Il vecchio bizzarro/Atto III
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ATTO TERZO.
SCENA PRIMA.
NOTTE.
Camera.
Flamminia e Florindo.
Flamminia. Così è, fratello mio. Quel vostro amico mi piace infinitamente. Il signor Pantalone è un uomo avanzato, ma di buona grazia e di buonissimo umore.
Florindo. Anch’io lo stimo infinitamente. Per la sua onoratezza, per il suo buon cuore ch’egli ha per gli amici suoi, il signor Celio ne parla con una grandissima stima; e per dir vero, tutti gli rendono giustiza, tutti di lui si lodano, e tutti nelle loro conversazioni lo bramano.
Flamminia. Felice me, se mi toccasse un marito di questa taglia.
Florindo. Lo prendereste voi, benchè vecchio?
Flamminia. Mi consigliereste voi ricusarlo unicamente per questo?
Florindo. Niuno consiglierà una donna, che preferisca un giovane pazzo ad un vecchio saggio; ma le donne poche volte ascoltano gli altrui consigli, e se hanno la libertà di scegliere, per lo più si abbandonano al peggio.
Flamminia. Di me, Florindo carissimo, dovreste aver miglior concetto. Sapete ch’io sempre stata sono nemica della gioventù scorretta. Mi sarei adattata a sposare il signor Ottavio per compiacervi, quando non lo avessi scoperto di poca mente, e di peggiore condotta. Ora mi permetterete ch’io dica di non volerlo, e voi stesso che siete del di lui procedere mal soddisfatto, troverete il pretesto per licenziarlo.
Florindo. Sarà meglio che ritorniamo in Livorno.
Flamminia. No, Florindo, è meglio che noi restiamo in Venezia.
Florindo. Ottavio ci darà dei disturbi.
Flamminia. Vi sarebbe il modo facile per farlo tacere.
Florindo. E come?
Flamminia. Se io mi maritassi, si estinguerebbe in lui la speranza.
Florindo. Siamo forestieri, Flamminia, non è così facile...
Flamminia. Eh, basta volere.
Florindo. Ho io d’andar cercando per mia sorella il marito?
Flamminia. Non basterebbe che, trovandolo io, l’approvaste?
Florindo. Quando fosse da vostro pari....
Flamminia. Non lo sarebbe il signor Pantalone?
Florindo. Pensate voi se il signor Pantalone vuol prender moglie! Ha sempre detto ch’egli ama la sua libertà.
Flamminia. E pure, se argomentar volessi da certe parole.... da certe occhiate....
Florindo. Duro fatica a crederlo; ma quando mai ciò fosse, io sarei contentissimo.
Flamminia. Mi permettete che possa assicurarmene destramente?
Florindo. Fatelo colla solita prudenza vostra. Ma Ottavio ci sarà d’ostacolo.
Flamminia. Basta ch’io dica di non volerlo, perchè egli abbia da cedere ogni sua pretensione. Finalmente non sono corse che sole parole, e queste non hanno più sussistenza, sempre che la vita, ch’egli ora mena, giustifica le mie ripulse.
Florindo. Non so che dire. Altra sorella non ho che voi. Bramo di contentarvi. (parte)
SCENA II.
Flamminia sola.
Con un vecchietto allegro non potrei stare che bene. Se fosse uno di quei rabbiosi, o uno di quelli che soffrono più malattie che anni, mi guarderei dal prenderlo. Ma certamente il signor Pantalone fa invidia ad un giovanetto.
SCENA III.
Clarice e detta.
Clarice. Si può venire, signora Flamminia?
Flamminia. Favorite pure, signora Clarice, mi fate onore.
Clarice. Siamo nella medesima casa, e ci vediamo pochissimo.
Flamminia. Io non ardisco di disturbarvi.
Clarice. Cara amica, mi mortificate. Sapete pure...
Flamminia. Sì, lo so che mi volete bene.
Clarice. Vostro fratello vuol più partire per ora?
Flamminia. Ho speranza di no. Se sapeste... Basta.
Clarice. Raccontatemi qualche cosa.
Flamminia. Ho speranza di restar qui per sempre.
Clarice. Maritarvi qui forse?
Flamminia. Chi sa.
Clarice. E il signor Ottavio?
Flamminia. Se lo prenda chi vuole.
Clarice. (Me lo prenderei io, se me lo dessero). (da sè)
Flamminia. Che dite?
Clarice. Nulla. Avete qualche cosa per le mani?
Flamminia. Vi è un certo vecchietto... Per ora non posso dir niente, saprete tutto
Clarice. A proposito di vecchietto, stamane mi sono divertita assaissimo con un vecchio.
Flamminia. Chi è questi? Lo conosco io?
Clarice. Sì, lo conoscete. È il signor Pantalone.
Flamminia. Non mi maraviglio che vi siate ben divertita. È l’uomo più lepido e più gentile di questo mondo.
Clarice. Volete che ve ne racconti una bellissima?
Flamminia. La sentirò volentieri.
Clarice. Il signor Pantalone si è innamorato di me.
Flamminia. Innamorato di voi?
Clarice. Sì: che ne dite? Non è un bel pazzo? Potrebbe esser mio padre.
Flamminia. Da che l’avete voi argomentato, che sia invaghito di voi?
Clarice. Oh, da cento cose. Se l’aveste veduto! languiva, propriamente languiva. E poi me l’ha detto a chiarissime note.
Flamminia. (Pazienza! mi sarò ingannata). (da sè) Voi come avete corrisposto alle sue finezze?
Clarice. Io? Ve lo potete immaginare. Quando gli uomini passano li trent’anni, non li tratto più volentieri. Mi sono un po’ divertita. L’ho lusingato un poco il povero galantuomo; l’ho lasciato partir colla bocca dolce; ma a trattenermi di ridere ho fatto una fatica bestiale.
Flamminia. Parmi che il signor Pantalone non sia persona che meriti d’esser derisa.
Clarice. Oh, in quanto a me, non la perdonerei nemmeno a mio padre.
