Il tesoro (Deledda)/Capitolo III
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III.
In questo frattempo, fra gli avvenimenti che recavano molti cambiamenti ed anche molte seccature, Agada e Costanza avevano trascurato il loro famoso affare, senza però dimenticarlo.
Ne parlavano sempre; spesso Costanza ci tornava sopra improvvisamente, con una frase vaga e misteriosa, e zia Agada rispondeva subito a proposito, quasi stesse appunto pensandoci.
Una sera Costanza disse, sollevando all’improvviso la testa dal cucito:
— Lo diciamo ad Alessio, zia?
— Uhm! — disse Agada — ci ho pensato anch’io, ma non mi pare che vada bene. Ha le stesse idee di tuo zio, e riderà di noi e andrà a ripeterglielo e ne faranno un baccano.... Lascia stare; è meglio anzi che Salvatore abbia dimenticato.
Allora Costanza propose di far ella medesima la risposta; l’aveva già ideata.
— Sentite, scriviamo così. Che ci dicano il nome della figlia e del collegio dove studia; che non abbiamo ancora il denaro da mandare, ma che ce lo procureremo presto. Intanto prendiamo informazioni del collegio, della figlia, e vediamo cosa c’è da sperare.
Ma Agada non approvò: la sua idea fissa era quella di consultare Cosimo Bancu, loro parente, loro avvocato, loro procuratore, e nel quale ponevano una illimitata fiducia. Egli andava raramente da loro, ma li riceveva ad ogni ora in casa sua, sempre che avessero bisogno.
Durante la malattia e la morte di Maria, si era lasciato veder due volte, ma siccome Agada e Costanza dovevano mantenersi in un decoro profondo, dato il loro dispiacere e il loro duolo, non avevano osato dirgli nulla.
Ora, verso la metà di giugno, una domenica sera, l’avvocato Cosimo Bancu era nel suo salotto, eseguendo al pianoforte il commovente finale dell’Aida. C’era gente; una signora d’età e una signorina alta, fredda e stecchita, che dentro il suo vestito bianco pareva una statua di neve. Una bellissima statua però: sotto i guanti scamosciali s’indovinavano due piccole mani perfette, e la scollatura vaporosa del vestito lasciava vedere il collo d’una meravigliosa bianchezza. La bocca e il mento, poi, erano un poema di grazia e purezza; i capelli d’un castano chiarissimo, quasi biondi, morbidi e abbondanti, erano acconciati con arte; gli occhi però erano piccoli e neri, pieni sempre d’un sorriso senza espressione, senza intelligenza.
Invece altre due ragazze sedute quasi ai suoi piedi, su due poltroncine basse — perch’essa troneggiava su un’alta sedia dall’imbottitura durissima — possedevano bellissimi occhi oscuri, grandi e profondi, limpidi e intelligentissimi, che con una sorprendente mobilità cambiavano d’espressione ad ogni nota del cembalo. Erano le due sorelle di Cosimo, piccole, pallide e bianche in viso e dal profilo irregolare; si sarebbero rassomigliate quasi perfettamente, se la minore non fosse stata più robusta, con le guance piene, le sopracciglia appena disegnate e i capelli chiari, quasi del colore di quelli della signorina biancovestita.
Giovanna era una graziosissima ragazza, senza esser bella nè delicata; aveva diciotto anni e dei piedini invisibili; era quasi ancora una bimba, ma una bimba maliziosa, una rosa non ancora sbocciata; qualcosa di morbido, di pieno, di desiderabile e adorabile che faceva dire — è una cosa bella — senza esserla precisamente.
La maggiore era più esile e sottile; e i capelli oscuri, le folte sopracciglia congiunte, le ciglia lunghe e una certa delicatezza nei contorni del visino scarno le davano una fisionomia affatto diversa. Poi, pensando ai suoi venti anni, ella assumeva una cert’aria seria di donnina pensierosa.
In fondo al salotto, sedute sul divano coperto di bianco, la signora d’età e la madre di Cosimo ragionavano di molte cose utili, badando poco alla musica che copriva la loro voce.
Donna Francesca Bancu apparteneva ad una nobilissima famiglia d’origine arborense; anzi questa famiglia discendeva precisamele dagli Arborea, ed in principio possedeva titolo comitale; ma dopo la disfatta di Leonardo d’Alagon, venuti gli Aragonesi, un lontano avo di donna Francesca aveva perduto il dominio e le pergamene, ed era stato esiliato. Così gli ultimi rampolli, vivendo a Nuoro, conservavano la nobiltà del sangue e si ostinavano a pretenderla anche nel titolo; e donna Francesca, sposando un pedestre borghese, anzi un popolano arricchito — morto da una quindicina d’anni — era rimasta dama fino alle unghie.
