Istoria dell'Imperio dopo Marco (De Romanis)/Libro VIII
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dell’imperio
DOPO MARCO.
LIB. VIII.
argomento.
Massimino, superate le alpi, se ne viene in Aquileja; quivi, attendendo alia espugnazione della città, son sopra lui e il figliuolo i soldati, e tagliano loro la testa, e i recisi teschi, vengono a Roma asportati. Massimo, un degl’imperadori, presso Aquileja congeda l’esercito di Massimino: indi, venuto a Roma co’ suoi, governa l’imperio insieme con Balbino, finche sono ambi uccisi da soldati pretoriani. Dopo la morte de’ quali, Gordiano, ancor cesare, prese a reggere l’imperio.
Noi nel discorso libro abbiamo descrittole cose fatte da Massimino dopo la morte di Gordiano, il suo viaggio in Italia, la rivoluzione di Africa, e finalmente la sedizione insorta in Roma tra il popolo e i soldati. Massimino adunque arrivato ai confini dell’Italia, mandò innanzi a spiare se per le valli e selvaggie selve delle alpi gli si fosse teso qualche agguato. Egli poi, ridotte le sue truppe nella pianura, comanda che marcino in isquadroni anzi radi che stretti per più spazio abbracciare, e, messi in mezzo tutti i carriaggi ed altre bagaglie, se ne veniva seguitando co’ soldati della guardia, per accorrere ove fosse di bisogno. Le due ali dell’esercito
eran protette dagli uomini d’arme che andavano innanzi e indietro, da’ balestrieri mori, e arcieri asiatici, e spezialmente dalla cavalleria tedesca ausiliare, tenuta sempre in moto da Massimino per opporre al nemico, come quella ch’essendo nel primo abbattimento ardita e ferocissima, era più a mano per sostenere i primi urti; e caso, che pericolasse, men danno si parea sagrificarvi que’barbari. Passata ch’ebbero, ordinati in tal modo, la pianura, pervennero a una città d’Italia, che gli abitatori chiamano Ema. Essa giace appiè delle alpi, e proprio nel fine della pianura; ove scorsi gli esploratori, riferiscono a Massimino che l’han trovata vota, e che ne sono tutti fuggiti dopo avere arse le porte delle case e delle chiese, e bruciate o portale via tutte quelle cose che in città o in contado si ritrovavano: in somma non vi rimanere con die cibare gli uomini ed i cavalli.
Questa notizia empì di gioja Massimino, pensandosi che tutti i popoli impauriti avrebbero fatto lo stesso. Ma i soldati non poteano darsi pace che in sul principio dell’impresa dovessero soffrire la fame. Avendo poi passata la notte entro quelle case, che tutte erano aperte e comuni e poste nella pianura , allo spuntar del sole si accostarono alle alpi. Sono le alpi monti lunghissimi che fasciano a guisa di mura l’Ita lia, e si elevano a tanta altitudine, che pajono gli stessi nugoli trapassare, e tanto si estendono che quasi tutta la Italia stringono, lambendo col sinistro lato l’Adriatico, e col destro il Mediterraneo. Aspri e folti boschi gli ricuoprono, segnali da sentieri angustissimi e malagevoli, a cagione delle ripe altissime e pendenti, e delle roccie erte e ronchiose, entro le quali tuttavia gli antichi italiani forarono a grandi stenti de’ viottoli che fan capo in Italia. Grande e ragionevole paura prese i soldati quando gli occhi loro andarono su alla cima di quelle moli sterminate ch’era duopo valcare, con sospetto eziandio che i più alti gioghi fossero in mano de’ nemici, i quali correrebbero a far loro faccia de’ passi i più difficili. Ma poiché, superate le alpi senza alcun’incontro, scesero ne’ piani, quietarono totalmente la paura, e tutti allegri si rinfrescarono, prendendo cagione a bene sperare. Massimino spezialmente disegnava tutto dovergli riescire, non si essendo speranzati gl’italiani di poter difendere neppure que’ dirupi, entro i quali poteano e appiattarsi e difendersi: e, tendendo agguati a’ nemici, combattergli vantaggiosamente dalle alture.