Flamminia. È molto che un uomo di mondo, accorto come lui, siasi lasciato burlare.
Clarice. Voleva egli far il bravo. Badava a dire che le donne non l’hanno mai innamorato, che non le stima, che non le cura. Ma io con due paroline, con un’occhiatina di quelle che ammazzano, l’ho colpito, l’ho ferito, e l’ho conquassato.
Flamminia. Povero signor Pantalone, mi dispiace vederlo posto in derisione così.
Clarice. Siete assai compassionevole. Ma voi, ora che mi sovviene, siete portata assaissimo per i Veneziani. Vi lasciereste far giù facilmente da un Venezianotto che sapesse fare.
Flamminia. Io non praticherei persona che mi potesse far giù.
Clarice. Se praticaste il signor Pantalone, può essere che con voi gli riuscisse di fare quello che non gli è dato l’animo di fare con me.
Flamminia. Che vuol dire?
Clarice. Siete tanto di buon cuore, che quantunque egli sia vecchio, scommetto vi avreste da lui lasciata menar per il naso.
Flamminia. Non posso tener celata la verità. Il signor Pantalone è un uomo che mi piace infinitamente.
Clarice. Voi mi dite ora una cosa che mi dà pena. Flamminia, non vorrei che gli diceste ch’io lo burlo.
Flamminia. Non gli dirò che lo abbiate burlato. Ma per l’avvenire potete tralasciare di farlo.
Clarice. Mi volete far perdere il più bel divertimento di questo mondo.
Flamminia. Cara amica, vi par cosa onesta deridere in sì fatta maniera una persona di garbo? Fino che aveste per lui qualche inclinazione, vi compatirei; ma per deriderlo solamente, io non vi saprò lodare.
Clarice. Basta... sentite... Se devo confidarvi la verità, non lo faccio poi solamente per deriderlo; ma.... quantunque non mi piacciano i vecchi, il signor Pantalone ha un non so che, che mi dà nel genio.
Flamminia. (Peggio ancora per me). (da sè)
Clarice. (È necessario burlar anche lei, chi non vuol perdere il divertimento). (da sè)
Flamminia. Lo pigliereste voi per marito?
Clarice. Perchè no? Potrebbe anche darsi.
Flamminia. Se disprezzate gli uomini che hanno passati i trent’anni!
Clarice. Tutti gli uomini non sono come il signor Pantalone.
Flamminia. Ed egli credete voi che aderisse alle vostre nozze?
Clarice. Lo credo sicuramente.
Flamminia. Potreste anche ingannarvi.
Clarice. Sapete voi qualche cosa in contrario?
Flamminia. Il mio dubbio è fondato sul temperamento del signor Pantalone. Non mi par uomo da lasciarsi lusingare sì facilmente.
Clarice. Oh Flamminia cara, mi conoscete poco.
Flamminia. Qualche volta ci fidiamo troppo di noi medesime.
Clarice. Quasi quasi, mi fareste venire un poco di caldo.
Flamminia. Non vi riscaldate. Se saranno rose, fioriranno.
Clarice. Fioriranno certo.
SCENA IV.
Celio e dette.
Celio. Nipote mia, dove vi cacciate voi, che non vi lasciate trovare?
Clarice. Eccomi qui, signore. Vi occorre nulla da me?
Celio. Per voi si può morire; non vi lasciate vedere.
Clarice. Vi è venuto forse qualche accidente?
Celio. (Sputa) No, per grazia del cielo. Non mi parlate di queste cose per carità.
Flamminia. In verità, signor Celio, avete una buonissima cera.
Celio. In buon punto, in buon’ora lo possa dire che il cielo mi conservi.
Clarice. Via, state allegro. Siete grasso, rosso, fresco....
Celio. In buon punto, in buon’ora lo possa dire che il cielo mi conservi.
Clarice. Sì, caro zio, il cielo vi conservi.
Celio. Un grand’uomo è quel signor Pantalone. Basta ch’io lo veda, basta che stia un’ora con lui, mi passa tutto.
Flamminia. Il signor Pantalone è adorabile.
Celio. È adorabile certo.
Clarice. In fatti, dopo che siete stato a desinar con lui, siete più allegro, più brillante, più bello.
Celio. In buon punto, in buon’ora lo possa dire che il cielo mi conservi.
Clarice. Sono svaniti i giramenti di testa?
Celio. Sì. (sputa)
Clarice. Il polso va bene?
Celio. Sì. Ma non mi parlate di queste cose. Nipote mia, il signor Pantalone è la mia salute. Egli mi ha guarito; in buon punto lo possa dire, e desidero d’averlo sempre al mio fianco; onde voglio assolutamente che si faccia questo matrimonio.
Flamminia. Qual matrimonio, signore?
Celio. Del signor Pantalone con mia nipote.
Clarice. Sentite? (a Flamminia)
Flamminia. E disposto il signor Pantalone?
Celio. Signora sì, è disposto. Gliel’ho detto, Clarice, e spero che si farà senz’altro.
Clarice. Sentite? (a Flamminia)
Flamminia. Me ne rallegro infinitamente.
Clarice. (Ora la scena si fa più bella). (da sè) Come gli avete detto, signor zio?
Celio. Gliel’ho detto... Non mi ricordo più le precise parole: ma contentatevi, ch’egli non è lontano.
Flamminia. (Le mie speranze sono perdute). (da sè)
SCENA V.
Argentina e detti.
Argentina. Signore, siete domandato. (a Celio)
Celio. Chi mi vuole?
Argentina. Il giovine dello speziale col solito divertimento.
Celio. Col lavativo?
Argentina. Per l’appunto.
Celio. Vengo subito.
Clarice. Ma se state bene ora: che cosa volete fare di questa sudicieria?
Celio. Sono avvezzo così. Se non lo facessi, mi ammalerei.
Clarice. Eh via, che siete sano, e starete sano.
Celio. In buon punto, in buon’ora lo possa dire che il cielo mi conservi. (parte)
SCENA VI.
Flamminia, Clarice e Argentina.
