Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Ottavio e Brighella.

Ottavio. Dunque il mio anello è nelle mani del signor Pantalone.

Brighella. L’è nelle man d’un galantomo. L’è segura che el sarà ben custodido.

Ottavio. Ma perchè non ti hai fatto dare sino alla somma dei cinquanta zecchini?

Brighella. Per verità ghe l’ho dito; ma l’ha pagà i quaranta ducati d’arzento a sior Martin, e noi ha1 voludo dar altro.

Ottavio. Non ha voluto dar altro? Non avrai saputo chiedere. L’anello vale duecento zecchini. Pretenderà egli di tenerlo per quaranta ducati? [p. 452 modifica]

Brighella. In questo, la perdona, no me par che la possa parlar cussì. L’ha preteso de far una bell’azion a pagar sto debito per vussignoria; el l’ha fatto senza interesse; no l’è omo che sia capace de voler un soldo de più. Ma nol se pol obbligar.

Ottavio. Ma non può obbligar nemmeno me, che io gli lasci nelle mani un anello che vale dugento zecchini, per un’ipoteca di quaranta ducati; o mi renderà il mio anello, perchè li possa ritrovare in un altro luogo.

Brighella. No so mo, se el la intenderà cussì...

Ottavio. Tu sei quello delle difficoltà. So io quel che dico, e non ho bisogno che tu mi faccia il pedante.

Brighella. Diseva cussì, perchè me pareva...

Ottavio. Va a vedere se trovi il signor Pantalone, e digli che mi preme parlargli, che favorisca venir da me.

Brighella. La vol mo anca che el s’incomoda a venir da ela?

Ottavio. Tu sei il maggior seccatore del mondo. Fa quel che ti dico, e non replicare.

Brighella. Son un seccator, l’è la verità, ma no posso far de manco de no seccarla un altro tantin, se la me permette.

Ottavio. Che cosa mi vorresti dire? Parla.

Brighella. Ghe domando perdon.

Ottavio. Via, parla; sbrigati.

Brighella. Se de quattro mesi de salario, che avanzo, la me ne favorisse almanco do...

Ottavio. Va a ritrovare il signor Pantalone.

Brighella. Ho bisogno de camise e de scarpe...

Ottavio. Va a ritrovare il signor Pantalone.

Brighella. Lo cercherò; ma la prego per carità...

Ottavio. Va a ritrovare il signor Pantalone. (gli getta un guanto nel viso)

Brighella. I poveri servitori no i se paga cussì. (parte)

Ottavio. A un uomo che ha perso i denari al giuoco, codesto stolido viene a domandare il salario. Io sono in disperazione. Il giuoco mi ha rovinato. Se non mi rimetto in qualche maniera, sono in grado di andarmene da Venezia, abbandonar [p. 453 modifica] la causa, lasciar Flamminia, perder tutto, e precipitarmi. Il signor Pantalone mi darà il mio bisogno. Sul mio anello non mi negherà i cinquanta zecchini, e se me li negasse, corpo di bacco, averà da fare con me. È vero che mi ha sollevato da un debito con uno che mi potea svergognare, ma non mi basta. Sono alla disperazione, e non ho altra RIsorsa che questa.

SCENA ii.

Florindo ed Ottavio.

Florindo. Signor Ottavio, vi riverisco.

Ottavio. Schiavo suo. (sostenuto)

Florindo. Voi mi guardate assai bruscamente.

Ottavio. Per causa vostra ho perduto stamane l’osso del collo.

Florindo. Per causa mia?

Ottavio. Sì, per causa vostra. Io son così; quando giuoco con soggezione, perdo sicuramente.

Florindo. Compatitemi, non ho preteso di mettervi in soggezione. Se me l’aveste avvisato prima, sarei partito.

Ottavio. Perchè non andarvene, quando ve l’ho detto?

Florindo. Pochi momenti mi son di poi trattenuto.

Ottavio. Basta, è fatta; convien pensare al rimedio.

Florindo. Caro Ottavio, possibile che non vogliate una volta aprir gli occhi, e tralasciar di giuocare? Il cielo vi ha dato uno stato comodo da poter viver bene ne! vostro grado. Che volete di più? Il giuoco è per i disperati. Il giuoco ha la sua origine o dall’avarizia, o dall’ambizione. Ravvedetevi una volta, e amate meglio la vostra quiete, la vostra salute, e la vostra riputazione.

Ottavio. Sì, lo farò. Lascierò il giuoco sicuramente.

Florindo. Se così farete, tutti gli amici vostri con voi si consoleranno, ed io più degli altri; io, che oltre il vincolo dell’amicizia, deggio avere con voi quello ancora della parentela. Mia sorella sarà vostra sposa. Non vi sarà che dire sopra di ciò. Scusatemi, se trasportato dalla collera questa mattina... [p. 454 modifica]

Ottavio. Niente, amico, niente, cognato mio. Vi compatisco. So che mi amate, e che per zelo vi riscaldate. Per l’avvenire sarà finita; ma convien rimediare ai disordini, ne’ quali sono caduto.

Florindo. Quali sono i disordini che vi dan peso?

Ottavio. In confidenza. Non ho denari, e sino che non mi giungono delle rimesse di casa mia, non so come fare a sussistere.

Florindo. Non saprei... Se la mia scarsa tavola non vi dispiace, siete padrone di servirvene finche volete.

Ottavio. Voi siete ospite del signor Celio.

Florindo. Il signor Celio mi favorisce il quartiere. La tavola la faccio io.

Ottavio. Non è la tavola che mi dia pena. Le mie angustie sono maggiori. Ho de’ debiti, e ho da pensare a pagarli.

Florindo. Debiti di giuoco?

