Il tesoro (Deledda)/Capitolo IV
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IV.
Al ritorno dal passeggio, Elena, tutta adirata per il contegno di Giovanna, non le partecipò il segreto che sapeva; ma passò una notte piena di agitazione e tardò ad addormentarsi, pesandole assai di saper una cosa e di non averla confidata alla sorella.
Il lunedì mattina, verso le dieci, entrarono assieme nel salotto. Per le tende di mussola della finestra socchiusa penetrava una luce discreta e fresca, rendendo l’ambiente più quieto del solito, più degno per ricever confidenze. Il salotto era piccolo, con le pareti di un giallo pallido a fasce bianche, sulle quali salivano rami di foglie gialle in rilievo: nel mezzo e negli angoli della vôlta bianca spiccavano, in medaglioni smaltati, grandi mazzi di rose thee giallissime; un tappeto oscuro, imitazione Bruxelles, copriva il pavimento; il mobilio era semplicissimo; vecchi quadri ad olio, dallo sfondo cupo e dalle figure d’un rosso-giallo sfumate, ornavano le pareti; e cestelli di fiori mettevano una nota chiara sulle consoles oscure, sul nero cembalo antico.
In tutto un’aria di semplicità, di grazia quieta e modesta, che però non mancava d’una certa eleganza.
Elena richiuse la porta e sedette davanti al pianoforte chiuso.
— Senti — disse a Giovanna, che la guardava con curiosità. — Zia Agada Brindis mi ha ieri sera confidato un segreto. Benchè non sia necessario lo dico anche a te, ma giurami prima che....
— A chi vuoi che lo dica? — fece Giovanna con impazienza; e bastarono queste parole per rassicurar Elena.
— Senti bene che storia curiosa — disse abbassando la voce e traendo una lettera.
— Oh, oh! — esclamò l’altra con premura, spalancando gli occhi. — Aspetta, aspetta!
Prese una sedia, si mise a fianco di Elena, e appoggiandosele sopra la seguì con gli occhi nella lenta e sommessa lettura della famosa lettera del tesoro.
— Oh, oh! — esclamò in fine. — Fammela veder bene, dammela, aspetta....
La rilesse attentamente, esaminò la busta per ogni verso, e col volto illuminato da una gioia vivissima, coprì Elena di domande. Come e perchè zia Agada le avea confidato una simile cosa? E zio Salvatore ne sapeva nulla? E perchè la lettera era nelle sue mani?
— Ieri sera zia Agada cercava Cosimo; io dissi che non era in casa, che forse neppur oggi l’avrebbe trovato, dovendo egli recarsi in campagna. Zia Agada e Costanza si guardaron desolate, e io allora dissi: — Se posso comunicargli ciò che avete da chiedergli lo farò con piacere. — Si guardarono di nuovo, stettero in dubbio, nicchiarono, e Costanza fece: — Ma noi possiamo dirlo ad Elena! — Se posso esservi utile! — esclamai. Allora zia Agada mi porse da leggere questa lettera dicendo: — Ebbene, è un fatto che devi sapere. — Se mi date retta — diss’io dopo aver letto — non parlatene a Cosimo, che forse non se ne prende cura, o non ci crede. È una cosa semplicissima, e faremo noi la risposta. — Le convinsi e mi lasciaron la lettera. Senti, Giovanna — conchiuse Elena pensierosa — ho veduto in sogno il babbo che mi diceva: — Finora i tempi furono tristi, ma cambieranno! — Io non credo ai sogni, ma chi sa? Il babbo deve guardarci di lassù: chi sa, chi sa che non sia stata l’anima sua a guidar qui zia Agada?
— Se fosse vero! — esclamò Giovanna sempre più stupita. — Ma perchè non risposero prima, perchè non lo dissero a zio Salvatore!
Elena ripetè quanto Agada Brindis le aveva riferito su questo proposito.
— Anch’io non son convinta — disse poi. — Può essere una truffa, il mondo è così cattivo, ma può darsi sia anche vero. Ora facciamo la risposta: io la detto e tu la scrivi, perchè la tua calligrafia è più sconosciuta della mia.
— Sfido io! — pensò Giovanna, che non aveva mai inviato una lettera per posta.
— Come rispondiamo?
La risposta da farsi era quella suggerita da Costanza: senonchè, per maggior prudenza, si dovevano indirizzare ad Elena le ulteriori notizie del tesoro.
— Capirai, se vedono arrivare altre lettere da Parigi all’indirizzo di zio Salvatore, possono insospettirsi e far commenti. Invece io posso avere qualche relazione in Francia, tanto più che le lettere indirizzate a una donna possono essere magari di una modista.
Zia Agada, che non aveva voluto ceder la lettera a Costanza, s’era lasciata suggestionare da Elena, affidandosi pienamente a lei: se poi l’affare riusciva, il matrimonio di Cosimo con la signorina Honoré, era bell’e fatto!
— Ottocentomila lire! — esclamò Giovanna, chiudendo gli occhi, quasi per scorger meglio la luminosa visione. — E ne danno un terzo. Umh! Se Cosimo sposa la signorina resta tutto a noi! Ma dove sarà? ma dove sarà questo tesoro?
— Forse nelle tancas di zio Salvatore. Il capitano dev’essersi informato, deve aver ricordato il suo nome. Che cosa curiosa! — disse Elena ridendo. — Io non posso crederci, non posso convincermi. Ci sono tutte le probabilità di una truffa. Infatti, perchè il capitano, fuggendo dalla Francia, non portò con sè la figlia?
