera risveglia nelle mie vene impetuose nostalgie di vagabondaggio: vado a far la zingara per dieci giorni».
Una sicura scrittura piena di energia, slanciata, dritta, chiara.