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— Vado io, a chiamare Mikedda, — disse, come tentando di conciliare le due donne, ma la nonna la fermava con la sua mano e già la matrigna andava in cerca della serva, spinta anche da una rabbia gelosa che le faceva parere ingiusto che gli altri, anche i più miseri, vivessero e amassero, mentre lei sola era condannata alla rinunzia di tutto.
Trovò infatti Mikedda nel cortiletto del vedovo. Questi sedeva su una pietra, davanti alla porticina della casupola, accanto ai suoi grossi buoi neri che ruminavano l’erba togliendola da un cesto che serviva da mangiatoia; la serva s’era alzata all’apparire della padrona, e s’appoggiava al muro, ma aveva il viso rosso e gli occhi smarriti; e l’odore stesso del cortiletto, odore di erba, di stalla, di bestie calde, e l’aria dolce, complice, e la stella rosea ferma in alto sul cielo ancora azzurro, tutto raccontava d’amore.
— Mikedda, — disse con voce rauca la padrona, — va subito a cercare Gavino e poi torna a casa dove aggiusteremo i conti.
La ragazza le passò davanti rapida come un cane che ha paura d’essere bastonato.
— Taneddu, — l’altra riprese, quando fu sola col contadino, — noi ti abbiamo