— Forse non ne ebbe il tempo.
— E allora perchè, sapendo ciò che l’aspettava, non restò qui e non fece venir sua figlia? È una sciocchezza: io non ci credo!
— Ma! — disse Giovanna. — Tu dici ogni cosa, tu credi e non credi! Che ti faccio io?
— E del resto! Prepariamo la risposta; tentare non nuoce.
— Io ci credo, io ci credo! — affermò convinta Giovanna, levandosi ritta. — Andiamo nello studio.
Entrarono nello studio. Cosimo era a caccia, e quindi le signorine si presero la più ampia libertà davanti alla sua grande e ingombra scrivania, dove la carta bollata guardava in cagnesco le trionfanti carte musicali, manoscritte e stampate, e dove i romanzi opprimevano i codici in modo indegno....
— Perchè non lo diciamo a Cosimo? — domandò Giovanna, mettendosi a scrivere.
— Ne riderebbe come Salvatore Brindis, e manderebbe tutto per aria. Glielo diremo più tardi. Scrivi — disse Elena.
Appoggiò i gomiti alla scrivania, ed esaminando un manoscritto di musica, cominciò a dettare. Giovanna scriveva accuratamente, ripetendo l’ultima parola scritta quando Elena si fermava, e sentiva una certa trepidazione, quasi stesse compiendo un atto solenne.
Il che non impedì ad Elena di gridarle:
— Credito con un t, ignorantona!
Giovanna cancellò ridendo il t superfluo e continuò. Diceva la lettera che lo scrivente, cioè Salvatore Brindis nascosto sotto il nome di Ferro, era povero, ma che, ricevendo più garanti assicurazioni sul fatto, avrebbe fatto il sacrificio di chiedere in prestito la somma richiesta. E desiderava informazioni sul collegio ove studiava madamigella Honoré.
— Sarà una biondona! — disse Giovanna mentre Elena rileggeva la letterina. — Ha diciassette anni, uno meno di me, ma dev’esser alta e grossa. Oh, Dio mio, la mamma! — esclamò poi trasalendo e volgendosi verso la porta.
Elena si voltò, inquieta, non volendo che per allora donna Francesca partecipasse al segreto; ma la porta fu spinta da una bella gatta bianca, ch’entrò correndo, inseguita da un grazioso gattino nero; le due bestiole volteggiarono rapidamente per la stanza, e il gattino saltò al di sopra della gatta, che gli grafitò il roseo musino e gli occhi verdi.
— Gatti maledetti! — gridò Giovanna, pestando i piedi per farli fuggire.
— Lisbet, Lyly, presto fuori! — ordinò Elena, accennando la porta, ma con accento affettuoso che stizzì Giovanna, nemica inesorabile dei gatti.
Invece Elena li amava assai: Lisbet e Lyly si rincorrevano e giuocavano sempre, pur amandosi pochissimo.
Lisbet era bianca, grassa e superba; Lyly allegro, pazzo e affettuoso; amava un poco la sua compagna e cercava di amicarsela; la rincorreva e nelle ore d’intimità, quando essa dormiva grave e solenne, le leccava le orecchie rosee, ma Lisbet non si commoveva punto e lo graffiava. Tuttavia qualche volta smetteva la sua olimpica solennità, ringiovaniva e giuocava volentieri. Quando mangiavano graffiava più che mai il grazioso ed avido Lyly, e se non riusciva a farlo allontanare, si allontanava essa, aspettando. Preferiva piuttosto gli avanzi che mangiare con lui. Ma all’infuori di questa sua antipatia, era buona, pacifica, e guardava Elena con gli enormi occhi biondi e parea che avesse un’anima.
— Che errori! — disse Elena piegando la lettera. — Possibile che tu sia così ignorante! Non sai scriver due righe!
— Un’altra volta scrivi tu, o metti i tuoi figli! — rispose Giovanna accennando ai gatti.
— Scriverebbero meglio di te! Se scrivi così a Paolo sarà proprio contento! Ah, ecco il tuo risolino!
Era un risolino caratteristico, lieto, rivelatore, involontario, che apriva la bocca di Giovanna, e che le segnava un cerchio intorno al mento, ogni volta che si parlava di De-Cerere. Dava fortemente ai nervi ad Elena, che sempre si prometteva di non accennare a Paolo, di non ricordarlo mai davanti a Giovanna. Invece vi tornava su, involontariamente, ogni momento; e sempre il sorrisino beato di vanità, arrotondava il grazioso e bianco mento di Giovanna.
La lettera, in doppia busta, fu subito impostata, e Giovanna chiese:
— Quando arriverà la risposta?
— Chissà! Sai bene che la lettera non può arrivar subito al capitano. Fra una cosa e l’altra, io credo ci vogliano due settimane almeno — disse Elena. Ma le due settimane passarono e la risposta non venne.
I giorni si seguivano eguali ed uniformi; donna Francesca badava alla casa, alle cure domestiche, ai pasti; Cosimo riceveva qualche cliente, si recava in Pretura e al Tribunale, suonava, e ogni notte rientrava a casa all’una e alle due; Elena e Giovanna ricamavano, andavano al passeggio e chiacchieravano.