Argentina. Signora Flamminia, anch’ella è domandata.
Flamminia. Da chi?
Argentina. Dal signor Pantalone.
Flamminia. Avrete sbagliato. Sarà la signora Clarice.
Argentina. No davvero, ha domandato di lei.
Flamminia. Per me è padrone.
Clarice. Io partirò, signora.
Flamminia. No, no, restate pure.
Argentina. Eh, stia forte. Il vecchietto è di buon gusto. Non si confonderebbe se fossero sei. (parte)
Clarice. (Vado fra me dubitando, che Flamminia sia gelosa di questo vecchio. La sarebbe bella davvero). (da sè)
Flamminia. (Può esser che venga qui, perchè vi si trova Clarice). (da sè)
Clarice. In verità, signora Flamminia, se avete qualche interesse con lui...
Flamminia. Io non ho interessi da trattare in segreto con chi che sia. (alterata)
Clarice. Via, via, non vi riscaldate.
Flamminia. Una volta per ciascheduna.
SCENA VII.
Pantalone e dette.
Pantalone. Servitor umilissimo.
Flamminia. Serva umilissima.
Clarice. Gran carestia fa della sua persona il signor Pantalone. Non si vede mai.
Pantalone. (Adesso la me minchiona). (da sè) Nevvero, patrona? Xe cent’anni che no se vedemo. Quanti minuti xe passai da sta mattina a stassera?
Clarice. Quando si ha della premura, le ore paiono secoli.
Pantalone. (E tocca via). (da sè) E per questo anca mi ziro e reziro come l’ave intorno al miel. (Botta de remando). (da sè)
Flamminia. Sarete venuto, signor Pantalone, per fare una visita alla signora Clarice.
Pantalone. Se gh’ho da dir la verità....
Flamminia. Spiacemi che l’abbiate ritrovata qui col disagio della mia compagnia; ma mi ritirerò per non disturbarvi.
Clarice. (Ora ci ho gusto). (da sè)
Pantalone. Anzi, patrona, voleva dirghe che son qua per parlar con ela.
Flamminia. Eh no, signore; ci conosciamo.
Pantalone. (Siestu malignazza! Anca questa la finze de esser zelosa. Le me tol per man, come va, ste patrone; ma no le ha da far con un orbo). (da sè)
Clarice. Signor Pantalone, se avete de’ segreti colla signora Flamminia, comodatevi, io partirò.
Pantalone. La me vol privar delle so grazie? La me vol lassar cussì presto?
Clarice. Quando poi la mia presenza non vi dia noia, resterò per compiacervi.
Pantalone. La me consola, la me rallegra, la me fa respirar.
Clarice. (Il vecchio si scalda). (da sè)
Pantalone. (Le pago coll’istessa monea). (da sè)
Flamminia. Orsù, signori miei, io non ho da essere testimonio de’ vostri vezzi.
Pantalone. Son qua per ela con tutto el cuor. (a Flamminia)
Flamminia. Il vostro cuore è impegnato.
Pantalone. Gh’ala nissuna premura per el mio cuor?
Flamminia. Come potete voi dire d’essere qui venuto per me?
Pantalone. Ghe dirò. Ho trovà so sior fradello, el m’ha dito certe cose, certe parole... che no le capisso ben.
Flamminia. A mio fratello voi non dovete badare.
Clarice. Che cosa vi ha detto il fratello della signora Flamminia?
Pantalone. No gh’ho suggizion a dirlo. El m’ha dito cussì...
Flamminia. Signore, mi maraviglio di voi, che vogliate dire in pubblico ciò che mio fratello vi avrà detto in segreto.
Pantalone. No la xe cossa che no se possa dir...
Flamminia. Tant’è, voi non l’avete da dire.
Clarice. (Vi è qualche mistero assolutamente). (da sè)
Pantalone. Sala ela cossa che el me pol aver dito? (a Flamminia)
Flamminia. Me l’immagino.
Pantalone. Cossa ghe par su quel proposito che la s’immagina.
Flamminia. Che cosa pare a voi?
Pantalone. Vorla che diga come l’intendo?
Flamminia. Sì, ditelo pure.
Pantalone. Intendo, vedo e capisso che i se tol spasso de mi.
Flamminia. Non è vero, signore....
Pantalone. Cossa disela de sto tempo, patrona? (a Clarice)
Clarice. Il tempo è bello, ma la mia fortuna è assai trista.
Pantalone. Cossa gh’ala che la desturba?
Clarice. Ah signor Pantalone. (sospira) Niente. (si volta e ride)
Flamminia. (Ehi, vi burla). (a Pantalone)
Pantalone. (Eh, me ne son intaggià). (a Flamminia)
Flamminia. (Se conosceste meglio il mio cuore...) (a Pantalone)
Pantalone. La diga mo.
Flamminia. Pazienza. Non posso dirvi di più. (si volta)
Clarice. (Le credete?) (a Pantalone)
Pantalone. (Gnente affatto). (a Clarice)
Flamminia. (Clarice mi disturba infinitamente). (da sè)
Pantalone. Comandele che le serva de una fettina de pero?
Clarice. Ha tutte le sue galanterie il signor Pantalone.
Pantalone. Cosse da vecchio, védela. Cosse da poveromo. Roba tenera, e che costa poco. (tira fuori un coltello per mondare la pera)
Clarice. Capperi! Quel pezzo di coltello portate in tasca?
Pantalone. Arma spontada, che no serve più. (mondando la pera)
Flamminia. Siete fatto apposta per favorire le donne.
Pantalone. Una volta m’inzegnava.
Clarice. Se siete il ritratto della galanteria!
Pantalone. Dasseno? (mondando la pera)
Flamminia. La grazia non si perde sì facilmente.
Pantalone. Eh via. (come sopra)
Clarice. Guardate come monda bene quella pera.
Pantalone. Una volta me destrigava in do taggi. Adesso bisogna che fazza un pochetto alla volta.
Flamminia. Per far le cose bene, ci vuole il suo tempo.