Ottavio. Debiti che mi conviene pagare.

Florindo. Caro amico, se aveste badato alle mie parole...

Ottavio. Ora non è più tempo di suggerimenti o di correzioni. Ho bisogno d’aiuto; e voi, se mi siete amico, riparate la mia riputazione, soccorretemi nelle mie angustie.

Florindo. I debiti vostri a quanto ascenderanno?

Ottavio. A trecento zecchini.

Florindo. La somma non è indifferente. Mi dispiace non potervi servire.

Ottavio. Non mi darete ad intendere di non potere; dite piuttosto, che non volete. Diffidate forse di me?

Florindo. No, ma sono anch’io lontano di casa mia. Questa somma non è in mio potere.

Ottavio. Mi servirebbono anche dugento.

Florindo. Non li ho, vi dico...

Ottavio. Anche cento, per ora.

Florindo. Sì, anche cinquanta sarebbero il caso vostro, per rigiocare colla speranza di vincere.

Ottavio. Il vostro zelo, compatitemi, sente assaissimo della pedanteria.

Florindo. E il vostro animo ha un po’ troppo della doppiezza. [p. 455 modifica]

Ottavio. Sono un uomo d’onore.

Florindo. Fate che per tale vi dichiarino le vostre azioni.

Ottavio. Intacchereste voi di poco onorate le azioni mie?

Florindo. Non si fanno debiti per giocare.

Ottavio. Se ho de’ debiti, li pagherò.

Florindo. Farete il vostro dovere.

Ottavio. Non ho bisogno per farlo dei consigli vostri.

Florindo. Nè io m’affaticherò più per darveli inutilmente.

Ottavio. Un amico che affetta di consigliarmi, e nega poi di soccorrermi, lo stimo poco.

Florindo. Nè io fo grande stima d’un uomo, che per i suoi vizi non ha riguardo ad incomodare gli amici.

Ottavio. Signor Florindo, voi vi avanzate troppo.

Florindo. Per non eccedere soverchiamente con voi, mi asterrò di trattarvi.

Ottavio. Infatti, per trattar bene coi galantuomini, avreste bisogno d’avere imparato qualche cosa di più.

Florindo. Coi galantuomini so trattare; con voi può essere ch’io non lo sappia.

Ottavio. Chi sono io?

Florindo. Il signor Ottavio Aretusi.

Ottavio. Che volete voi dire?

Florindo. Che questa sarà l’ultima volta che parlo con voi.

Ottavio. Perderò poco a perdere un amico insolente.

Florindo. Ed io guadagnerò assai coll’allontanarmi da un temerario.

Ottavio. Per rendere più sicuro il nostro allontanamento, vi vuol la morte d’uno di noi. (mette mano alla spada)

Florindo. Questo è il fine dei disperati. (fa lo stesso, e si battono)

SCENA III.

Pantalone e detti.

Pantalone. Alto, alto, patroni.

Florindo. Lasciateci battere.

Pantalone. Se le se voi batter, che le vaga fora de ste lagune. Qua no se fa ste cosse. [p. 456 modifica]

Ottavio. Signor Pantalone, ho da parlarvi.

Pantalone. Son qua per ela. Brighella m’ha dito...

Florindo. In altro tempo mi darete soddisfazione. (ad Ottavio)

Ottavio. Son pronto, quando volete.

Pantalone. Coss’è sta cossa? Coss’è sto negozio? Se porlo saver? Se ghe pol remediar? Songio bon mi de giustar sto pettegolezzo?

Ottavio. Sappiate, signor Pantalone...

Pantalone. La metta drento quella cantinella2.

Florindo. Egli mi ha provocato...

Pantalone. Caro sior, la metta via la martina3. (a Florindo)

Ottavio. Io farò giudice voi...

Pantalone. Arme in fodro.

Florindo. Non sarà vero ch’io mi lasci...

Pantalone. A monte le bulae. Mettè via quelle spade.

Florindo. Pretendereste forse...

Pantalone. Pretendo che no se fazza duelli, dove che ghe son mi. Disè le vostre rason. Son capace mi de giustarve; e a chi no sarà contento della mia decision, son qua mi a darghe soddisfazion.

Ottavio. La stima che ho di voi, mi fa sospendere ogni risentimento. (rimette la spada)

Pantalone. Bravo. Pulito. E ela, patron? (a Florindo)

Florindo. Lo farò, perchè son ragionevole. (rimette la spada)

Pantalone. Se pol saver cossa xe sta contesa?

Ottavio. Il signor Florindo ha detto a me temerario.

Florindo. Il signor Ottavio ha detto a me insolente.

Pantalone. Patta e pagai. Se tutte le partie le xe de sto tenor, nissun gh’averà nè da dar, nè d’aver. Perchè mo se xe vegnui a sta sorte de complimenti?

Ottavio. Mi vuol far da pedante.

Florindo. Pretende ch’io sia obbligato a secondare i suoi vizi.

Ottavio. Un amico che mi deve esser cognato, ricusa farmi un imprestito di cento zecchini. [p. 457 modifica]

Pantalone. Sentimo la rason.

Florindo. Chi presta denari ad un giocatore viziato, fomenta la sua passione.

Pantalone. Sior Ottavio, nol dise mal. (ad Ottavio)

Ottavio. Io non gli chiedo danari per giuocare, ma per pagare i miei debiti.

Pantalone. Séntela? El parla da galantomo. (a Florindo)

Florindo. Non è vero, non li chiede...

Pantalone. Diseme, cari siori, non aveu da esser cugnai?

Florindo. Flamminia mia sorella, informata meglio del suo costume, non vuole aver che fare con lui.