Oltre le Marchis conoscevano molte altre signore, e ricevevano spesso le loro visite.
Parlavano spesso del tesoro, facendo grandiosi progetti, fra lo scherzoso e il serio; ma non arrivando ormai la risposta, l’entusiasmo cominciò a raffreddarsi, e il sospetto di Salvatore Brindis a farsi luogo. Intanto, fin dalla prima settimana zia Agada, ritornando dalla messa, entrò dalle sue gentili parenti, e ad Elena, venutale incontro, chiese subito se eran giunte notizie di quella cosa.
— Fate presto voi! — disse Elena ridendo. — Ci vuol tempo!
Per non dimostrare d’esser venuta per ciò, Agada entrò da donna Francesca; si fecero mille feste, lamentandosi scambievolmente delle imposte, della cattiva annata, dell’infedeltà della gente di servizio, e di tante altre cose.
— E Alessio, sta in casa vostra?
— Sta in casa nostra. Che voleva fare, poveretto?
— Si riammoglierà! — disse Giovanna spensieratamente, non badando all’aria dolorosa assunta da Agada Brindis.
— Sì, non pensa ad altro! È tanto addolorato, invecchiato! Non sembra più lui. Vive sempre in campagna, triste.
Cominciò a tesser le lodi di Maria Piscu e le calaron le lagrime.
— Che donna ipocrita! — pensò Elena.
— Non dubitate — le disse accompagnandola per le scale — appena arriverà la risposta vi avviserò. Ma io son sicura che non arriverà nulla.
— Così mi dici? — domandò Agada fissandola.
— Eppure ho buone speranze. Costanza ha sognato l’arrivo delle signore....
— Sta fresca aspettandole! — pensò Elena — è molto furba, ma farebbe meglio a sognare un matrimonio.... col cugino Alessio!
Nell’uscire, Agada incontrò comare Franzisca che entrava.
— Ficca il naso anche qui! — pensò salutandola con un lieve cenno della testa.
La donnicciuola veniva per proporre a donna Francesca la compera di una chioccia con dodici pulcini, la cui padrona non voleva farsi conoscere.
Era questa un’industria di comare Franzisca; faceva spesso di queste vendite segrete, e ci guadagnava assai, perchè se, per esempio, le davano da vender per una lira un vecchio treppiede, ella lo cedeva per due lire; se le consegnavano un anello da impegnare per cinque lire, ne prendeva una o due in più per conto suo; e se gl’interessi erano il trenta per cento, ella li portava al cinquanta, serbandosi il resto.
— La chioccia è grassa, sembra una fata (nientemeno!), i pulcini bellini bellini, sono un incanto. Un prezzo vile, poi, perchè si ha bisogno di denaro: sei lire.
— Portateli a vedere — disse donna Francesca. — Combineremo poi.
— Veda un po’ — disse comare Franzisca ad Elena, sul pianerottolo — mi dia un pochino d’olio: si fa una gran carità: è per una donna malata....
— Non ne abbiamo: un altro giorno.
Ma la strega seppe così bene insistere che Elena la favorì. Era molto caritatevole, ma, cosa strana, non amava i mendicanti; però ne beneficava molti per quel profondo precetto di far bene ai poveri: non per quel che meritano, ma per quel che soffrono.
— Allora — diceva ridendo a Giovanna — compreremo molti terreni e ci porremo a lavorare i poveri.
Allora significava dopo il famoso matrimonio di Cosimo con la damigella francese; bene spesso tornavano sopra l’argomento, dimenticando anche Paolo; se suonavano — suonavano poco e male — e il vecchio cembalo era scordato, si proponevano di comprarne, allora, uno di seimila lire, dipinto da buon artista; se pulivano il salotto dicevano di tappezzarlo a lampasso, arredandolo con lusso: pensavano di allargare il giardinetto, di fabbricare un’altra ala della casa, di far un viaggio nel continente.
Lo dicevano ridendo, ma Giovanna ci credeva assai, ed anche Elena, talvolta, si sentiva tentata dall’illusione.
Intanto la risposta non arrivava.
Una sera, mentre stavano alla finestra, passò Costanza e le salutò.
— State al fresco? Come state?
— Bene, e tu come stai? Vieni?
— No, ho fretta. Tanti saluti. — E parve passar oltre, ma rialzò il viso e chiese:
— E di quella faccenda non si sa nulla?
— Nulla ancora! — rispose Elena.
— Ora mi seccano! — aggiunse quando Costanza si fu allontanata. — Scommetto che è passata per di qui appunto per far questa domanda.
— Non rispondono più! — disse Giovanna scoraggiata. — Proviamo a scrivere ancora?
Provarono, ma il mese di luglio passò e nessuna risposta venne.
Zia Agada trovava ora una scusa ora l’altra per visitarle, ed informarsi dell’affare.
— Nulla, nulla! — le diceva Elena con desolazione, e la cara parente se ne andava via rigida, fredda, sorridendo con tristezza.
Un giorno Elena parlò di questo curiosissimo affare a Cosimo.
— Fa veder la lettera — diss’egli.
Mentr’egli leggeva, Elena lo guardò fisso, come Agada aveva guardato suo marito; Cosimo però non rise.