Ma entrati nella pianura, ecco gli esploratori portar nuova che Aquileja, grandissima città d’Italia,ha chiuse le porte, e che l’avanguardia ungarese, ita con ferocia e replicate volte all’assalto, essendo stala ributtala, se ne tornava rifinita dalla fatica, e respinta dalle aste, da’ sassi, e dalla tempesta delle saette che dalle mura piovevano. Massimino però sbuffando contro gli ungheri, che gli parea avere combattuto da poltroni, vi accorse subito con tutto l’esercito, tenendosi certo d’impadronirsene senza fatica. Ma la città di Aquileja era assai vasta e popolatissima, e servìa all’Italia come di una fiera, per esser posta lungo la marina, e quasi a ultimo confine delle provincie illiriche; di modo che, ammagazzinandosi entro lei tutte le merci, che per la via di terra e per quella de’ fiumi provengono dal continente, vi si teneano sempre in pronto tutte quelle cose che occorrer potessero alla navigazione, e similmente le provenienti dal mare che abbisognassero a quei di terra ferma, i quali ne’ luoghi elevati e soggetti a più freddo cielo non posseggono che terreni ingrati e non atti alla vita, e sono necessitati procurarvisi i vini che loro occorrono, e di cui trovan sempre abbondantissimo deposito. Quindi accadea che, oltre il gran numero de’ cittadini, vi era sempre una folla immensa di forestieri e di negozianti. In questo momento poi era più che mai ripiena, essendovisi ricoverati da’ vicini castelli e luoghi, e dal contado, popolo innumerabile, spe ranzato nella grandezza della città e nelle sue mura. Le quali in quella beata quiete che la grandezza romana facea godere alle città tutte d’Italia, essendosi invecchiate e dirupate, si erano allora per necessità ristaurate e invigorite di torri e di baluardi. Vi aggiunsero eziandìo, a maggior difesa della città, altre nuove trincee: e, avvertendo di tenere bene incatenacciate le porte, si stavano giorno e notte in vigilantissima guardia, e valorosamente combattendo, teneano lontano i nemici. Due erano i comandanti, personaggi consolari ed eletti dal senato, Crispino e Menofilo, i quali aveano fatto le maggiori diligenze a tenere provista la città di ogni più necessaria provisione, ond’essere al caso di sostenervi un lunghissimo assedio. Abbondantissime erano le acque e pe’ molti pozzi e pel fiume, il quale, serpeggiando intorno intorno alle mura e si scaricando ne’ fossi, ne somministra copiosamente in tutte le occorrenze.
In tale stato era posta la città, quando andò l’avviso a Massimino che ne aveano chiuse le porte, e difendeano valorosamente le mura. Egli allora si determinò a mandar loro una spezie di ambasceria, onde persuadergli a riceverlo. Trovandosi dunque nel suo esercito un tribuno nativo di Aquileja, i cui figli, moglie, e intera famiglia erano racchiusi in quella città, gli comandò di portarvisi con alcuni altri capitani, sperando che il popolo non avrebbe dissentito a’ consigli autorevoli di un suo concittadino. Accostatisi costoro alle mura, parlarono in questo modo: Comandare il loro comune sovrano che depongano le armi, e invece di nemico, lo accolgano in piena pace ed amico, e attendano piuttosto alle feste che a meschiarsi della guerra: abbino pietà della patria che, se avessero persistito, vedrebbero schiantata fin da’ fondamenti: essere in istato, se vogliono, di provedere a un rqedesimo tempo alla propria salvezza ed a quella di lei, promettendo il clementissimo principe perdono e dimenticanza di ogni trascorso, convinto phe altri e non loro han colpa di quegli scandoli. Queste e simili cose diceano ad alta voce gli ambasciatori da sotto le mura per farsi intendere, se non da tutti, almeno da quelli ch’eran su’ baluardi e nelle torri; i quali nel più gran silenzio attendevano a’ suoi detti. Per la qual cosa, temendo