Pantalone. Una volta fava presto, e ben; adesso fazzo adasio, e mal.
Clarice. Eh via, non vi avvilite, signore. Siete un uomo fresco, forte, robusto.
Pantalone. La toga sto bocconzin de pero. (a Clarice)
Clarice. Obbligatissima.
Pantalone. Anca ela, patrona. (a Flamminia)
Flamminia. Vi ringrazio, signore. Frutti non ne mangio mai.
Pantalone. No la se degna de receverlo dalle mie man?
Clarice. Ha ragione la signora Flamminia; a lei dovevate presentarlo prima.
Flamminia. Io non ho queste pretensioni.
Pantalone. Mi no vardo le suttiliezze. Vago alla bona, vago all’antiga. La favorissa, la prego. (a Flamminia)
Flamminia. Davvero vi sono obbligata. (lo ricusa)
Pantalone. La toga ela. (a Clarice)
Clarice. Vi ringrazio. (lo ricusa)
Pantalone. Lo magnerò mi. (mangia, e segue a tagliare)
Flamminia. Credetemi, signora Clarice, che il vostro carattere mi fa specie.
Clarice. Ed il vostro, signora, mi fa compassione.
Pantalone. Comandela? (offre a Flamminia)
Flamminia. Obbligatissima. (ricusa)
Pantalone. Ella? (a Clarice)
Clarice. Grazie. (ricusa)
Pantalone. Magnerò mi. (mangia, e segue a tagliare)
Flamminia. La burla va bene fino ad un certo segno, (a Clarice)
Clarice. Molte volte si dicono delle cose per iscoprire l’altrui’intenzione.
Flamminia. In ogni maniera il fingere non è cosa buona.
Clarice. Si vedono i difetti altrui, e non si conoscono i propri.
Pantalone. Comandela? (a Flamminia)
Flamminia. Dispensatemi, signore. (ricusa)
Pantalone. Comandela? (a Clarice)
Clarice. Sto bene così. (ricusa)
Pantalone. Lo magnerò mi.
Flamminia. Io sono una donna che parla chiaro.
Clarice. Ed io sono una che non parla torbido.
Pantalone. El rosegotto1 no la lo vorrà. (a Flamminia)
Flamminia. (Che femmina ardita!) (da sè)
Pantalone. Gnanca ela. (a Clarice)
Clarice. Sì, signore, io lo prenderò, (lo prende di mano a Pantalone)
Pantalone. Brava. Da mi no se pol sperar altro che rosegotti.
Flamminia. Ho inteso, signori miei. Accomodatevi meglio senza di me.
Pantalone. Eh via, me maraveggio. Cossa voi dir? Se scaldele; se vorle dar per le mie maledette bellezze? A monte, patrone, a monte ste cargadure2. Se cognossemo. So che le me burla. Son vecchio, ma no son da brusar. E se le me tol per un rosegotto de fatto, le sappia che gh’ho ancora polpa, sugo e sostanza; che son mauro, ma no son marzo; e che se no son un pero botirro da prima stagion, son un pero da inverno ben conservà, che no gh’ha invidia d’una nespola dalla corona.
Flamminia. Signore, se voi parlate di me, sappiate...
Clarice. Io non so fingere, signore.
SCENA VIII.
Ottavio e detti.
Ottavio. Non vi è nessuno che porti un’ambasciata?
Flamminia. Possibile che non vi sia nessuno?
Ottavio. Non vi è nessuno, signora. Compatitemi, se ho ardito di entrare. Premevami di vedere il signor Pantalone.
Pantalone. Son qua. Cossa me comandela?
Flamminia. Come sapevate ch’ei fosse qui?
Ottavio. Me l’ha detto il signor Celio. Ma, signora, la mia persona vi è molto odiosa, per quel ch’io vedo.
Flamminia. Eccolo il signor Pantalone; servitevi, se vi aggrada.
Ottavio. Una parola in grazia, signore, (tira in disparte Pantalone)
Clarice. (Si vede che il signor Ottavio non lo può vedere. Senz’altro è innamorata del signor Pantalone. Ora mi fa venir volontà di farla disperare davvero). (da sè)
Pantalone. Vegnì qua; contemela mo. Donca sior Martin...
Ottavio. Il signor Martino mi ha fatto un affronto in pubblico per causa vostra.
Pantalone. Per causa mia?
Ottavio. Sì signore. I zecchini che voi gli avete pagati per me, dic’egli che calano venti grani, e pretendeva ch’io glieli barattassi. Ha pubblicato alla presenza di mezzo mondo, che ho perduto sulla parola. Che voi avete pagato per me. Che ho impegnato l’anello. E dicendogli che, se i zecchini calano, venga a farsi risarcire da voi, ha detto che siete un prepotente, un bulo, un uomo che vuol vivere con soverchieria.
Pantalone. De mi l’ha dito sta roba?
Ottavio. L’ha detto; ed ha soggiunto che ha coraggio per sostenerlo.
Pantalone. Non occorr’altro. Ho inteso.
Ottavio. Ve la passerete voi senza risentimento?
Pantalone. Ho inteso.
Ottavio. Io avrei cambiati volentieri a colui li zecchini calanti, ma sapete il mio stato...
Pantalone. Le compatissa, se le lassemo sole.
Ottavio. Se voi mi voleste favorire sopra l’anello...
Pantalone. Le me permetta che vaga in t’un servizietto. Tornerò a riverirle; perchè, sul proposito che gerimo, no son gnancora contento. Voi che vegnimo in chiaro della verità. Son un galantomo....
Ottavio. Se siete un galantuomo, dovete ascoltarmi...
Pantalone. Son un galantomo, e no vôi sentir altro. Patrone. (parte)
Ottavio. Questa è una inciviltà, una indiscretezza, un’impertinenza.
Flamminia. Signor Ottavio, nelle mie camere non vorrei che si alzasse la voce.
Ottavio. Nelle vostre camere non parlerò più, nè alto, nè basso.
Flamminia. Mi farete piacere.