— Può darsi! — esclamò anzi serio, e raccontò tre storie di tesori ritrovati, delle quali una rassomigliava molto a quella del capitano francese. Se non che si trattava d’un uomo d’altra nazione (pare che la povera Sardegna sia il punto di mira di tutti quelli che da ogni parte del mondo vogliono celar tesori), che aveva sotterrato un’ingente somma in varie cassette di ferro. Una sola di queste, pur troppo, una sola se n’era rinvenuta, con dentro ventimila lire in oro; ad ogni modo era qualche cosa!
Cosimo giurò sul suo onore che il fatto era vero, ed Elena disse ridendo:
— Meno male che questa volta si tratta d’una sola cassetta, e d’acciaio. Così ritroviamo o tutto o nulla!
— Eh, non rider così! — disse Cosimo. — Può darsi. Sai cosa ci vuole? Del denaro, molto; e penetrare nel carcere di questo signore, e riuscire ad assicurarsi di qualche cosa....
Parlava scherzando o sul serio?
Elena non sapeva spiegarselo; ma intanto si sentiva suggestionata, e tornava a credere...
— Lascia, lascia — disse Cosimo, tirandosi con due dita il pizzo rosso, e guardando verso la finestra — oggi stesso faccio un telegramma al direttore delle carceri militari ov’è il capitano. Se mi assicuro della sua preziosa esistenza, lascia fare a me....
— Senti — fece Elena sorridendo — zia Agada vuole ammogliarli con la signorina Honorè.
— Diavolo! Ci penseremo poi! — diss’egli, tirandosi il pizzo in su: e a proposito trovò il modo di dire, ridendo, d’aver scoperto che Peppina Marchis era innamorata di lui. E parlò male della bella signorina.
Quando, in certi momenti di buon umore, egli si lasciava andare a delle intimità, diceva le cose più orribili, le rivelazioni più meravigliose, con la massima noncuranza: le sue relazioni d’ogni genere, e la vita che menava, gli permettevano di conoscere tutti i pettegolezzi, gli scandali più o meno intimi, gli avvenimenti di tutte le famiglie della città; nessuna cosa gli giungeva nuova, e perciò ascoltava con indifferenza ogni maldicenza.
Pretendeva che le sorelle e la madre non si occupassero dei falli altrui; ma se qualche rarissima volta si lasciava in lor presenza andare a delle confidenze, rivelava cose veramente stupefacenti.
Così in quel giorno raccontò storielle proprio amene sul conto di Peppina Marchis. Elena disse:
— Non saran vere. E poi è bella e ricca.
— Ma che ricchezze! — gridò Cosimo. — La donna ch’io sposerò non sarà ricca, ma pura come l’aria, innocente e buona.
— Maria? — domandò Elena; egli si mise a ridere beffardo.
Eppure Maria, una ragazzina di diciotto anni, che abitava in faccia a casa loro, era una bimba pura come l’aria, innocente e buona, pallida e con la treccia ancor pendente sulle spalle; evidentemente innamorata di Cosimo, lo aspettava sempre alla finestra, arrossiva nel vederlo, e per lunghe ore sognava presso il davanzale; ei se ne avvedeva, ma Maria era troppo esile ed umile per attirare i suoi sguardi.
Incapace di nutrire una passione profonda, egli credeva che tutte le fanciulle civettassero per trovar marito, e benchè la sua vanità restasse lusingata dalla muta adorazione di Maria, pensava crudelmente:
— Cerca già marito! Piccola civetta!
La trovava poi troppo insignificante per degnarsi di guardarla neppur per passatempo: gli dava soltanto fastidio, talvolta disgusto.
Era figlia d’un piccolo impiegato, e senza esser brutta appariva insignificantissima; possedeva soltanto bei capelli castani, occhi limpidi, chiari e puri come rugiada.
— Ho dimenticato il francese — disse Cosimo, ripigliando l’argomento del tesoro ma da stasera voglio riprenderne l’esercizio. Lo parleremo con De-Cerere.
Prese la lettera e la mise nel taschino del gilè; però prima d’uscire cambiò vesti e la dimenticò. Elena la ritrovò e se ne impossessò pensando:
— Se la desidera me la chiederà: qui qualcuno potrebbe vederla.
Sperava che la sera Cosimo ne avrebbe riparlato: forse aveva già telegrafato, forse sapeva qualche cosa: ma egli rientrò sul tardi, cenò su due piedi e uscì di nuovo pigliandosi la chiave. Neppur l’indomani parlò; sembrava di mal umore ed Elena non osò interrogarlo.
Entrambe le sorelle gli usavano poca confidenza; lo amavano assai, ma il suo carattere strano, la poca cura ch’egli dimostrava loro le allontanava da lui, le metteva in soggezione. Nè esse, nè donna Francesca si nascondevano i suoi difetti, ma siccome gli attribuivano anche delle splendide qualità, gli nutrivano una stima ed un affetto da non dirsi, che nella madre raggiungeva talvolta l’adorazione. Nella boriosa indifferenza del figlio ella scorgeva un segno di superiorità, di nobiltà di sangue; persino nella poca volontà di lavorare vedeva un segno di lontana aristocrazia.
Del resto donna Francesca era il più bel tipo d’antica famiglia sarda; alta, delicata, con profondi occhi neri, profilo puro e carnagione ancor fresca. Portava i capelli grigi pettinati all’antica foggia sarda, divisi per lungo e per largo, in modo che le scriminature segnavano una croce sulla sommità della testa; e forse ciò era anche un segno di devozione, un preservativo contro le tentazioni.