Ottavio. Nè io mi curo d’imparentarmi con persone sì fastidiose.

Pantalone. Tra parenti anca in erba facilmente se impizza el sangue, e facilmente el se stua4. Le donne qualche volta le xe causa de una lite, e qualche volta le fa far una pase. A monte tutto. Femo sto matrimonio, e lassemo che missier Cupido trionfa.

Florindo. Mia sorella dipende da me fino a un certo segno; ma nel caso di collocarla, non voglio usarle violenza.

Pantalone. Bravo. Fin qua ghe trovo del bon. La diga la verità, sior Ottavio, sta siora Flamminia ghe vorla ben?

Ottavio. Finora mi lusingai, che non mi vedesse di mal occhio.

Pantalone. Ghe parlerò mi. Colle donne non son stà mai sfortunà. Co giera zovene, le persuadeva per mi; adesso che son vecchio, me xe resta la rettorica, e ho perso affatto l’umanità.

Florindo. Ella è padrona di sè, ma io col signor Ottavio...

Pantalone. Ma vu col sior Ottavio ave da esser amici.

Florindo. Sarà impossibile. Ottavio è torbido, già ve l’ho detto.

Pantalone. No, sior Florindo, nol xe torbido, nol xe ustinà, come la crede. Tutti i omeni i gh’ha el so caldo. Gh’ha despiasso che un amigo, che un che ha da esser so cugnà, ghe nega cento zecchini in prestio. Per i amici se fa quel che se pol. [p. 458 modifica] Mi tanto stimeria a imprestar a un amigo sta borsa, dove ghe sarà dusento zecchini in circa, come spuar per terra. Co se xe seguri de aver i so bezzi, no se pol far manco servizio de questo. E despiase a un galantomo sentirse dir de no. La me perdona, sior Fiorindo, l’ha fatto mal.

Ottavio. Certamente mi è un poco rincresciuto sentirmi negar in faccia un piacere dal signor Fiorindo.

Pantalone. Per altro po con elo no gh’ave gnente, no gh’ave inimicizia, sè pronto a tornar quel che gieri.

Ottavio. Certamente.

Pantalone. E ve despiase d’averlo desgustà.

Ottavio. Ancora.

Pantalone. E saressi pronto a darghe ogni sodisfazion.

Ottavio. Lo farei.

Pantalone. Sentìu? Seu sodisfa? (a Fiorindo)

Florindo. Lo dice in una maniera...

Pantalone. Cossa voleu? Che el se butta in zenocchion? L’ha dito anca troppo. Se sè omo, v’ha da bastar. A monte tutto, e che se fazza sta pase.

Florindo. Ma come, signore?...

Pantalone. Come, come, ve dirò mi come. Qualchedun no saveria far una pase senza bever, o senza magnar. Mi mo vedeu? Giusto le baruffe con una presa de tabacco. Anemo: gingè del serraggio. (offre del tabacco, e tutti e due lo prendono) La pase è fatta.

Florindo. Io, torno a dirvi, son ragionevole.

Ottavio. Nè io senza ragione.

Pantalone. Che cade5? La xe fatta, e no la se desfa. Vegnì qua. Deme la man. Amigo, e amici. (prende le mani di tutti due, e poi le unisce) Vegnirò po da siora Flamminia.

Florindo. Ella vi attenderà con piacere. È bellissimo il carattere di Pantalone, amico della pace, onorato e gioviale. (parte) [p. 459 modifica]

SCENA IV.

Ottavio e Pantalone.

Ottavio. (Ora è il tempo di chiedergli li cinquanta zecchini). (da sè)

Pantalone. Anca questa l’avemo giustada

Ottavio. Ecco qui; in oggi non si può sperare d’avere un piacere da un parente, da un patriotto.

Pantalone. No parlemo più del passà. La xe giustada, e giustada sia.

Ottavio. Un amico del vostro cuore non si trova sì facilmente.

Pantalone. Co posso, fazzo servizio volentieri; e co se tratta de far una pase, mi vago a nozze.

Ottavio. Vi sono obbligato dell’altro favore che fatto mi avete.

Pantalone. De che? Dei quaranta ducati d’arzento? L’ho fatto per la vostra reputazion, e anca per la mia. El vostro anello el xe in tele mie man; el xe seguro; ma senza vostro incomodo, co poderè, per mi no ve stè a travaggiar.

Ottavio. Spero che quanto prima mi verrà una rimessa di Livorno. Intanto, per dirla, aveva bisogno d’un altro po’ di denaro.

Pantalone. (Ho inteso). (da sè) Come va la vostra lite?

Ottavio. Anche questa mi affligge; e ogni giorno ci vogliono de’ denari.

Pantalone. Ghe vol pazienza. Le liti xe tormentose. Mi per altro non ho mai litigà co nissun. Se ho avù d’aver, m’ho fatto pagar; e a Palazzo non ho mai speso un soldo.

Ottavio. Caro signor Pantalone, vorrei...

Pantalone. Se tratta de assae in sta vostra lite?

Ottavio. Si tratta di dodicimila scudi, e spero di guadagnarla. Però trovandomi ora in bisogno...

Pantalone. Xe un pezzo che sè a Venezia?

Ottavio. Pur troppo, e mi costa un tesoro; però trovandomi ora in bisogno...

Pantalone. L’amicizia della siora Flamminia l’aveu fatta qua, o a Livorno? [p. 460 modifica]

Ottavio. A Livorno. Parmi d’avervelo detto un’altra volta.

Pantalone. Sarà, no me recordava.

Ottavio. Altri che voi, signor Pantalone, non può nello stato in cui sono...

Pantalone. No ve dubitè; lassè far a mi.

Ottavio. Voi mi potete aiutar con poco.