Crispino che quelle promesse muovessero l’instabile volgo a fare la pace, ed aprire le porte al nemico, scorrea innanzi e indietro tutte le mura, e confortava e pregava particolarmente ciascuno che stessero forti, ed osservassero la fede data al senato e popolo romano: Non vogliate, proseguia, avere a vile la bella gloria di aver salvata la Italia: state in guardia de’ lacci che tende a voi questo astuto tiranno, il quale vi adesca con parole seduttrici per tirarvi a una aperta ruina. Confortatevi di buona speranza, considerando quanto è dubbia e varia la fortuna della guerra, e quante volte i molti sono stati vinti da’ pochi, e i più jorti da paruti più deboli. Non vi spaventi la moltitudine di quell’esercito, che, non per se ma per altri combattendo, infiacchisce al solo pensiere di una vittoria senza premio, non si potendo dissimulare di dover patire gli stenti tutti e i pericoli, e non aver parte alcuna a vantaggi. Voi la patria vostra, le famiglie, gl’iddìi stessi difendete; e non essendo mossi a occupare, ma necessitali a respignere le rapaci mani del tiranno che vuole ingoiarvi, dovete sempre più inanimirvi e combattere animosamente per conseguire i frutti di sì bella vittoria. I quali discorsi tenendo Crispino ora agli uni, ora agli altri, spesso a tutti, con quell’autorità che viene da personaggio, qual’egli era venerevole ed eloquente e a ognun caro, per mostrarsi nel comando tutto benigno e modesto, riuscì a ritenere quel popolo fermo a’ suoi doveri e alla fede giurata. Fu subito comandato a’ legati di tornarne a Massimino, non si degnando di alcuna risposta. Correa voce che Crispino fosse stato incoraggito a sostenere animosamente la guelfa dagl’indovini, che lo accertarono aver conosciuto ne’ sagrifizj belle interiora, e arguitone tutto fare per lui. E veramente gl’italiani sogliono in tali casi avere a questi segni la più grandissima fede. Ed a tal’uopo si spacciavano eziandio degli oracoli di una certa patria divinità, i quali prometteano una sicura vittoria. Quei del paese la chiamano Belem e la tengono in grandissima venerazione, riputando che sia la stessa cosa che Apolline. E vi ebbe poi de’ soldati di Massimino che affermarono averla vista combattere dall’alto delle mura, non mi sapendo dire se dicessero il vero, o mentissero per diminuire la infamia e vergogna di cui si coprì sì grand’esercito sconfìtto da tanti pochi borghesi, e far parere di essere stati vinti, non dagli uomini, ma dagl’iddii. Quel ch’io posso dire si è, che il fine maraviglioso di questa impresa può muoverci a credere ogni più incredibile cosa.
Ma poiché gli ambasciatori se ne tornarono a Massimino senza aver nulla concluso, gli corse al cuore tanta ira e furore, che accelerava a tutt’ore la marcia. Ma, giunto al fiume, il quale sta discosto dalla città dodici miglia, trovò che per la piena delle acque avea dato fuori, squagliate essendosi le nevi de’ vicini monti che avea indurile la lunga invernata, e tanto era gonfio e impetuoso il torrente, che in nessun modo si poteva guadare. Nè passar si potea altrimenti, perchè quel bellissimo e magnifico ponte, edificato dagli antichi imperadori di pietre quadrate e a pilastri decrescenti, stato era dagli aquilejesi tutto rotto e fracassato. Di maniera che non potendo l’esercito passare all’altra riva, per non vi essere ne ponte nè sorte alcuna di navilj, si fermò Massimino titubante sul partito da prendere. In tale incertezza alcuni tedeschi, non sapendo quanto rapidi e impetuosi sieno i fiumi d’Italia, e credendo che si volgessero giù pe’ piani con quell’istessa calma che fanno quei di Germania, ove sogliono per tal cagione facilmente ghiacciare, presero animo a sgarare le acque , montati in su cavalli valenti a nuotare, ma trascinati dalla corrente vi annegarono.