Ciò non le impediva, quella sera, d’indossare una toeletta poco conveniente per ricevimento; un guarnellino nero-verdognolo, una giacca lunga d’antico taglio e uno scialletto al collo.
I vestitini eleganti delle figlie e il finissimo costume grigio di Cosimo contrastavano assai con l’abbigliamento modesto della madre; eppure era molto più dama lei dentro la sua giacca rassomigliante più ad un sacco che ad altro, che essi nei loro abbigliamenti all’ultima moda. C’era tanta spigliatezza e delicatezza nei movimenti delle sue mani fini, del suo viso bianco e fresco, degli occhi grandi e neri, della fronte celata nelle tempie da due tonde di capelli lisci e grigi, che anche un gallo avrebbe riconosciuto in lei un’antica dama sarda.
Quando riceveva soleva vestirsi bene, con un vestito di seta nera, che le era servito da damigella, da sposa e da vedova; ma quella sera, avendola le signore Marchis sorpresa in veste da casa, non le avevano permesso d’abbigliarsi.
— Oh, guardino come sono! — aveva esclamato, aprendo le braccia e guardandosi.
— Lasci stare, lasci stare! — rispose la signora Marchis, tirandola per la mano — sappiamo come si sta in casa. Lei poi che lavora tanto, che ha tanto da fare!
Anche Cosimo fu sorpreso al piano; altrimenti si sarebbe volentieri eclissato, perchè nutriva una speciale antipatia per la bella Peppina Marchis, e il vedersela lì davanti, bianca, stecchita e senza espressione, invece di dargli un godimento estetico, lo metteva di mal umore.
Dopo certi complimenti asciutti e quasi ironici, Cosimo si rimise a suonare con indifferenza. E suonava il finale dell’Aida, quando s’aprì la porta, e una domestica sporgendo rispettosamente la testa nel vano, disse:
— Il dottore, c’è gente che la vuole.
— C’è gente che ti vuole, Cosimo — ripetè Elena, la sorella maggiore.
— Cosa? — chiese egli fermandosi e sollevando la testa.
— C’è gente nello studio — disse la serva.
— Chi è? — domandò egli rizzandosi. Era tanto alto che la sua testa sporgeva tutta al di sopra del pianoforte.
La signora Marchis lo guardò, poi guardò Elena e Giovanna dal fondo del divano, e con aria sorpresa, quasi non avesse fatto ancora quest’osservazione, disse:
— Donna Francesca, come non si rassomigliano i suoi figli!
— Niente, niente! — rispose l’altra sorridendo e guardando Cosimo. — Le bambine si rassomigliano alla nonna, mia povera suocera, e Cosimo al nonno e un po’ anche a suo padre, ma poco. A me nulla, benchè dicano che i maschi prendano la fisionomia della madre.
— Io rassomiglio a te! — disse vivamente Giovanna, volgendosi sulla sua poltroncina; e prese parte alla conversazione delle due signore.
— C’è zia Agada Brindis e la nipote — rispondeva la domestica dalla porta.
Cosimo fece un gesto di noia profonda e il suo malumore aumentò. Elena se ne accorse e: — Vado io? — domandò rizzandosi e guardando il fratello.
— Potevi dire che non c’ero! — esclamò senza provare alcuna soggezione per la signorina Peppina. Era tanta la noia di veder zia Agada, che lo consultava sempre e gli rompeva la testa per delle sciocchezze, che preferì restar in salotto.
Ma siccome alle Brindis, in qualità di parenti, occorreva usar dei riguardi, uscì Elena per riceverle e dire che Cosimo era fuori di casa.
L’avvocato si rimise a sedere sul suo sgabello, con gesti di persona seccata; e Peppina capì benissimo ch’egli mandava zia Agada e la bella nipote a farsi benedire. E pensò, abbottonandosi un guanto, che poi era già abbottonato:
— Che tipo! Non si scomoda neppure per i suoi pochi clienti!...
Lo guardò di sottecchi, poi, siccome Giovanna, con la testa indietro, ragionava ancora con la madre, si volse anch’ella verso le signore, ma lo fece così lentamente, così rigidamente che parve non muoversi.
Con un dito sopra un tasto, Cosimo faceva echeggiare nel salotto una sola nota acuta e stridula, ov’era diffusa tutta la sua noia dispettosa. A un tratto però un getto bizzarro e argentino di trilli, di gorgheggi, di pigolii allegri, freschi e diversi, coprì la voce di donna Francesca che raccontava come Elena avesse avuto quattro balie.