Pantalone. Lo farò senz’altro.

Ottavio. Per ora mi vorrebbe almeno la somma...

Pantalone. Anderò mi da siora Flamminia. Ghe parlerò in bona maniera, e vederè che la se giusterà anca ela.

Ottavio. Non parlo di questo...

Pantalone. E ghe leverò dalla testa le cattive impression, che contra de vu ghe sarà stà fatto.

Ottavio. Caro signor Pantalone, ascoltatemi.

Pantalone. Za ho inteso tutto.

Ottavio. Il mio bisogno sarebbe...

Pantalone. Vedo anca mi, che sta dota ve poderia comodar.

Ottavio. La dote è una cosa lontana. Ma il mio presente bisogno...

Pantalone. L’aggiusteremo.

Ottavio. Aiutatemi, signor Pantalone...

Pantalone. Vago subito in sto momento.

Ottavio. L’anello, signor Pantalone...

Pantalone. El xe in tele mie man, e no dubitò gnente.

Ottavio. Ma il danaro...

Pantalone. Me lo darè, quando che poderè.

Ottavio. Ora mi premerebbe d’avere...

Pantalone. No pensemo a malinconie. Vago a parlar co la putta.

Ottavio. Ascoltatemi.

Pantalone. Ho inteso tutto. Parleremo, se vederemo. Sioria vostra. (parte)

Ottavio. Non ho danari, non ho danari. Sioria vostra. Non ho danari. (parte) [p. 461 modifica]

SCENA V.

Camera in casa di Celio.

Celio solo.

In verità sono obbligato al signor Pantalone. Sono stato allegro; ho mangiato bene. Mi sono divertito, e non ho avuto alcun male. La compagnia, l’allegria, un poco di vino buono mi ha dato la vita. Da qui innanzi voglio regolarmi così. Non voglio medici, non voglio medicine; vuò stare allegro, non voglio abbadare a niente. Non mi voglio mai più tastare il polso. Ora dovrebbe essere più vigoroso. (si tasta) Buonissimo, fortissimo; e quest’altro? (si tasta l’altro polso) Ugualissimo. Non ho più niente di male. Quando i polsi battono in questa maniera, convien dire che si sta bene. Ora lo tasto per consolarmi. (seguita a tastarsi i polsi)

SCENA VI.

Clarice e detto.

Clarice. (Ecco mio zio che si tasta il polso; vuò divertirmi alle di lui spalle). (da sè)

Celio. (Questa botta non ha corrisposto... Eh, niente niente. Sto bene). (da sè)

Clarice. Signor zio, come si sta?

Celio. Benissimo, nipote mia, benissimo. Non ho più male, parmi di essere ringiovenito.

Clarice. Me ne rallegro davvero. Da che deriva questa bellissima novità?

Celio. Deriva dal mio carissimo amico signor Pantalone. Egli mi ha condotto all’osteria con una compagnia di galantuomini allegri; e ci siamo divertiti, e sto bene.

Clarice. Dunque è vero che i vostri mali sono immaginari?

Celio. Non so che dire. Non parliamo di male. Ora sto bene, e non voglio sentire malinconie. [p. 462 modifica]

Clarice. Farete bene a regolarvi così; perchè anche mio padre, vostro fratello, è morto per malinconia.

Celio. Salute a noi. (sputa)

Clarice. Gli sono venuti certi giramenti di capo.

Celio. Giramenti di capo? (si tocca la fronte)

Clarice. Ed ha principiato a temere di qualche accidente.

Celio. Salute a noi. (sputa)

Clarice. Si è posto nelle mani del medico.

Celio. E il medico che cosa ha detto?

Clarice. Subito gli ha fatto cavar sangue.

Celio. E poi?

Clarice. Il sangue gli ha fatto peggio; gli sono venuti dei tremori.

Celio. Salute a noi. (sputa)

Clarice. Non era niente, ma il poveruomo si è messo in malinconia.

Celio. In malinconia?

Clarice. Si è gettato nel letto, e non si è più levato.

Celio. Non si è più levato?

Clarice. Se l’aveste veduto, faceva pietà.

Celio. Salute a noi. (sputa)

Clarice. Da lì a poco tempo si è principiato a gonfiare.

Celio. (Sputa.)

Clarice. E finalmente è morto.

Celio. Oimè! (sputa)

Clarice. Che avete, signor zio?

Celio. Avreste per sorte un poco di spirito di melissa?

Clarice. In camera mia ne ho.

Celio. Per carità, andatela a prendere. (si tasta il polso)

Clarice. Vi sentite male?

Celio. Parmi che mi venga un giramento di capo.

Clarice. Eh niente, non ci badate. State allegro. Il signor Pantalone dunque vi ha divertito? È un uomo di garbo il signor Pantalone.

Celio. Sì, è un uomo allegro. Sino che sono stato con lui, non ho sentito alcun male. [p. 463 modifica]

Clarice. Ed ora vi è tornato male.

Celio. Se voi mi venite a seccare.

Clarice. Parliamo di cose allegre.

Celio. Sì, io ho bisogno d’un poco d’allegria.

Clarice. Signor zio, quando mi avete fatto venire a Venezia, mi avete scritto che avreste pensato a collocarmi.

Celio. E vero. Avete voi inclinazione al ritiro, o al matrimonio?

Clarice. Non saprei.

Celio. Ditelo liberamente.

Clarice. Vorrei essere intesa senza parlare.

Celio. Io non intendo muti.

Clarice. Guardatemi in ciera. Che cosa vi pare?

Celio. Se ho da dire il vero, per il ritiro non mi parete disposta.

Clarice. Dunque, che cosa faremo?

Celio. Vi mariterò.