Essendo dunque Massimino attendato da due o tre giorni su quelle ripe, e avendo circonvallato l’esercito contro gli attacchi improvisi, si stava tutto pensoso ed intento a risolvere come gittar si potesse un nuovo ponte sul fiume. E mentre riguardava all’assoluta mancanza di legna e di barche da congiungersi a uso di ponte, vennero a lui alcuni degl’ingegneri, e gli dissero che in quelle deserte campagne si rinvenivano delle botti vuote e rotonde, delle quali que’ villani doveano servirsi per trasportare i lo ro vini, e ch’avendo il concavo delle navi si sarebbero potute collegare insieme e far galleggiare sulle acque: nè vi essere a temere si affondassero, quando le si fossero bene concatenate, e con gente assai potersi ancora inzavorrare, e con rami e terra render ferme e sodissime. Dato luogo a questo proggetto ed eseguilo, passarono tosto i soldati all’altra ripa, e posero fuoco a’ sobborghi che trovarono abbandonati, guastarono tutte quelle cose che abbelliano il paese, ed in ispezie gli alberi e le viti, che accoppiandosi insieme ed in simmetria, si elevavano altissime, e, ricogliendosi in giro di corone, faceano parere quel contado tutto giojoso e festivo. L’esercito però dopo avere svelto tutto fin dalle barbe, se ne venne tosto sotto le mura. Si trovando però spossato, non credette l’imperadore di dar subito l’assalto, ma posta la truppa fuor del tiro, e divisala in più battaglioni, e assegnata a ciascuno la sua parte di muro, concedette loro un solo giorno di riposo. Quindi, posta mano all’espugnazione, fe’ assalire le mura, conducendovi ogni spezie di macchine e di ordigni, e non lasciando indietro alcuno di quei modi che sono suggeriti dall’arte. Non passava giorno che più volte non si azzuffassero. Imperocché quei di fuori, avendo irretito di ogni Iato la città, la batleano fortemente e tutti pieni di ardo re: e gli aquilejesi all’incontro, chiusi i tempj e le case, e assistiti dalle mogli e da’ figliuoli, dinsii le torri e i bastioni virilmente la difendeano, non vi essendo nessuno che per età o debolezza si ricusasse combattere per la patria. Massimino, avendo atterrati tutti i sobborghi e quanti edificj erano fuori della città, ne adoperava la materia ed il legname alla costruzione di macchine, capaci di far tal breccia da introdurvi i suoi soldati, e così mandare a sacco e disfare la città; non gli parendo poter proseguire onorevolmente il suo viaggio per Roma, se non distruggeva interamente una città che prima in Italia gli avea resistito. Per la qual cosa esso in persona e accompagnato dal figliuolo che avea fatto cesare, scorreano a cavallo in mezzo le file de’ soldati, e con infinite promesse e preghiere gli scongiuravano a combattere gagliardamente. Ma gli aquilejesi facean cadere una tempesta di sassi, e tenendo certi vasi a lunghi manichi con entro un misto di bitume e di pece, attendeano che il nemico si appressasse: e, quando era ben sotto, versavano sopra di loro quell’ardente materia, che parea fuoco che da cielo piovesse. La quale giù per le nude parti del corpo spaziandosi, arroventiva le corazze di ferro, e ardendo i cuojami, i legni, e le armi, obbli gava i soldati a torsele senza indugio di dosso, e via tutte gittarle. Copriano quelle armadure la terra, e davan vista di spoglie concedute all’accorgimento, e non al valore dei combattitori. Molti soldati vi furono accecati, molti vi ebbero arse e deformale la bocca e le mani, e in una parola tutte quelle parti del corpo, che sendo nude, davan presa all’azione del fuoco. Il quale eziandìo piovea sulle macchine che si accostavano a’ muri, fulminate di continuo da una spezie di saette impeciate tutte intorno di pece e resina, che dopo accese si scagliavan con forza tale, da farvele rimanere appese in modo, che ardendo, bruciavano e consumavano i legnami.
