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Quando Ettore Noris che era sceso nell’atrio dell’albergo per sottrarsi al senso di soffocazione che lo teneva, su, tornò a bussare all’uscio dell’appartamento dei Pearly, trovò la signora accasciata su d’una poltrona in preda a una crisi di pianto disperata.
Appena ella vide Ettore, gli si slanciò incontro con un impeto disperato:
— Muore! muore! muore!
Fra i singhiozzi, narrò. Il professore aveva trovato Susanna in preda a una febbre violentissima e l’aveva costretta a starsene a letto, dichiarando alla madre che la menoma imprudenza poteva costare la vita all’ammalata. Per tutta risposta, Susanna aveva tentato di alzarsi appena uscito il medico ed era caduta svenuta. Ella era fuggita: non aveva più il coraggio di stare di là.
Noris sedette accanto alla desolata madre e l’attesa penosa cominciò, fatta più lugubre dal silenzio profondo che nessuno dei due osava interrompere.
Anche nella stanza vicina regnava il silenzio. Le due assistenti pietose di Susanna dovevano muoversi con riguardo infinito.
E pareva a Noris d’avere atteso per uno spazio di tempo infinito, quando finalmente Nadina comparve, bianca in viso, come l’agonia della sorella si fosse impressa sulle sue fattezze alterandole in una espressione dove lo sgomento si fondeva collo strazio.
La seguiva l’infermiera.
— Donne, — disse la fanciulla rispondendo all’occhiata interrogativa della madre.
— Sì, riposa, — assicurò l’infermiera.
Noris stese la mano a Nadina in silenzio. La fanciulla gli si sedette accanto, alzò il viso verso di lui, susurrò:
— Starete con noi, stasera, vero?
— Sì, cara.
— Grazie. Ho tanta paura!
— Non dovete. Vedrete che non accadrà nulla.
E per dissipare il senso d’angoscia che gra-