Clarice. Oh bravissimo! e mi darete una buona dote.

Celio. (Sputa.)

Clarice. Sputate quanto volete, signor zio. Son vostra nipote. Mio padre mi ha lasciato poco; non ho altra speranza che in voi.

Celio. Vi mariterò, vi darò la dote. (sputa)

Clarice. (Sputa) Ora fate sputare anche me.

Celio. Se qualcheduno vi farà domandare, discorreremo.

Clarice. Ditemi, signor zio: il signor Pantalone non sarebbe per me a proposito?

Celio. Lo sarebbe certo; ma egli non ha mai voluto saper niente di donne.

Clarice. E se a me desse l’animo d’innamorarlo?

Celio. Vi stimerei la più brava donna del mondo.

Clarice. Un’altra volta ch’io gli parli, vi prometto d’essere a segno.

Celio. Certamente sarei contento che prendeste il signor Pantalone; anzi voglio io medesimo dargliene un tocco, e se questo matrimonio seguisse, voglio ch’egli venga a stare con me, essendo io sicurissimo che la sua compagnia, il suo bell’umore mi terrebbe allegro, e non avrei bisogno nè di medico, nè di medicine. [p. 464 modifica]

Clarice. (Non son sì pazza a sposare un vecchio; ma s’egli s’innamorasse di me, sarebbe il più bel divertimento del mondo), (da sè)

Celio. Nipote mia, gliene parlerò.

Clarice. Ma fatelo presto.

Celio. Avete così gran fretta?

Clarice. Non saprei... gli anni passano. Vorrei essere collocata prima che voi moriste.

Celio. (Sputa.)

Clarice. Siamo tutti mortali. Potreste mancare da un giorno all’altro.

Celio. (Sputa) Avete altro da dire? (in collera)

Clarice. Se anderete in collera, vi verrà un accidente. (parte)

Celio. (Sputa) Oimè! la bile è la mia rovina. M’accendo il sangue. Mi riscaldo il fegato. Subito mi si altera il polso. Eccolo qui. Batte come un martello. Sbalza. E irregolare. Povero me! Chi è di là? Vi è nessuno?

SCENA VII.

Traccagnino e Celio.

Traccagnino. Chi chiama?

Celio. Presto un medico per carità.

Traccagnino. A sta ora dove l’oi da trovar?

Celio. Cercalo subito. Va per le spezierie. Presto, che mi sento morire. (sputa)

Traccagnino. Lasserò ordine alla spezieria, che i lo manda col vien.

Celio. No, ho bisogno adesso.

Traccagnino. Adesso no lo troverò.

Celio. Cercalo; se lo trovi, ti do un ducato di buona mano.

Traccagnino. (Se podesse chiappar sto ducato!) (da sè)

Celio. Ma non perder tempo. Se trovi un medico, digli che venga subito; e se viene subito, gli do un zecchino.

Traccagnino. (Se podesse chiappar anca sto zecchin!) (da sè)

Celio. Presto, ti dico; ogni momento può essere per me fatale. (si tocca il polso)

Traccagnino. Ghe dirò, sior. E vegnù a Venezia un mio [p. 465 modifica] fradello da Bergamo, che l’è el più bravo medico de sto mondo. L’ha qualche piccolo difetto, ma l’è un omo grando. Se la lo vol provar, l’è in tela mia camera, lo farò vegnir.

Celio. Sì, sì, fallo venire. Lo proverò.

Traccagnino. Ma ghe darala el zecchin?

Celio. Glielo darò.

Traccagnino. E a mi el ducato?

Celio. E il ducato a te.

Traccagnino. Vago subito a farlo vegnir. (Se la va ben, chiappo trenta lire; se la va mal, non perdo gnente). (da sè, e parte)

Celio. Qualche volta questi medici di montagna ne sanno più dei medici di città. Hanno la cognizione dell’erbe, delle pietre; medicano per esperienza, e la fallano poche volte. Oh, stavo tanto bene, ed è venuta mia nipote a farmi tornare il mio male.

SCENA VIII.

Argentina e Celio.

Argentina. (Bravo Traccagnino. Vuò godere la scena; lo seconderò bene per buscarmi il mezzo ducato). (da sè)

Celio. Argentina, dammi una sedia.

Argentina. Signor padrone, avete una gran brutta cera.

Celio. Ho brutta cera eh? Povero me! te ne intendi di polso?

Argentina. Qualche cosa.

Celio. Senti.

Argentina. Poverino! vi è del male.

Celio. Son morto.

Argentina. Vi vorrebbe un medico.

Celio. Ora l’aspetto. Mi dice Traccagnino, ch’è venuto un suo fratello.

Argentina. È verissimo. Un uomo di garbo. Ha fatto in pochi giorni cure grandissime. È brutto come Traccagnino. Gli somiglia affatto nel viso, se non che è un poco zoppo, ed ha qualche difetto di lingua. Per altro, quanto Traccagnino è sciocco, altrettanto suo fratello è dotto, spiritoso e valente. [p. 466 modifica]

Celio. Il cielo lo ha mandato. Spero che questo grand’uomo mi libererà; che importa ch’ei sia zoppo, ch’ei parli male, quando sa il suo mestiere? Me l’ha detto anche Traccagnino, che ha dei difetti.

Argentina. Eccolo ch’egli viene.

Celio. Veh, veh, pare Traccagnino medesimo.

Argentina. Se vi dico che si somigliano affatto.

SCENA IX.

Traccagnino da medico, zoppicando, e detti.

Traccagnino. Chi chi chi chi chi chi...

Celio. Che linguaggio è questo? (ad Argentina)

Argentina. Lasciamolo terminare.