Ma ne’ primi giorni non si conobbe da qual parte inclinasse la fortuna. Di poi, si vedendo aggirar tanto tempo, andava disconfortando l’esercito di Massimino, e uscendo di speranza, era tristo e pensieroso: perchè, iti là sicuri che neppure un solo giorno avrebbero retto al loro impeto quei terrazzani, ora si accorgevano, non solo non cedere, ma tutto dì più ferocemente combattere. Gli aquilejesi al contrario sempre più si animavano e invigoriano, e addestrati da quel continuo combattere, divenuti erano audacissimi a segno di farsi beffe de’ soldati, e dileggiando Massimino e il figliuolo quando faceano il giro delle mura, gli caricavano d’improperi e di villanìe.
Da’ quali scherni quegli arrabbiato e furioso, non si potendo sfogare su’ nemici, si volse a’ suoi, e fece morire molti de’ generali, accusandoli di proceder lentamente e con codardìa nell’assedio. In tal guisa si rendette più odioso a’suoi soldati, e pili spregevole agl’inimici. Accadea ancora che quei della città erano nell’abbondanza di tutte le cose, essendo stati attentissimi fin da principio a provedersi di tutto ciò che può occorrere al sostentamento degli uomini e de’cavalli. Laddove l’esercito di Massimino, mancando di tutto, e svelti gli alberi fruttiferi, e guaste tutte le campagne, se ne stava alloggiato, parte in tende fatte all’imprescia, e parte allo scoperto, ed esposti al sole ed all’acqua. Nè di nessuna parte gli eran recate le provisioni, cui han duopo e gli uomini e i cavalli, per essere guardate di vista tutte le strade d’Italia, e si stare tutto a porte chiuse e riserrato entro i muri. Ed il senato avea in ogni luogo spedito personaggi consolari con seguito di persone scelte e ragguardevoli per custodire il littorale tutto ed i porti, ed impedire ogni spezie di navigazione, affin di tenere Massimino nell’ignoranza assoluta di ciò che si operava entro Roma. Di maniera che non vi essendo alcuna via e nemmen sentiero che non fosse diligentissimamente guardato, accadea che lo esercito, il quale assediava, fosse egli non meno assediato. E così non potea nè impadronirsi di Aquileja, nè marciare sopra Roma per mancanza di barche e di carriaggi, stati tutti da’ romani presi e assicurati. Ingigantiasi eziandio per timore ogni voce di movimento: essere in armi tutto il popolo romano, di un medesimo spirito animata tutta Italia, porsi in piedi un esercito dall’Illiria e da tutto l’oriente e mezzodì, congiurati e consensienti nel detestare Massimino. Per la qual cosa eran venuti all’ultima disperazione, mancando loro tutte le cose, e nou potendo nemmen dissetarsi di acqua, ch’avean duopo attigner di quella del fiume, imbrodolata tutta di sangue e di marcia. Perchè gli aquilejesi, quei cadaveri i quali sotterrar non poteano, precipitavano nel fiume, e i soldati facean lo stesso di que’ tra loro che morivano di ferro o di malattia, fra i quali ve ne furono alcuni che dalla fame consumati l’anima ancora (come suol dirsi) co’ denti teneano.
Essendo dunque in questo modo l’esercito afflitto e di ogni cosa bisognoso, accadde un giorno, e appunto in un di quelli che non si combattea, che, mentre Massimino si riposava sotto il suo padiglione, e gli altri tutti o alle loro tende o agli altri alloggiamenti si teneano, quei soldati della guardia ch’hanno i loro quartieri in Roma appiè del monte Albano, e vi ten gono le loro mogli e i figliuoli, congiurarono di ammazzarlo, per dar fine una volta a que’ mali che facea loro soffrire quel lunghissimo assedio, e sbrigarsi medesimamente di guerreggiare in grazia di un tiranno la propria patria, e di rendersi odiosi a tutti e detestabili. Onde, preso animo, sul punto di mezzo giorno corrono al padiglione imperiale, ed unendosi loro le guardie stesse, strappan prima la sua immagine dalle bandiere, e poi lui, uscito per parlare, col figliuolo tagliano a pezzi, e insieme il prefetto del pretorio e tutti i suoi più intimi favoriti. E sbalzati via i cadaveri con ogni scherno e vituperio, gli lasciarono pasto de’ cani e degli avvoltoj, e spiccatene le teste le inviarono in Roma al senato. Questo fine ebbero Massimino e il figliuolo, e così pagarono il fio della malvagità del loro governo.