Ottavio. Non so per altro da che provenga il disprezzo, con cui da poco in qua mi trattate.
Clarice. (Ve lo dirò io). (ad Ottavio)
Flamminia. Non oso disprezzarvi; ma intendo di essere nella mia libertà.
Ottavio. Posso sapere almeno il perchè?
Clarice. (Causa il signor Pantalone). (ad Ottavio)
Ottavio. Il signor Pantalone, signora, vi ha parlato di me?
Flamminia. Sì, mi ha parlato con del calore. Mi ha detto cento belle ragioni, perchè si concludessero le nostre nozze.
Clarice. (Non le credete). (ad Ottavio)
Ottavio. E voi, signora, che cosa avete in contrario?
Flamminia. Per ora non ho piacere di legarmi.
Ottavio. Non dicevate così pochi giorni sono.
Flamminia. Non lo sapete, signore? Noi donne siamo volubili.
Clarice. Piano, signora Flamminia, che se lo siete voi, non lo sono tutte.
Flamminia. È vero: voi non siete di questo numero.
Clarice. Io mi picco d’essere una donna costante.
Flamminia. Costantissima ne! burlarvi sempre di tutti.
Clarice. Come potete dirlo?...
Ottavio. Con vostra licenza, signora Clarice, vorrei che la signora Flamminia mi spiegasse con un poco più di chiarezza il motivo della sua novella avversione all’affetto mio.
Clarice. Ma se ve lo dirò io. (ad Ottavio)
Ottavio. Voglio saperlo da lei.
Flamminia. Dispensatemi, signor Ottavio.
Ottavio. Non signora, non posso in ciò dispensarvi. Pretendo che mi abbiate a dire il perchè.
Flamminia. Ve lo dirò un’altra volta.
Ottavio. Ora voglio saperlo. Voglio saperlo ora, per regolarmi anch’io a misura delle vostre ragioni.
Flamminia. Ve lo dirò dunque.
Clarice. Siete buono, se credete ch’ella voglia dirvi la verità. (ad Ottavio)
Ottavio. Questo è quello che anch’io pavento. Voi non mi direte la verità.
Flamminia. Ve la dirò, signore, ve la dirò, perchè mi costringete a doverla dire. E voi stesso giustificatemi presso quella signora che non mi crede; ditele voi, se vi dico il vero. Signor Ottavio, quando vi ho conosciuto a Livorno, parevate un giovane di buon costume. In Venezia tardi ho saputo il modo vostro di vivere. Voi siete un giuocatore vizioso; siete un uomo che si rovina, che cimenta la propria riputazione, che non merita stima, che non esige rispetto, e che da me non può lusingarsi di essere amato. Eccovi la verità: se vi dispiace d’averla intesa, incolpate voi stesso, che mi avete importunato per dirla. Ringraziate la signora Clarice, che mi ha insolentato per pubblicarla. (parte)
Clarice. Che dice il signor Ottavio?
Ottavio. (Venezia non è più paese per me). (da sè, e parte)
Clarice. Non mi risponde nemmeno. Convien dire che Flamminia abbia detto la verità. (parte)SCENA IX.
NOTTE.
Strada.
Pantalone con lanterna, e due Uomini.
Pantalone. Lo cognosseu sior Martin?
Uomo. Lo cognosso.
Pantalone. De qua l’averia da passar.
Uomo. A sta ora el passa ogni sera.
Pantalone. Ben, retireve. Stè attenti; e col capita, deghe sie bastonadele per omo, e gnente più.
Uomo. Lassè far a mi, sior.
Pantalone. No ghe dè sulla testa. No ghe fe troppo mal. Me basta che l’impara a parlar ben dei galantomeni della mia sorte. Vu altri stè là; mi stago qua; e se ghe sarà bisogno de gnente, fideve de mi. Savè chi son. No ve lasserò in te le pettole3. (chiude la lanterna)
Uomo. Me despiase de no poderghe dar sulla testa. (parte)
Pantalone. De costori me posso fidar. Per mi i anderave in tel fogo, perchè po anca mi, in ti so bisogni, ghe fazzo del ben se occorre, so defenderli in t’una occasion; e per i mi amici, e per i mi dependenti, ghe son colle man, colla ose, colla scarsella e colla vita stessa se occorre.
SCENA X.
Brighella con lanterna accesa, e Pantalone.
Brighella. Oh Sior Pantalon, èla ella?
Pantalone. Stuè quel feral.
Brighella. Gh’ho da parlar, gh’ho da dar una polizza.
Pantalone. Stuè quel feral, ve digo.
Brighella. Ma no se ghe vede...
Pantalone. Lo stuerò mi. (dà un calcio alla lanterna, e gliela getta di mano)
Brighella. Obbligatissimo.
Pantalone. Parlè a pian. Cossa voleu?
Brighella. Ho da darghe una polizza del me patron.
Pantalone. Cossa vorlo da mi sior Ottavio. Me mandelo i mi quaranta ducati?
Brighella. Credo anzi, che el ghe ne voia dei altri.
Pantalone. Andè a bon viazo, compare. Da mi no se vien a oselar i merlotti.
Brighella. Ma la senta sta polizza.
Pantalone. Quando l’alo scritta?
Brighella. Adesso, in sto momento.
Pantalone. No xe mezz’ora che l’ha parlà co mi.
Brighella. E dopo l’ha scritto sto viglietto.
Pantalone. Dè qua; lassè veder.
Brighella. Védela? Se avesse la lanterna che la m’ha morzà...
Pantalone. Gnente, ghe xe el bisogno. Seu omo da vardarme la schena?
Brighella. Ala qualche nemigo?