Vestiva sempre di nero, e teneva spesso in testa un fazzolettone bianco che le dava un’aria monacale.
Lavorava e vigilava sempre; non era al corrente della vita moderna, ma compativa i nuovi costumi; non faceva della maldicenza, non si adirava mai, non aveva alcuna malizia. Inoltre confezionava dolci e pasticcini meravigliosi, come soltanto le monache sanno farne, e coltivava con le sue mani il piccolo giardinetto.
Non aveva alcun sentimento di malignità; per ciò permetteva che le figliuole ricevessero da sole il signor De-Cerere e qualche altro amico di famiglia, sicura che le sue bimbe, rassomigliandole, erano abbastanza savie e serie per preservarsi da sè stesse. Ed Elena lo era di certo, ma Giovanna, per la sua indole e per la sua estrema giovinezza, non lo era abbastanza; e chissà come il romanzetto col signor De-Cerere sarebbe andato a finire, senza un semplice avvenimento accaduto verso la fine di agosto.
Dopo il fittizio entusiasmo di Cosimo per la storiella del tesoro, Giovanna aveva ripreso il filo delle sue ambiziose speranze; ma nessuna notizia giungeva, nè il fratello sembrava ricordarsi del fatto.
Un giorno in cui lo vide di buon umore Elena gli chiese se aveva fatto il telegramma.
— Sicuro, l’ho fatto. Il capitano esiste realmente, è prigioniero militare; ha una figlia in collegio!
— Ma davvero, ma proprio davvero? — disse Elena guardandolo fisso, chiedendosi ancora se egli scherzava o no. Non seppe spiegarselo; Cosimo sembrava beffardo e sembrava serio; ma per quante preghiere e investigazioni gli si facessero, non mostrò la risposta del dispaccio. L’aveva forse smarrita?
In quel giorno e nei seguenti si riparlò assai del fatto, e Cosimo diceva di voler un giorno o l’altro partire per la Francia, ma poi se ne dimenticò nuovamente, tutto occupato nella sua opera dei Cacciatori sardi ed in altre musiche....
— Senti — disse un giorno Giovanna, mentre con Elena puliva il salotto, dove non lasciavano entrare le manacce delle domestiche — facciamo una cosa; parliamone a Paolo.
Elena che, con le maniche rimboccate e un fazzolettino bianco in lesta, gettava foglie di vite per pulire il tappeto, si fermò stupita e indignata e — Cosa cosa? — domandò. Giovanna, ritta sopra una sedia, puliva i quadri, e proseguendo tranquilla la sua faccenda, ripetè:
— Ho detto di parlarne a Paolo: Cosimo non farà nulla.
— Cosa, cosa, non ho inteso bene! — disse Elena volgendo la cosa in burla.
— Se non hai inteso te lo ripeterò ancora; non pigliar la cosa in questo modo, tanto non abbiamo nulla da perdere.
— Che ragazzina sciocca! — esclamò Elena, come fra sè. — Eppure non par così.
— Perchè sono sciocca? — domandò Giovanna, offesa non per l’epiteto, ma per il titolo di ragazzina.
— Parlare d’una cosa criminale ad un giudice?
— Non sarà al giudice, ma all’amico nostro.
— Amico tuo! — disse Elena vivamente.
— Amico nostro; e non ci tradirà, non solo, ma ci aiuterà.
— Lasciami, lasciami stare la testa — disse Elena, come annoiata. — Fammi il piacere di non pensar più a questa pazzia. Che male ho fatto io a parlarne! Ora le Brindis diffidano, Cosimo fabbrica romanzi, tu vuoi commettere delle sciocchezze, io sono stufa di tutte queste cose. La fortuna non si trova così; si acquista col sudor della fronte, e se monsiù Honoré è in prigione può restarci benissimo. Ma fa attenzione tu, chè caschi; ti vedo e non ti vedo....
Infatti Giovanna era salita sulla spalliera della sedia e spazzolava le tende quasi sospesa per aria. Non rispose all’avvertimento di Elena e seguì il filo dei proprii pensieri.
— Sì, bisognava parlarne a Paolo: le avrebbe aiutate; avrebbe stabilito se era una cosa seria o burlesca. È così buono e cortese, così innamorato di lei! Quante volte non le aveva detto di chiedergli un sacrifizio?
— Stiamo a veder ora cosa saprà fare; forse ne sa già qualche cosa, perchè Cosimo dice che quando si vedono parlano sempre in francese e che anche ier sera han tenuto una lunga conversazione.
Eran più giorni che Giovanna pensava a ciò: non era questa una buona occasione per provare anche la devozione, la galanteria, l’amore di Paolo, che si esplicava in tutti i modi, fuorchè in una buona dichiarazione? Temeva egli forse? Era dunque un incoraggiamento il confidargli un segreto e chiedergli aiuto. Ed egli, per farsi ben volere, avrebbe fatto tutto il possibile per contentar la sua amata. Giacchè d’esser amata seriamente ella era ben certa. Per San Giovanni. Paolo le aveva fatto un dono gentile, e nelle visite seguenti l’aveva più che mai corteggiata, lasciando sempre capire che non si spiegava bene perchè non sperava nulla, perchè non pretendeva nulla, perchè era vecchio e desiderava per lei una completa felicità, quale egli non poteva darle.