Ma l’esercito, intesa la morte de’ principi, era come fuori di se, perchè non tutti egualmente se ne rallegravano, ed in ispezie gli ungheri ed i traci che lo aveano i primi elevato all’imperio: ma, non si potendo più tornare indietro, dissimulavano il loro dolore, e davan vista di prender parte alla gioja degli altri. Onde, posate le armi, tutti in pace si accostarono ad Aquileja, e fatta sapere l’uccisione di Massimino, dimandavano che si aprissero loro le porte, e si tenessero non più per inimici ma in conto di amici. I generali però non lo permisero, e d’insù le mura mostrando le immagini di Massimo, Balbino, e Gordiano imperadori, incoronate tutte di alloro, e con lieti evviva festeggiandole, confortavano l’esercito a fare il medesimo, e a riconoscere quelli che stati erano eletti dal senato e popolo romano, non essendo più tra loro, ma in cielo e cogl’iddii il vecchio Gordiano. Intanto le mure, come in un mercato, si empivano di pane, di vino, e di ogni spezie di commestibili, ed eziandio di vesti e di scarpe, e di tutte quelle cose, delle quali abbonda una città florida e doviziosa. Questo sbigottì maggiormente l’esercito, pensando che sovrabbondassero a sostenere un assedio anche più lungo, e prima dover essi già languenti perir dalla fame, che venir a capo d’impadronirsi di una città che di ogni bene avea copia. Così fermo si stava l’esercito appiè delle mura , prendendo ciascuno di quello che avea bisogno, e insieme famigliarissimamente ragionando: ed essendo tutto in pace ed in calma, la si parea pure un’apparenza di assedio con quell’esercito schierato intorno le mura.
Mentre che così passavano le cose in Aquileja, que’ soldati di cavalleria che portavano in Roma il capo di Massimino, venivano di gran galoppo, e per tutto erano ricevuti lietamente, uscendo fuori a incontrarli lutti i popoli incoronati di alloro; e avendo passate quelle paludi e que’ stagni che giacciono fra Altino e Ravenna, dentro quest’ultima città trovarono Massimo, il quale mettea insieme tutte quelle reclute che gli vernano da Roma e da altri luoghi d’Italia e di Germania, da dove que’ popoli che l’adoravano per essere stati da lui governati con rettitudine, le aveano fatte partire con pubblica deliberazione. Essendo dunque in questo occupato, ecco venire que’ cavalli che recavano le recise teste de’ principi con la nuova della vittoria, e il felice annunzio che l’esercito consente co’ popoli a riconoscere per imperadori gli eletti dal senato. Queste inaspettate notizie commossero a tanta letizia, che tutti corsero a’ tempj e a’sagrifizj, applaudendosi di aver vinto senza sudare una tanta vittoria. Poiché Massimo ebbe celebrato, rispedì a Roma quegli stessi soldati a portare sì bella notizia, e a far mostra de’ teschj. I quali là giunti, te gl’infilzano alle aste, acciò ognuno gli potesse vedere. Sarebbe impossibile esprimere con parole l’allegrezza e la festa di quel giorno. Non vi fu persona, qualunque ne fosse l’età, che non uscisse di casa e non si affrettasse di correre a’ templi e agli altari: andavano tutti come pazzi rallegrandosi scambievolmente, e unendosi in molti crocchj la discorrevano come in un parlamento. Balbino corse a immolare un ecatombe, e non vi era magistrato nè senatore che non ne festeggiasse e non si desse a tal’uopo il più gran moto, parendo loro di aver tratta la testa fuori della mannaja. Partivano intanto molti legati incoronati di alloro per recarne la nuova alle provincie. Mentre che con tanta gioja festeggiava il popolo romano, Massimo partitosi da Ravenna venne in Aquileja, passando il Pò là dove corre a metter capo in quelle