Pantalone. Ghe xe dei baroni. Stè attento se vien nissun, e avviseme. (apre la lanterna)
Brighella. (No vorria entrar in qualche impegno. Dall’altra parte me preme anca mi sti danari). (da sè)
Pantalone. (Legge) Signor Pantalone riveritissimo. Dovendo domani partir per Livorno per accomodare gli affari miei, sono in necessità di danaro. Vorrei disfarmi del mio anello, che ha vossignoria nelle mani; perciò la prego, se fa per lei, darmi il restante del prezzo, e se non lo vuole per sè, procurarne la vendita sollecitamente. A me è costato dugento zecchini; ma lo stato in cui mi ritrovo, mi obbliga a darlo per meno. A lei mi rimetto, essendo certo della sua onoratezza, assicurandola che in caso tale il di lei soccorso può contribuire alla mia quiete, ed alla mia riputazione. Attendo la risposta con impazienza alla spezieria del Satiro, e riverendola sono. Poverazzo! el me fa anca peccà.
Brighella. Ala letto?
Pantalone. Ho letto. (serra la lanierrta)
Brighella. Cossa diseia? Lo porla consolar?
Pantalone. Sentì, missier Brighella, mi son uno che per gonzo non vol passar. Fazzo servizio, co posso, basta che no i me vegna con dei partii. Se sior Ottavio voi andar a Livorno, se el gh’ha bisogno dasseno per i fatti soi, e no per zogar, son un galantomo, lo servirò. L’anello l’ho fatto veder, l’ho fatto stimar. Tutti lo considera de sotto dei cento e cinquanta zecchini. Ma a chi stima, no ghe dol la testa. Andò là, andò dal vostro paron, diseghe che, se l’è contento, ghe ne darò cento e settanta. Comprerò mi l’anello per farghe servizio, e perchè nol creda che voggia far negozio sul so bisogno, diseghe che el vaga a Livorno, che el fazza i fatti soi: tegnirò l’anello sie mesi, un anno, e senza nissun interesse; e col me darà i mi bezzi, ghe darò la so zoggia indrio.
Brighella. Questo l’è un trattar da gran signor, da par soo.
Pantalone. No son un gran signor, ma son un galantomo. Son chi son.
Brighella. Caro sior Pantalon....
Pantalone. Andò via, no perde più tempo. Adessadesso sarò là anca mi.
Brighella. Vado subito. Ma no ghe vedo.
Pantalone. Aspettò, che ve farò luse. (apre la lanterna)
Brighella. No vorave....
Pantalone. Andè via de qua, ve digo.
Brighella. (Anderò da st’altra banda.) (da sè, e parte)
Pantalone. Ho paura che i passa la mezza dozzena. (fischia)
SCENA XI.
Martino e Pantalone.
Martino. Furbazzi! Sassini! Mi no fazzo gnente a nissun.
Pantalone. Com’èia? (apre la lanterna)
Martino. Sior Pantalon, son sassinà.
Pantalone. Gnente, compare, el scarso dei zecchini.
Martino. A mi, cospettonazzo?
Pantalone. Via, sangue e tacca. (mette mano)
Martino. Sior Pantalon, bona sera sioria.
Pantalone. Schiavo, compare.
Martino. No credeva mai, che me fessi sto affronto.
Pantalone. Quanto giereli scarsi i zecchini?
Martino. Via, no parlemo altro.
Pantalone. Voi saver quanto che i giera scarsi.
Martino. Quattordese grani.
Pantalone. Sie fia quattordese ottantaquattro. Tolè sto mezzo felippo, che me dare el resto doman.
Martino. Eh, n’importa.
Pantalone. Tolèlo, che voggio che lo tolè.
Martino. Lo togo.
Pantalone. Semo del pari. Mi ho paga el mio debito, e vu avè paga el vostro. Zitto, gnente fu, gnente sia.
Martino. Grazie de tutto, sior Pantalon.
Pantalone. Sè paron de mi, compare Martin. A revéderse; e co volè qualcossa da mi, comandeme. (parte)
Martino. Manco mal che xe de notte. Nissun saverà gnente. (parte)
SCENA XII.
Camera in casa di Celio.
Celio e Traccagnino.
Traccagnino. Sior patron, la me favorissa el ducato.
Celio. Tieni, te lo dono, ma non lo meriti. Che razza di medico è colui? Borbotta che non s’intende; non ha detto nulla, e mi ha fatto venire più male di quel che aveva. (sputa)
Traccagnino. E sì l’è un omo de garbo.
Celio. Vammi a ritrovare il signor Pantalone.
Traccagnino. E no la me dise altro?
Celio. Non ti ho da dir altro. Vammi a trovar il signor Pantalone.
Traccagnino. No me par che abbiè dito tutto.
Celio. Che cosa dovrei dire di più?
Traccagnino. Me par che doveressi dir: Vammi a ritrovare il signor Pantalone, che ti donerò un ducato.
Celio. Briccone; ti do il salario, e se voglio un servizio, ho da pagarti ancora?
Traccagnino. Quelle parole le ha una virtù simpatica, che me fa camminar più presto.
Celio. Va subito. Vammi a ritrovare il signor Pantalone.
Traccagnino. Che ti darò un ducato.
Celio. Che ti darò, se non vai, delle bastonate.
Traccagnino. Quelle le xe parole, che per antipatia le me impedisse de camminar.
Celio. Ti farò muovere con il bastone.
Traccagnino. Se me darò, ve vegnirà una sciatica in t’un brazzo.
Celio. (Sputa) Va via di qua.
Traccagnino. Se griderò, ve vegnirà la scaranzia4.
Celio. (Sputa) Va via, dico.
Traccagnino. Ve vegnirà la colica in tel cervello.
Celio. Sta zitto, briccone. (sputa)
Traccagnino. Se anderè in collera, deventerè paralitico.
Celio. (Sputa) Il diavolo che ti porti.
Traccagnino. Se chiamerè el diavolo, el ve porterà via.
Celio. (Sputa forte) Oimei. Vattene per carità.
Traccagnino. Via, vado. Za el ducato me lo darè.
Celio. Te lo darò. Vattene, te lo darò.
Traccagnino. Gnente paura, sior patron. Sì bello, san; gh’avè bona ciera.
Celio. In buon’ora, in buon punto lo possa dire, che il cielo mi conservi.
Traccagnino. El vostro mal l’è in tel cervello.
Celio. Sei un briccone.