Traccagnino. Chi chi chi chi chi è, che che che mi mi mi mi mi mi do do do do do do domanda.

Celio. È uno che tartaglia. (ad Argentina)

Argentina. Un poco, per quel che si sente.

Celio. Zoppo, e tartaglia.

Argentina. Ma è un uomo di garbo.

Celio. Sentiremo.

Argentina. (È un prodigio se non iscoppio di ridere). (da sè)

Celio. Sono io, signore, che ho incomodato vossignoria, perchè mi par d’aver male.

Traccagnino. Se se se se se se se se se...

Celio. Mi fa venir l’anticore.

Traccagnino. Se se se se se se se...

Celio. Se se se se; favorisca sentirmi il polso.

Traccagnino. Ma ma ma ma ma ma ma...

Celio. Presto, per carità.

Traccagnino. Ma ma ma ma ma ma male.

Argentina. (Che ti venga la rabbia). (da sè)

Celio. Come male? Ho tanto male? Signor dottore, che cosa minaccia il mio polso?

Traccagnino. Un apo apo po apopo... [p. 467 modifica]

Celio. Apopo?...

Traccagnino. Apopo...

Celio. Apople...

Traccagnino. Apople...

Celio. Apoplesia?

Traccagnino. Pro pro pro pie pie pie...

Celio. Basta così; ho inteso. Presto, aiuto, per carità.

Argentina. Signor dottore, per amor del cielo, ripari alla vita del povero mio padrone. Egli è generoso, riconoscerà il suo merito abbondantemente.

Celio. Sì signore, suo fratello gli averà detto, che per il presente suo incomodo le ho destinato un zecchino.

Traccagnino. E po po po, è po po po po po po...

Celio. E poi lasci fare a me.

Argentina. Non ha voluto dire e poi. Voleva dire è poco.

Celio. Se è poco, comandi. Tutto quel che vuole. Ecco la borsa a sua disposizione.

Traccagnino. Be be... ba ba ba... bi bi bi... (fa riverenza, e offerisce la mano per il regalo)

Celio. Ordini intanto quello che può riparare la mia disgrazia.

Traccagnino. Re re re re re re re re re re...

Celio. Regola forse?

Argentina. No, vorrà dir recipe.

Celio. Via, recipe. Che cosa?

Traccagnino. Sa sa sa sa sa sa sa sa...

Celio. Salsa pariglia?

Traccagnino. No. Sa sa sa sa sa sa sa...

Argentina. Vorrà dir sangue.

Celio. Sangue?

Traccagnino. Sì sì sì.

Celio. Recipe sangue? Recipe vuol dir prendi: ho da prendere il sangue?

Argentina. (Ora ci imbrogliamo tutti e due). (da sè)

Traccagnino. Que que que que que que... (mostra una boccietta)

Argentina. Via, questo. [p. 468 modifica]

Celio. Questo?

Traccagnino. Be be be be be be be be...

Celio. Bene.

Traccagnino. Be be be be be be...

Argentina. Bevere.

Traccagnino. Be be be...

Celio. Be be be...

Traccagnino. Be be vete.

Celio. Ma che cosa è, che l’ho da bevere?

Traccagnino. Spi spi spi spi spi spi...

Argentina. Via, spirito.

Traccagnino. Di di di di di di...

Celio. Di che cosa?

Traccagnino. Di co co co co co co...

Argentina. Di corallo?

Traccagnino. Di co co co co co co...

Celio. Di cocomero?

Traccagnino. Di co co co co co co... (adirandosi)

Argentina. Di corno?

Traccagnino. Co co co co co co... (fa riverenze)

Celio. E come si prende?

Traccagnino. Co co co co co co...

Celio. Co co co co co co. Io non vi capisco.

Argentina. (È furbo come il diavolo. Col pretesto di tartagliare non s’impegna a parlare). (da sè)

SCENA X.

Pantalone e detti.

Pantalone. Amigo, compatirne se vegno avanti.

Celio. Caro signor Pantalone, siate il benvenuto.

Argentina. (Oh questo è un imbroglio!) (da sè)

Pantalone. Cossa feu? Steu ben?

Celio. Mi è ritornato il mio male. Ed ora son qui con questo medico. [p. 469 modifica]

Pantalone. Quello xe Traccagnin, vostro servitor.

Celio. No, è suo fratello.

Argentina. Somiglia assaissimo a suo fratello. Non vi è altra differenza, se non che questi è zoppo.

Traccagnino. (Fa il zoppo.)

Pantalone. Bravo, sior zotto. (Ghe zogo, che i vol far zo sto minchion). (da sè)

Celio. Ha un altro difetto. Parla male, che non si sa che diavolo dica.

Argentina. Per altro poi è un uomo grande, un eccellentissimo medico.

Pantalone. (Oh che baroni!) (da sè) Feme un servizio, fia, con licenza del vostro paron. Andè da siora Flamminia, e diseghe che, se la se contenta, ghe vorave far una visita.

Argentina. Non so se ora potrà...

Pantalone. Diseghelo, e sentiremo.

Argentina. Non vorrei ch’ella...

Celio. Via; andate, obbedite, e non replicate.

Argentina. Anderò. (Ho paura che finisca male per Traccagnino. Basta, ci pensi da sè). (da sè, e parte)

SCENA XI.

Celio, Pantalone e Traccagnino.

Pantalone. E cussì, cosa dise sior dottor del mal del sior Celio?

Traccagnino. Ma ma ma ma ma ma ma.

Pantalone. Cossa vol dir sto ma ma?

Celio. Vuol dir che ho male.

Pantalone. E mi ho paura che el voggia dir mamalucco. Cossa diseia, sior dottor?

