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cora che la voce o il passo di Ettore Noris fossero giunti al suo orecchio intento. Quando, preceduto da Nadina e seguito dall’infermiera, Noris comparve in cima alla scala, sull’uscio del salotto che metteva sul pianerottolo era già uscita ad incontrarlo Susanna, bianca come l’immagine della giovinetta morte, e quasi spettrale nel lungo camice bianco che già chiudeva come in un sudario il suo fragile vergine corpo consunto dalla fiamma.
Uno stesso grido di sorpresa e di sgomento aveva accolto l’apparizione seguito subito dal rimprovero amorevole di Nadina che esclamava:
— Che imprudenza, Susanna! — e dalla espressione sgomenta della infermiera:
— Signorina, ma che ha fatto, in nome di Dio?
Susanna non udiva le due donne e non le vedeva neppure. I suoi occhi erano intenti a Noris con un’espressione così ardente e disperata d’amore che il giovane si sentiva piegare le ginocchia. Davvero, l’impulso prevalente nel cumulo di sensazione che gli teneva lo spirito era quello di prostrarsi per venerare, per accusarsi, per benedire, per farsi assolvere.
Da dodici ore egli sapeva che Susanna moriva: aveva udito anche dalla bocca della madre di lei la conferma della cosa atroce, eppure, solo adesso egli aveva la percezione esatta di cosa fosse e quanto atroce quella orribile cosa irrevocabile. Moriva, Susanna, e per lui! Per lui! Come non lo aveva compreso prima? Come aveva potuto illudersi che altra potesse essere la cagione di quell’invincibile languore che schiudeva la tomba sotto il passo leggero di quella creatura di vent’anni?
Per lui, moriva Susanna! perchè egli aveva acceso una fiamma dentro quel cuore e aveva poi ricusato d’alimentarla. La fiamma non s’era spenta ma aveva attinto il suo alimento alle radici stesse della vita di Susanna!
Ecco, egli si sentiva colpevole, adesso, come se gli incombesse diretta la responsabilità di quella morte vicina; la sua volontà non ora en-