Ma ella era ben sicura che, vedendosi incoraggiato, egli si dichiarerebbe di certo. Per fortuna però il suo cuoricino non era ancora toccato, e lo provavano evidentemente due fatti curiosi. Rideva senza offendersi delle pungenti parole d’Elena, specialmente quando si toccava il tasto divertente del padre di Paolo, della cui esistenza dubitavano; e dopo cena, quando donna Francesca si ritirava, ed esse rimanevano a leggere o alla finestra a disegnare ricami, ella tracciava originali e goffe macchiette che la rappresentavano a braccetto di De-Cerere. Nessuna delle caricature d’Elena era esilarante come queste macchiettine che la rappresentavano arrampicata al braccio del rispettabile sposo, al quale metteva in mano certi bastoni inverosimili e parapioggia aperti e certi gibus e code di rondini che lo rassomigliavano ad un vecchio corvo.
Ne rideva, quasi non la riguardassero, ma in fondo, quando si trovava realmente davanti al suo amico, provava un fascino dolco e arcano. L’accento di Paolo era soave ed insinuante, l’occhio suo profondo e buono; tutto il suo aspetto s’imponeva e inspirava stima.
Giovanna non era propensa ai sogni come Elena, ma non avendo ancora amato sarebbe forse bastato un solo punto per suggestionarla ed affascinarla del tutto.
Una sera d’agosto, in cui Paolo De-Cerere si sentiva mortalmente annoiato, andò a batter la porta di casa Bancu: entrando incontrò Cosimo che usciva.
— Al diavolo! — pensò l’avvocato, che avrebbe voluto nascondersi.
Anche De-Cerere si morse leggermente il labbro superiore pensando che sarebbe stato meglio venir più tardi. Tuttavia si fecero un mondo di complimenti; Cosimo voleva ad ogni costo restare, e l’altro insisteva perchè uscisse, perchè non si disturbasse, mentre era lui che non si voleva disturbato nella sua visita. Intanto Cosimo lo accompagnò fino al salotto, ed entrata Elena e udita la loro questione complimentosa disse, porgendo una poltrona a De-Cerere:
— Ma sì, Cosimo non ha niente da far fuori. Rimarrà con noi e ci eseguirà la sua nuova musica.
— Sciocca! — esclamò Cosimo fra sè, adirato e guardandola male.
— La eseguiremo stasera con accompagnamento di violino — disse con estrema gentilezza — Lei si degnerà di restare.
— Sì, sì, ma intanto non si disturbi, avvocato — continuava l’altro.
Il pensiero che Cosimo restasse lo mise di malumore; si pentì quasi d’esser venuto, ma insistè così gentilmente perchè l’avvocato facesse il suo comodo, che questi se n’andò via allegramente, senza accorgersi di esser mandato via.
Paolo rimase però con un po’ di malumore: Giovanna tardava ad entrare ed Elena, benchè sorridente, gli sembrava più fredda del ghiaccio. Il giorno poi era afoso e pesante; entrava nel salotto una strana luce grigiastra, smorta, e dalla finestra arrivava un leggero soffio di scirocco, che scuoteva i nervi e rizzava i capelli col suo odore asfissiante di nuvole umide, di paludi lontane, di mare in burrasca.
— Che tempo — disse Elena, tanto per cominciare — pare però che voglia piovere. — E guardò verso la finestra.
Parlavano ancora del tempo, quando entrò Giovanna in gran toeletta: era pallida e nervosa, ma sorrideva e pareva allegra.
— C’era bisogno di ciò, mentre sapeva che io vesto da casa! — pensò Elena, che indossava una semplice blusa d’indiana. Cessò di sorridere e si fece più piccina di quel che era, mentre Giovanna, che con poco tatto davvero si era messo un vestito tutto nastri e splendidi scarpini, faceva un notevole contrasto con lei. Dopo tutto le importava poco, non desiderando di attirare l’attenzione di Paolo, ma le dispiaceva la poca delicatezza di Giovanna, e quest’incidente, unito al solito dello scirocco che giungendole per le spalle le inumidiva i riccioli della nuca e le dava un brivido nervoso, finì col mettere di malumore anche lei.
Tenendole le mani, Paolo fece un lungo complimento a Giovanna, dopo di che ella si sedette in faccia alla finestra coi piedini in mostra, e la conversazione parve cominciare con dei dunque abbastanza animati. E si riprese a parlar del tempo, della noia, di una festa campestre, di Cosimo e della sua musica (Paolo non faceva mai suonare le signorine, non ignorando che non ne sapevano troppo); ma Elena, evidentemente annoiata, parlava poco, e Giovanna s’incantava guardando il piano, che rifletteva gli arabeschi delle cortine.
Anche Paolo perdeva ogni tanto il filo del discorso; non era in vena come le altre volte, non faceva complimenti e a momenti pareva inquieto e perplesso. Giovanna pensò: — Sta a vedere che stasera si dichiara!
Ma egli si contentava di ammirarle i piedini, e per esprimer in qualche modo la sua ammirazione cominciò a dire, muovendo la sua mazza elegante, che le sarde avevano quasi tutte piedini di fata.
Elena arrossì, nascose i suoi, ch’erano piccolissimi, e guardò violentemente Giovanna perchè, invece di fare altrettanto, sorrideva compiacendosi delle parole di Paolo.