Traccagnino. Sì sì sì sì sì sì. (con riverenza)

Pantalone. Chi xe più mamalucco? l’amalà o el miedego?

Traccagnino. L’ama ma, l’ama ma...

Pantalone. El me me, el me me...

Traccagnino. Son dotto... dotto... to... [p. 470 modifica]

Pantalone. Sè un bell’a... sè un bell’a...

Traccagnino. Son dotto to to, son dotto to to. a

Pantalone. Ve co co co co co co co...

Traccagnino. Chi chi chi so so so so so so son?

Pantalone. Tracca ca, tracca ca...

Traccagnino. Son fra fra de de de lo Io lo.

Pantalone. No no no, un fur fur fur ba ba ba zzo zzo zzo.

Traccagnino. Pa pa pa... (con riverenza)

Pantalone. Schia schia schia...

Traccagnino. Tro tro tro...

Pantalone. Vo vo vo...

Traccagnino. Va va va do do do. (parte)

Pantalone. Ve ve ve ma ma man do do.

Celio. Che cosa ha concluso questa vostra scena? Il medico se n’è andato, ed io sono restato com’era prima.

Pantalone. Sì, caro amigo. Sè resta colle vostre solite rane.

SCENA XII.

Argentina, Pantalone e Celio.

Argentina. Signore. Dice la signora Flamminia, che se volete andare da lei, siete il padrone.

Pantalone. Vago subito.

Argentina. (Traccagnino non vi è più. Son curiosa di sapere come ha finito). (da sè, e parte)

Pantalone. Quello donca xe un miedego.

Celio. Sì, difettoso, ma bravo.

Pantalone. E no l’è Traccagnin.

Celio. No, è suo fratello. Traccagnino non è zoppo.

Pantalone. Compare, i ve tol in mezzo.

Celio. Non può essere.

Pantalone. La discorreremo. Vago da siora Flamminia, e po torno da vu.

Celio. Sì, tornate, che vi ho da parlare.

Pantalone. De cossa? [p. 471 modifica]

Celio. Ho speranza che diveniamo parenti.

Pantalone. Come?

Celio. Se mia nipote non vi dispiacesse..

Pantalone. V’ala dito gnentc de mi?

Celio. Mi ha parlato di voi con qualche passione.

Pantalone. (Oh che galiotta!) (da sè) Discorreremo.

Celio. Caro amico, volesse il cielo!

Pantalone. Se fosse seguro che la me volesse ben...

Celio. Credetemi, che ve ne vuole.

Pantalone. (Gnente no credo), (da sè) Anca mi no la me despiase.

Celio. Via dunque, che si facciano queste nozze.

Pantalone. Chi sa! Parleremo. (Gh’ho in testa che la se voggia devertir; ma se ela la xe dretta, gnanca mi no so gonzo). (da sè, e parte)

Celio. Eppure non mi pai di sentirmi quel gran male... Potrebbe darsi, che divertito dalle parole... Il polso come sta? Sbalza al solito. Se mai fosse vero quello che ha detto il medico? Se mi venisse un accidente? (sputa) Il medico non sarà ancora partito. (parte)

SCENA XIII.

Camera di Flamminia.

Flammibnia e Pantalone.

Pantalone. Permettela che abbia l’onor de riverirla?

Flamminia. Questo è un favore ch’io non merito. Chi è di là? (viene un servitore) Da sedere. S’accomodi.

Pantalone. La perdoni se vegno a darghe un incomodo.

Flamminia. Signore, torno a dirle che lo ricevo per un onore.

Pantalone. (La xe molto compita sta signora). (da sè)

Flamminia. Sono informata del di lei merito; e la gentilezza del di lei tratto supera la mia aspettazione.

Pantalone. Troppo onor, troppe grazie; mi no merito tanto. (No [p. 472 modifica] vorave che sta patrona se dilettasse de dar la soggia6 co fa quell’altra. Starò in guardia; no me lasserò minchionar), (da sè)

Flamminia. (Che cera aperta e gioiale che ha questo signore! Benchè avanzato in età, mi piace infinitamente). (da sè)

Pantalone. El motivo per el qual son vegnù a incomodarla, no la se lo imaginerà cussì facilmente.

Flamminia. Certamente non saprei indovinare il motivo di questa grazia che da lei ricevo. So di non meritarla, e tanto più mi confondo.

Pantalone. La sappia che son bon amigo de sior Fiorindo.

Flamminia. Tanto più mi conviene il titolo di vostra serva.

Pantalone. (Troppe cerimonie). (da sè) E son amigo egualmente de sior Ottavio.

Flamminia. Ho piacere.

Pantalone. So che sior Ottavio ha da esser el so sposo...

Flamminia. Potrebbe darsi che lo fosse; ma è più probabile che non lo sia.

Pantalone. So anca che ghe xe sta qualche pettegolezzo, qualche piccola differenza, per la qual apponto sento che la mette in dubbio ste nozze. Per questo donca me son tolto l’ardir de vegnir da ela. Mosso dall’amicizia, mosso dalle preghiere de sior Ottavio, e colla permission de so sior fradello, son vegnù mi sfazzadamente a parlarghe, e a assicurarla che sior Ottavio gh’ha per ela tutta la stima e tutto l’amor; che nol xè quel omo vizioso e strambo, che fursi ghe sarà stà depento; che col sior Fiorindo i xe affatto pacificai, e che altro no manca per la conclusion de ste nozze, che ella colla so bontà, colla so prudenza, la torna a confermar quel sì, che pol consolar un amante, contentar un fradello, e far parer bon in sto caso un so umilissimo servitor.