Traccagnino. In buon punto, in buon’ora lo possa dire, che il cielo mi conservi. (parte)
SCENA XIII.
Celio solo.
Tutti mi fanno arrabbiare, mi fanno disperare, mi fanno crescere il male. Non vi è altri che il signor Pantalone, che mi consoli, che mi faccia star bene. Volesse il cielo ch’egli prendesse mia nipote per moglie, e che volesse venire a stare con me; lo farei padrone di tutto il mio.
SCENA XIV.
Clarice e detto.
Clarice. E bene, signor zio...
Celio. O nipote, ora appunto pensava a voi.
Clarice. Ed io voleva domandarvi, che cosa ha detto di me il signor Pantalone.
Celio. Ha detto qualche cosa che mi fa sperar bene. Voi lo prendereste volentieri?
Clarice. Se avesse egli trent’anni di meno, perchè no?
Celio. E se io in riguardo suo vi facessi una donazione di tutto il mio?
Clarice. Allora poi lo prenderei anche se avesse trent’anni di più.
Celio. Facciamola dunque.
Clarice. Ma con un patto.
Celio. Con qual patto?
Clarice. Che della roba che mi donaste, fossi padrona io; e maneggiandola a mio modo, non avessi a dipendere dalla seccatura d’un vecchio.
Celio. A questa condizione non si farà niente.
Clarice. E niente sia.
Celio. Voi mi volete veder morire.
Clarice. Perchè?
Celio. Perchè solo il signor Pantalone mi potrebbe dare la vita.
Clarice. Eh, vi vuol altro per guarire dai vostri cancheri.
Celio. (sputa forte) Che parlare sguaiato!
SCENA XV.
Flamminia, Florindo e detti.
Flamminia. Ora mi lusingate, caro fratello. Ho motivo di non vi credere.
Florindo. Eppure credetemi, ch’ella è così.
Celio. Caro amico, voi che avete della bontà per me, persuadete voi mia nipote a fare una cosa buona.
Florindo. Che cosa, signore?
Celio. A sposare il signor Pantalone.
Flamminia. Sentite? Non ve l’ho detto?
Florindo. Evvi qualche trattato fra lei ed il signor Pantalone?
Celio. Vi potrebbe essere.
Clarice. Basterebbe ch’io volessi.
Flamminia. Ecco; sentitela. (a Florindo)
Florindo. A me il signor Pantalone si è dichiarato parzialissimo di mia sorella.
Celio. E con me si è mostrato inclinatissimo per mia nipote.
Florindo. Il signor Pantalone si burlerà dell’una e dell’altra.
Clarice. Io non sono una persona di cui la gente si prenda giuoco.
Florindo. Nè mia sorella sarà impunemente schernita.
Celio. La signora Flamminia non è impegnata col signor Ottavio?
Florindo. Col signor Ottavio ogni trattato è sciolto.
Clarice. Ed ella volentieri si mariterebbe in Venezia.
Celio. Non so che dire: giacchè non ha difficoltà dì sposare un uomo avanzato.... posso esibirmi ancor io.
Clarice. Non vi mancherebbe altro, per crepare in tre giorni.
Celio. (Sputa.)
SCENA XVI.
Pantalone e detti.
Pantalone. Con buona grazia, son qua. I m’ha dito che sior Celio me cerca. Patroni reveriti.
Celio. Sì, caro amico. Sono io che vi cerca, perchè ho bisogno di voi.
Florindo. Anch’io ho da parlarvi, signor Pantalone.
Pantalone. Son qua per tutti. E elle comandele gnente da mi? (a Flamminia e Clarice)
Clarice. La signora Flamminia vorrebbe qualche cosa.
Pantalone. La comandi, patrona. (a Flamminia)
Florindo. La signora Flamminia vorrebbe sapere, se voi vi prendete spasso di lei.
Pantalone. Per cossa me disela sto tanto, patron?
Florindo. Che cosa avete voi detto a me tre ore sono, in proposito di mia sorella?
Pantalone. Ho resposo a quel che vu m’avè dito.
Florindo. Io vi ho detto, ch’ella desiderava di maritarsi in Venezia.
Pantalone. E mi ho resposo, che saria fortunà quell’omo che ghe toccasse.
Florindo. Ho soggiunto, che sarei contentissimo se voi foste quello.
Pantalone. Ho replicà, che no me chiamerave degno de sta fortuna.
Florindo. Ed io ho promesso di parlare con lei.
Pantalone. E mi ho mostrà desiderio de sentir la risposta.
Florindo. Che dice ora il signor Celio, che si tratta l’accasamento fra voi e la signora Clarice?
Pantalone. Se el se tratta, ho da saverlo anca mi.
Celio. Non vi ho detto, che mia nipote ha qualche inclinazione per voi?
Pantalone. Xe vero; e mi cossa v’oggio resposo?
Celio. Avete parlato con della stima di lei.
Pantalone. I omeni civili no desprezza nissun. Ma za che semo alle strette, parlemo schietto, e spieghemose un poco meggio. Mi veramente son arrivà a sta età senza maridarme, perchè m’ha piasso la mia libertà; e la vita che me piaseva de far, no la giera troppo comoda per una muggier. Adesso son in ti anni. Me xe morto do sorelle, che me serviva de compagnia; me governo, vago a casa a bonora; e se me capitasse una bona occasion, fursi fursi faria in vecchiezza quello che in zoventù non ho volesto far. In sta casa per altro non son vegnù co sto fin. Colla siora Clarice ho parlà a caso, co siora Flamminia ho parla per el sior Ottavio. Tutte do le se ha cavà spasso de mi, le m’ha tolto per man. Ho secondà el lazo, e ho resposo a tutte do de trionfo5. Co sior Celio e co sior Florindo ho parlà con respetto, con un poco de accortezza, ma senza gnente impegnarme. Son un galantomo; se le mie parole se pol intaccar, son pronto a dar sodisfazion a chi vuol. Ma le sappia ste do patrone, che son a casa anca mi, che dalle donne no m’ho lassà mai minchionar, che con chi dise dasseno son capace de dir dasseno anca mi, e co chi se diletta de minchionar, cognosso el tempo, e so responder da cortesan.