lame, nelle quali distendendosi con le altre acque che cadono da vicini pantani, e impaludandole, si precipita poi per sette bocche in grembo al mare. Gli aquilejesi, aperte le porte, ricevettero Massimo: e quivi convennero lé legazioni di tutte le città d’Italia. composte de’cittadini più riguardevoli in vesti candidissime, e inghirlandati di allori, seco recando eziandìo le immagini de’ loro dii, e, di corone di oro, quante più ne’ tempj ne aveano. Si rallegrava ognuno con Massimo, e augurandogli le più grandi prosperità in segno di allegrezza lo spargeano lutto di fiori. E l’esercito stesso che avea assediato Aquileja gli andette incontro a fargli riverenza, incoronato di alloro e in abito quieto e pacifico; sebbene mossi a onorar Massimo, non già da una concorde benevo lenza, ma piuttosto per adattarsi a’ tempi, e non dar calci alla contraria fortuna, scoppiando la più parte di rabbia e di dolore di vedersi rapito quello ch’essi si erano scelti, e regnare colui ch’avea eletto il senato. Massimo, impiegati due giorni a celebrare i sngrifizj, nel terzo riunì l’esercito in una pianura, e salito in tribunale così parlò: Questa pace che voi in luogo della guerra godete, vi fa manifesto qual utile abbiate ritratto dal pentirvi e riconcigliarvi co’ romani, riprendendo la riverenza che dovete agl’iddìi, pe quali avete giurato quel giuramento ch’è il più grande e santissimo sostegno di questo principato. Se volete dunque goder sempre di questi vantaggi, vi si conviene esser fedeli al senato e popolo romano, e a noi imperadori, che di loro unanime consentimento, e per la grandezza della prosapia e delle imprese ci siamo, come per gradi, a questo imperio elevati. Imperocché non è già esso imperio un patrimonio che sia proprio di un solo, ma lo si appartien tutto intiero a quell’augusta Roma ch’è la sola depositaria delle comuni prosperità. Noi non ne siamo che gli amministratori ed i procuratori, e perciò ci dovete esse/re riverenti e rispettosi, tenendo per fermo che, se vi comporterete con moderazione, saremo per farvi vivere una vita felicissima e di ogni bene copiosa, rimanendo tutti i popoli in piena pace, ed a noi obbedientissimi. Voi ve ne starete, come desiderate, ciascheduno in casa sua, nè vi strazierete più guerreggiando in paesi oltramontani: che sarà nostra cura tenere a freno le nazioni barbariche. Ed essendo noi, due imperadori, saprem meglio maneggiare il governo dell’interno, e se gli affari esterni avessero duopo di essere disbrigati con sollecitudine, ci vedrete muover tosto ove facesse di bisogno. Nè vi corra per la mente il menomo sospetto che noi, od i romani, o tutti altri, non avessimo dimenticato ciò che voi avete fatto per altrui comandamento. Quel eli è stato è stato, ne sia spenta e annientata ogni memoria, e leghiamoci tutti, più che possiamo tenacemente, cogli amichevoli nodi di una fede e di una benevolenza sempiterna. Così avendo parlato Massimo, ed avendo promessa loro una grossa somma di denaro, si trattenne alcuni pochi giorni in Aquileja, e poi si determinò di tornarsene in Roma. Perciò, fatto acquartierare l’esercito nelle provincie e ne’ soliti quartieri, tornò in Roma scortato da’ reggimenti della guardia e dalle truppe di Massimino, riportando seco eziandìo quegli ajuti tedeschi ch’erano venuti di Germania, in cui soprattutti fidava per esserseli renduti affeziona tissimi, allorché fu a governargli prima che venisse eletto all’imperio. Appressandosi alla città gli venne incontro Balbino che conducea seco Gordiano, e tutti poi furono intromessi come in trionfo, in mezzo agli applausi del senato e del popolo.