Flamminia. Voi dite che il signor Ottavio mi ama e mi stima. Dovrei crederlo, perchè lo dite. Ma se mi permettete di dubitare, vi dirò le ragioni che ho di temere. [p. 473 modifica]

Pantalone. La parla pur liberamente. No la se metta in suggezion. Ho gusto che la me diga el so cuor.

Flamminia. Il mio cuore, signor Pantalone, è poco inclinato per il signor Ottavio.

Pantalone. Mo perchè? Non aveveli trattà de sto matrimonio?

Flamminia. Sì, è vero. Quando poco lo conoscevo.

Pantalone. Adesso donca la xe pentìa?

Flamminia. Pentitissima. So il suo modo di vivere, contrario affatto alle mie inclinazioni.

Pantalone. El so cuor a cossa saravelo inclinà?

Flamminia. A quello che mi sarà difficile di ottenere.

Pantalone. Che vuol dir mo?

Flamminia. Ad un uomo di senno, ad un uomo di merito, ad uno che preferire sapesse l’onore alle frascherie; e se la sorte mi offerisse un tale partito in questa città, vi giuro che mi reputerei fortunata.

Pantalone. (Ho inteso. La me vol imbonir. No ghe credo. Le xe tutte compagne). (da sè)

Flamminia. (Questa mia sincerità non gli dovrebbe esser discara). (da sè)

Pantalone. Mi per mi la conseggio, co la se voi mandar, tor uno del so paese.

Flamminia. Io non disprezzo la patria dove son nata; ma Venezia mi piace più; da questa riconosco l’origine, e vi resterei volentieri.

Pantalone. Donca no la gh’ha mai volesto ben a sior Ottavio?

Flamminia. Pochissimo sempre; ed ora meno che mai.

Pantalone. Perchè gh’ala promesso?

Flamminia. Per compiacere Fiorindo.

Pantalone. In sto stato de cosse, no so cossa dir. Non ho coraggio de indurla a far un passo, che ghe poi esser de inquietudine e de tormento. La scusi se l’ho incomodada, e la me permetta che vaga....

Flamminia. Fermatevi, signore, non mi abbandonate sì presto, per amor del cielo. [p. 474 modifica]

Pantalone. Cossa vorla dai fatti mii?

Flamminia. Giacchè con tanta bontà v’interessate per le mie premure, per i vantaggi miei, soffrite ancora per un momento.

Pantalone. Son qua, la diga, la comanda. Farò tutto per obbedirla. (Squasi, squasi con questa me butteria, ma no ghe credo; le xe tutte compagne). (da sè)

Flamminia. Possibile che per me non si ritrovasse in Venezia un accasamento decente?

Pantalone. Perchè no? El se poderave trovar con facilità.

Flamminia. La mia dote non è molta, ma io non aspiro a grandezze.

Pantalone. Diesemile ducati no i xe tanto pochetti. (Par che la gh’abbia i più bei sentimenti del mondo; ma se pol dar che la finza.) (da sè)

Flamminia. Non amo il gran mondo; mi basterebbe trovar un marito che avesse per me della bontà, dell’amore, della tolleranza.

Pantalone. (Oh che belle parole! Ghe voggio dar una provadina). (da sè)

Flamminia. Ma, signore, v’annoiano forse i miei ragionamenti?

Pantalone. Siora no, anzi la me dà piaser. La diga, cara ela, come lo voravela sto novizzo? Vecchio? Zovene?

Flamminia. Di gioventù non mi curo. Gli uomini assennati fanno sperare miglior destino.

Pantalone. La mia età, per esempio, ghe comoderà vela?

Flamminia. Ottimamente, signore.

Pantalone. (T’ho capio; oh che furba!) (da sè) Un uomo della mia condizion saravelo el so caso?

Flamminia. Così il cielo me lo concedesse.

Pantalone. (Oh che drettona!) (da sè) Mi donca no ghe despiaserave?

Flamminia. A chi potrebbe dispiacere un uomo della vostra sorte?

Pantalone. Me despiase che son vegnù a parlar per un altro; da resto, se me fusse lecito de parlar per mi...

Flamminia. (S’alza) Signore, quantunque desideri d’esser contenta col mio accasamento, non intendo però di volermelo procurare senza l’assenso di mio fratello. Permettetemi che seco parli; [p. 475 modifica] e se le vostre espressioni saranno meco sincere, troverete in me uguale al rispetto la rassegnazione e l’amore.

Pantalone. Eh cara siora Flamminia, vedo benissimo.....

Flamminia. Compatitemi s’io vi lascio. Vedo mio fratello uscire dalla sua camera; ho da parlargli prima ch’esca di casa.

Pantalone. La se comodi, come la comanda.

Flamminia. Signor Pantalone, le son serva. (Volesse il cielo che mi toccasse un uomo di garbo, e che restar potessi in questa cara città.) (da sè, e parte)

Pantalone. Eh, l’ho dito. La me dà la burla. La crede d’averme tirà su abbastanza, e sul più bello la me vol impiantar. Ma no ghe stanzio7: son nassuo avanti de ela, cognosso el tempo, e colle donne no me fido, e no me fiderò mai. A vederla la par una zoggia; ma de drento no se ghe vede. Dirò co dise quello:

Quel to dolce bocchin mette in saor8;

Ma no te credo, se no vedo el cuor.

Fine dell’Atto Secondo.


Note

  1. Le edd. Guibert-Orgeas e Zatta: non l’ha.
  2. Il testo spiega: La spada.
  3. «Detto in gergo che vuol dire la spada»: Boerio, Dizion.
  4. Si spegne.
  5. Che importa?
  6. Soia, motteggio: v. Boerio.
  7. Voce di gergo: non ci sono, non ci sto.
  8. «In sapore, in lusinga»: Boerio.