Florindo. Che dite voi, signora sorella?
Flamminia. Dirò...
Clarice. Risponderò prima io, signore.
Pantalone. Avanti che le responda, le me permetta che ghe diga altre quattro parole. Se qualcheduna intendesse da dir dasseno, e se con una de elle avesse la sorte de compagnarme, xe giusto che avanti tratto ghe diga la mia intenzion. In casa mia se vive alla vecchia; le donne le ha da star a casa, le xe fatte per star a casa, e no per andar tutto el zorno a rondon6. El carneval una volta all’opera, una volta alla commedia, e po basta. Anca se le volesse ballar, se unisse el parentà: e con un per de orbi7 se balla. Ho pratica el mondo; so quel che nasce, quel che succede; no digo de più, perchè no me vorave far strapazzar. Mi l’intendo cussì. Alla vecchia se fa cussì. Chi ghe comoda, me responda; e chi no ghe comoda, se ne vaga a trovar de meggio.
Florindo. Che dice la signora sorella?
Flamminia. Per me risponderò...
Clarice. Perdonatemi, voglio prima risponder io.
Celio. Sì, nipote, dite voi la vostra savia intenzione.
Pantalone. (Cussì scorverziremo terren). (da sè)
Clarice. Rispondo dunque, e dico, che il signor marito alla vecchia non è fatto per una giovine alla moderna. Che a questo patto non isposerei un re di corona. (parte)
Celio. Venite qua, sentite.
Pantalone. Adesso cognosso che la me burlava.
Celio. Costei vuol essere la mia morte. (sputa)
Pantalone. Cossa dise siora Flamminia?
Flamminia. Io, signore, che non vi ho mai burlato, ma che sempre ho avuto per voi della stima e della venerazione, vi dico e vi protesto, che mi chiamerei fortunata se vi degnaste di me, e mi trovereste rassegnatissima al vostro genio, al vostro savio costume.
Pantalone. Adesso cognosso che la me diseva dasseno.
Florindo. Mia sorella ha diecimila ducati di dote8.
Pantalone. E mi gh’ho tanto da poderghela sigurar.
SCENA XVII.
Argentina e detti.
Argentina. Signori, è qui il signor Ottavio, che vorrebbe passare.
Flamminia. Io non lo voglio vedere.
Pantalone. La se ferma. La lassa che el vegna, e no la gh’abbia suggizion. Con licenza de sior Celio, diseghe che el vegna avanti.
Argentina. Che ha la signora Clarice, ch’è venuta di là ridendo?
Pantalone. La gh’ha le gattorigole9 in tel cervello.
Florindo. Non crederei che Ottavio potesse pretendere...
Pantalone. Sior Ottavio el va via domattina.
Florindo. Se non ha denari.
Pantalone. El gh’ha più de cento zecchini. Lo so de seguro.
Florindo. Come li ha fatti?
Pantalone. I ghe sarà vegnui da Livorno. (No vôi far saver che ghe li ho dai mi). (da sè)
Celio. Caro signor Pantalone, non mi abbandonate per carità.
SCENA ULTIMA.
Ottavio e detti.
Ottavio. Che novità è questa? È vero quel che mi ha detto la signora Clarice? Il signor Pantalone sposerà la signora Flamminia?
Pantalone. Pol esser che Pantalon la sposa.
Ottavio. Se ciò fosse, egli mi averebbe fatto una mal’azione.
Pantalone. Pantalon no xe capace de far male azion. Co siora Flamminia no vol sior Ottavio, sior Ottavio no la pol obbligar. Son galantomo; e che sia la verità, la pensa meggio a quel che xe passà tra de nu. Sto anello, co la lo vol, xe sempre a so requisizion.
Ottavio. (Ho capito; merito peggio; mi rimprovera con ragione). (da sè) Fiorindo, se nulla vi occorre da Livorno, partirò domani.
Florindo. Buon viaggio a voi.
Ottavio. Riverisco lor signori. (parte)
Pantalone. (Anca questa la xe giustada). (da sè)
Florindo. Dunque, signor Pantalone, siete disposto a prendere mia sorella?
Pantalone. Basta ch’ella sia disposta a tor un omo della mia età.
Flamminia. Son contentissima. Eccovi in testimonio la mano.
Pantalone. La chiappo in parola. Una donna della so prudenza e della so bona condotta no el xe partìo da lassar. (E diese mile ducati no i xe una sassada). (da sè)
Celio. Ah signor Pantalone, giacchè mia nipote è una pazza, voglio venire a stare con voi. Prendetemi in casa vostra per carità.
Pantalone. E vostra nezza?
Celio. Finchè si mariti, la metterò in ritiro.
Pantalone. Volentiera. A sto patto sè paron de casa mia. Con mi no gh’averè flati, no gh’averè rane. Staremo allegramente, e con direzion.
Son stà un omo bizzarro in prima età;
Bizzarro me mantegno anca in vecchiezza.
Per no sacrificar la libertà,
Del matrimonio odiava la cavezza.
Me marido alla fin, perchè ho trovà
Dota, muso, bontà, grazia, saviezza.
E al despetto dei anni e del catarro,
La vita vôi fenir Vecchio Bizzarro.
Fine della Commedia.
Note
- ↑ Torsolo.
- ↑ Caricature, affettazioni.
- ↑ Nelle angustie, nell’imbarazzo: v. Boerio.
- ↑ Angina: v. Boerio.
- ↑ Goldoni spiega: «Alludesi al gioco denominato Trionfo, vuol dire rispondere nella stessa maniera». V. vol. II, 234.
- ↑ Goldoni spiega «qua e là»: vedi voi. II, p. 419, n. c.
- ↑ Con un paio di ciechi (sonatori) ecc.
- ↑ Nella sc. 3, atto I, Ottavio dice trentamila.
- ↑ Il solletico: v. Boerio.