Governando quindi i due principi con gravità e moderazione grandissima, se ne dicea a piena bocca ogni bene, rallegrandosi e gloriandosi tutti universalmente della nobiltà del loro sangue e delle loro maniere, pregj che non garbeggiavano di nessun modo a’ soldati, i quali indispettivano anzi di quel favore popolare, e di dover sottostare all’elezion del senato. Fremevano poi di rabbia a veder que’ tedeschi che Massimo tenea seco in città, temendo in loro i vendicatori degli oltraggi che oserebbero fare alla imperiale maestà, con sospetti eziandio di vedetegli subentrare in loro vece alla guardia, tornando loro in memoria gli assassini di Pertinace dimessi da Severo. Celebrandosi dunque le feste di Campidoglio, e standosi tutti attenti agli spettacoli, ecco che scoppia fuori improvisa quell’ira accolta, e inferociti e furibondi, con armi minacciose, corrono a palazzo per tagliare a pezzi i loro vecchi imperadori. I quali, insipiditi entrambi del non. ispartibile di regno, eran volti a lo si svellere l’uno all’altro di ma no, si parendo Balbino in diritto di primeggiare, come più nobile e insignito di due consolati, e non gli si menomando Massimo che si paoneggiava dell’essere stato prefetto, e della riputazione sua di abilissimo nel maneggio delle pubbliche incombenze. L’esser poi ambedue patrizj e nobilissimi facea sì che ciascheduno di loro si giudicasse più degno dell’imperio. Questa loro discordia gli trascinò al precipizio. Imperocché Massimo, sentito ch’ebbe essere venuti i pretoriani per porlo a morte, volea che senza perdita di tempo si chiamassero in soccorso que’ tedeschi ch’erano in città, ed in istato di fronteggiargli; ma Balbino, conoscendo quanto costoro erano sviscerati di Massimo, temette non se gli tendessero insidie, e ci si oppose dicendo che sotto pretesto di dare addosso a’ ribelli si avea in mira di spogliarlo dell’imperio. Or mentre stanno essi altercando, eccoti i soldati che fracassate le porte e dileguati i portieri e le guardie, si spingon là dentro, e poste le mani addosso a’ due vecchi, straccian loro le vesti di camera che gli coprivano, e così nudi gli traggoii fuori di palazzo: e vituperandogli con ogni spezie di villanìe, e dileggiandogli d’imperatori senatorii, e strappando loro la barba e le sopracciglia, e ogni altri suoi membri straziando, per mezzo la città gli trascinano in campo, risoluti di non fi nirgli che di morte lenta e tormentosa. Ma venuto avviso che i tedeschi aveano dato di piglio alle armi, e cor reano a torgli loro di mano, si gittano addosso a quegli smozzicati corpi, e tolgon loro il poco iiato di vita che gli rimanea: e, lasciatine in istrada i cadaveri, prendono il cesare Gordiano, e per non si avere altra persona, te lo levano in alto e lo acclamano imperadore, gridando al popolo, aver essi ucciso coloro ch’eran stati dinanzi suo rifiuto, ed eletto Gordiano di quel Gordiano nepote che fu popolarmente elevato all’ imperio. Così, seco loro conducendoselo, si ridussero al campo, e chiusene le porte, si tennero nella massima quiete. I tedeschi, quando ebbero saputo ch’erano già stati uccisi quegli pe’ quali avevano prese le armi, non credendo convenirsegli venire inutilmente alle mani per uomini già morti, si ritirarono anch’essi a’ loro quartieri. Questo fine ebbero que’ due santi e venerabili vecchi, indegni certo di morte si crudele e vituperosa, e degnissimi di vedersi elevati alla maestà deli’imperio per la nobiltà del loro sangue, ed in compenso delle ragguardevolissime loro virtù. Così Gordiano, giunto appena a tredici anni, venne universalmente dichiarato imperadore, e prese le redini dello stato.
Fine dell’Ottavo ed ultimo Libro.