Da ciò si parlò di piedi e di piedini, e naturalmente si ricordarono le chinesi e le giapponesi e il discorso volò in paesi lontani, in città belle, in viaggi meravigliosi, e Paolo ripetè di aver molto viaggiato. Elena pensò:
— Se è vero o no lui lo saprà!
Egli riparlò di Parigi, e Giovanna a questo punto guardò Elena, ed Elena corrispose al suo sguardo, ma alzando leggermente le spalle e sporgendo il labbro inferiore come per dire:
— Ma fa pure quel che vuoi. Che m’importa!
— Parigi! — esclamò Giovanna, quando Paolo finì di raccontare le meraviglie vedute nell’Esposizione del 1878 — sa che noi dovremmo farvi un viaggio?
Siccome gli occhi le splendevano insolitamente, Paolo prese la cosa sul serio e domandò il perchè di tal viaggio.
— Se sapesse! — disse Giovanna. — Ma si può affidarle un segreto?
— S’immagini! — diss’egli quasi offeso; e guardandola maliziosamente soggiunse: — Si tratta d’un viaggio di nozze?
— Oh, no, no! — Giovanna chinò gli occhi, poi guardò Elena, quasi supplicandola di parlar lei.
Dall’interesse un po’ sarcastico con cui Paolo prendeva la cosa, Elena capì che era inutile, forse pericoloso, parlare; d’altronde una voce segreta, i suoi nervi scossi e vibranti, le dicevano che dall’esito di quella conversazione dipendeva l’avvenire di Giovanna; e parlò. Prese un tono fra l’ironico e il serio e raccontò la storia, senza far nomi; e Paolo ascoltò sorridendo, con attenzione speciale, ma senza dimostrare alcuna curiosità. Giovanna lo guardava acutamente in volto; credeva ch’egli interrompesse Elena con domande particolari; che capisse perchè gli si rivelava il segreto; che si mettesse subito al loro servigio.
Non avvenne niente di tutto questo; egli ascoltò cortesemente, e benchè Elena notasse una crescente ironia nella sua attenzione, egli fu abbastanza gentile per non deridere, nè mettere in dubbio la storia.
— Può darsi, può darsi — disse, guardando Elena, e accarezzando su un tavolinetto vicino un grosso spartito rilegato in pelle rossa. — È una cosa per lo meno verosimile, e qui in Sardegna si raccontano tanti fatti di questo genere. Dunque è lei che va a Parigi, Elena? Ma sì, vada, vada: fa molto bene viaggiare, specialmente quando si è intelligenti come lei!
— Sì, molto intelligente! — esclamò essa ridendo e chinando gli occhi.
— Ma sì, intelligentissima! Non chini così modestamente quegli occhioni. Già, tutte le donne sarde sono intelligenti. Anche lei. Giovanna, non è vero? — e si volse sorridendole e facendole un cenno con la testa. — Lei anzi è più furba, più viva di Elena. Ma Elena è così buona, così sincera!
Qui fece un gran discorso, lodando entusiasticamente le donne della Sardegna.
— Eh, gli piacciono all’amico! Se le conoscesse bene! — pensò Elena.
Del tesoro come se non se ne fosse parlato. Giovanna diventava più pallida ancora, con gli occhi spalancati, pieni di stupore e tristezza. Che orrenda delusione soffriva!
Alfine Paolo si ricordò; tornò sull’argomento, augurando buona fortuna, e dando consigli sul come viaggiare, sul modo di comportarsi a Parigi ed in Francia. E sempre Elena scorgeva un filo di sarcasmo nelle sue parole cortesi, e rispondeva anch’essa con ironia, quasi si trattasse d’uno scherzo: ma ogni tanto guardava Giovanna, dicendole con quel suo sguardo vivo e parlante: — Vedi il tuo amico?
Eh, lo vedeva benissimo, la povera Giovanna, e ne provava un’ira, un dolore da non dirsi. E ciò che più le dispiaceva era appunto la sua delusione; esagerava le cose, le pareva che Paolo le pigliasse in giro, divertendosi e burlandosi di loro.
E per la sua nervosa stizza infantile pensava orribili cose. Credeva o non credeva alla storia il signor De-Cerere? Forse credeva, e capiva benissimo lo scopo della confidenza loro, ma fingeva di non crederci e di non comprendere per potersi poi, chi sa? servire per conto proprio della rivelazione; forse non credeva e parlava con quell’ironica cortesia per meglio burlarsi di loro?
Queste orrende cose pensava Giovanna, e mentre le pensava osava guardare curiosamente il suo caro amico, quasi lo vedesse la prima volta.
Ah, sì, era vecchio davvero; la sua barba era tinta, i suoi denti falsi; le sue parole eran splendide e false come i suoi denti!
— Forse crede che gli abbiamo parlato di ciò per chiedergli in prestito dei denari! — pensò, e ne provò una grande umiliazione. Per dimostrare il contrario cominciò ad ostentare un’aria da gran signora, stizzosamente:
— Sicuro, sicuro, appena Cosimo avrà tempo, perchè ora ha tanto da fare (non era vero), andrà, scoprirà, e se è uno scherzo profitterà dell’occasione per viaggiare; ha avuto sempre intenzione di fare un lungo viaggio!
Elena la guardò con meraviglia.
— Ma farà benissimo! — esclamò Paolo, sempre cortesemente. Anzi si faccia condurre anche lei, e così risparmierà il volgare viaggio di nozze, ch’è noiosissimo.
— Che ne sa lei? — domandò Elena ridendo.
— Oh, non c’è pericolo ch’io faccia viaggio di nozze, stia tranquillo....
— Oh, io sono tranquillissimo! esclamò, facendo un inchino con la testa — ma perchè, se è lecito, ella non farà viaggio di nozze?
Giovanna si mise a ridere dicendo:
— Perchè qui non si usa, e poi perchè.... mi manca lo sposo.
— In quanto a ciò... Ella è ancora una bimba; non le mancheranno mai adoratori e non avrà che da scegliere. Anzi, ho sentito dire....
Si fermò con quel suo sorriso fine, che gli faceva abbassare gli occhi e mostrare i denti. Pareva sorridere fra sè.
— Che ha sentito? — domandò Giovanna attentissima.
— Fra noi tutto è permesso, non è vero, benchè loro manchino un po’ di confidenza con me....
— Ma s’immagini! — cominciò Elena, ma egli non la lasciò proseguire:
— Non m’immagino nulla, non m’immagino nulla! Per carità, non mi sgridi, Elena; ho detto per scherzo. Io credo a tutto ciò ch’ella dice, ed anche ora crederò a quanto vorrà dirmi.
— Dunque?
— Dunque mi dissero che le signorine Bancu sono entrambe fidanzate.
Giovanna pensò: — È per questo che non osa dichiararsi? — e col suo fare sventato domandò vivamente:
— Con chi? con chi?
— E lei può pensare — disse Elena con calma — che se una tal cosa avvenisse, il nostro amico non sarebbe il primo a saperlo?
— Brava! — esclamò egli, entusiasmato dalla franchezza d’Elena, e presa la sua mano, gliela strinse.
Alle insistenti domande di Giovanna disse poi i nomi dei pretesi fidanzati; per Elena quello dell’antico innamorato, ed essa l’ascoltò senza batter palpebra; per Giovanna quello di un amico di Cosimo, che frequentava la casa.
— Non è vero! — assicurò fermamente Elena.
Invece Giovanna cominciò a sparlare del giovine, assicurando che le era antipatico. Elena si agitò, fece un gesto di disgusto, la guardò severamente, ma ella continuò a ciarlare.
— Chi sa, chi sa, chi sa? — disse Paolo, sempre sorridendo. — Ella è così maliziosa!
— Ma che maliziosa! — esclamò essa arrossendo. — Le assicuro che non è vero...
— Che ella non è maliziosa?
— No, che non è vero ciò che le hanno detto: son tutte malignità, sciocchezze. Non possono veder una persona entrar in una casa che subito non dicano malignità. Non si può aver relazione con nessuno. Anche per lei, anche per lei non dissero....
Elena, mortificata all’estremo, a questo punto chiuse gli occhi, proponendosi di batter Giovanna, come una monella, appena rimaste sole.
Ma Paolo ascoltava benignamente, e disse inchinandosi:
— Lo so, lo so, ed è per me un grande onore!
— Sì, ma intanto...
— Ma intanto vuol dire che tutti l’ammirano e....
— Che razza di discorso è questo? — pensò Elena riaprendo gli occhi.
— .... Le dispiace forse? — proseguiva De-Cerere. — Vuole che non venga più?
— Oh, non dico questo! — disse Giovanna, voglio dir solo che la gente maligna su tutto, e vede sempre cose insussistenti!
Non era questo il momento opportuno perchè Paolo De-Cerere aprisse il suo cuore e si spiegasse chiaramente? Sul principio della conversazione Giovanna aveva dichiarato, con sommo dispiacere di Elena, che le piacevano gli uomini d’età, seri e posati; poi aveva dimostrato un certo desiderio di maritarsi, e infine diceva che il suo cuoricino era libero.
Perchè dunque Paolo non si spiegava?
Ella, già raffreddata dal contegno preso dall’amico circa il tesoro, non badò molto a ciò, ma ci badò Elena, guardando fissamente il giudice, quasi fosse un reo, con la fronte aggrottata. — Da quel momento la conversazione diventò gelidissima, e non potè riscaldarla neppure il caffè che una domestica servì poco dopo.
A un certo punto, poi, entrò silenziosamente Lyly che giocò sotto il divano, arrotolò un angolo di tappeto, e si mise a far capitomboli meravigliosi. Giovanna battè il piede per farlo uscire, e siccome Lyly non intese con le buone, ella lo prese per un orecchio e lo mandò via.
Paolo esclamò:
— Poverino! — E difese questa razza di animali graziosi e calunniali; il che accrebbe il dispetto di Giovanna che prese un contegno gelido e stizzoso di bimba viziata, e nonostante il suo bel vestito e le sue scarpine, quella sera riuscì molto antipatica a Paolo.
Egli se ne andò tardi, ma la visita non lo lasciò, come le altre volte, soddisfatto; e appena fu uscito, Giovanna cominciò a parlar con amarezza di lui.
Elena restò tranquilla, e disse:
— Lo avevo detto io? Ora sei contenta?
— Ma che razza d’uomo è Cosimo? — esclamò poco dopo. — Disse che ieri sera aveva conversato a lungo in francese con Paolo, mentre Paolo ci ha detto di non averlo avvicinato da due settimane.
— Chi sarà il bugiardo? — domandò Giovanna. E la domanda restò senza risposta.