— Oh i cacciatori, Peppina, senti i cacciatori! — esclamò Giovanna volgendosi di nuovo verso il piano, con gli occhi brillanti.
— Che cacciatori? — domandò Peppina un po’ sorpresa, guardando verso la finestra.
I Cacciatori era invece la graziosa romanza senza parole che Cosimo suonava; e Peppina dovè al fine capirlo.
— Senti, senti gli spari! — disse Giovanna S’udivano infatti delle schioppettate, e gli uccellini che prima trillavano giocondi, emisero gridi spaventati, caddero e si dispersero.
— Oh, che bello! — disse Peppina, ma senza scomporsi. — Lo ripeta!
E Cosimo lo ripetè, più per se stesso che per lei, perchè quel pezzo grazioso gli piaceva assai, appassionato cacciatore quale era.
Mentre gli uccellini tornavano a cantare e volare, rincorrendosi per le frasche di un pesco fiorito — doveva certamente essere un pesco fiorito — Cosimo disse sorridendo:
— Sto componendo anch’io una sinfonia sulla caccia. Oh, ma se sentisse lì che fucilate! Ma altro che uccelli! Si sentono i cinghiali grugnire e i cervi correre...
Parlava suonando, e la sua fronte finalmente si spianava.
— Ce la faccia sentire — disse Peppina.
— Oh, non è ancora terminata! — egli rispose fermandosi, con le mani sui tasti; mani bianche e affusolate, mani proprio da pianoforte, da gentiluomo civile e raffinato. Un anello brillava sul mignolo della sinistra, un grosso anello ornato d’un solitario, che egli portava religiosamente, non perchè era l’anello dottorale, ma perchè memoria di Giuseppe Bancu suo padre, uomo forte, ambizioso ed energico, a cui il figlio voleva rassomigliare.
Cosimo aveva gli occhi turchini vivissimi; allorchè li fissava negli occhi altrui scrutavano sino in fondo alle anime, con una fissità in cui non si distingueva bene dove confinasse il fascino con l’insolenza. Era bianco e pallido come le sorelle, ma ben profilato, con fronte spaziosissima e il mento coperto da un corto pizzo rosso. Quando vestiva di nero, questo forte meridionale sembrava un uomo del nord, una figura alla Rubens, scialbo, freddo e quasi delicato nonostante la sua alta statura e le sue spalle larghe e vigorose.
Si era laureato da sette anni in una Università del continente; teneva studio, ed era un buon avvocato; ma lavorava poco, non aveva clienti perchè di modi superbi, scettici e beffardi, e non si curava delle poche cause che gli affidavano.
Dipingeva, ballava, suonava e cantava; tutti gli erano amici, tutti lo conoscevano, tutte le ragazze da marito gli tenevano gli occhi addosso. Ma in lui non si capiva se amava od odiava, a chi voleva bene e a chi male, che cosa desiderava o sognava; non lasciava scorgere che una indifferenza profonda, una superiorità schiacciante, e talvolta una noia che insultava chi gli stava davanti.
Elena tardò tanto che quando rientrò le signore Marchis stavano per andarsene.
— Come, non restano? È tanto presto ancora! — disse. Era un po’ confusa e commossa, e Cosimo le domandò:
— Cosa volevano quelle là? Potevi mandarle via un po’ prima.
— Eh, sì! — diss’Elena con una smorfiella infantile, rivolta a Peppina quasi per iscusarsi. — Sono parenti, figurati, che vengono tanto di rado, poverette! Volevo anzi far uscire mammà, ma quando sentirono che v’era gente, son state discrete, non han voluto....
— Discretissime!... — disse Cosimo beffardo.
— Vestitevi, signorine; andiamo a far due passi — disse la signora Marchis.
— Usciamo! — fece Elena con poca volontà, guardando Giovanna, che corrispose un po’ stupita al suo sguardo.
Perchè Elena non voleva uscire quella sera? Eppure le piaceva molto recarsi al passeggio, specialmente la domenica.
— Sì, usciamo — disse Giovanna avviandosi verso la porta: Elena la seguì di mala voglia, e traversando l’andito:
— Che gusto uscire con loro! io non so che gusto ci trovi! — mormorò.
— Cos’hai? — domandò Giovanna voltandosi.
— Se non vuoi venire puoi restar a casa!
Ad Elena non piaceva mostrarsi in pubblico con Peppina Marchis, perchè accanto ad essa sapeva di sfigurare.
Questo era un suo segreto innocentissimo, ma malizioso; in chiesa, per le vie, da per tutto, cercava di porsi accanto a ragazze bruttine, più piccole ed insignificanti di lei, per apparire graziosa ed elegante.
Mostrarsi con la signorina Marchis era per lei un vero sacrifizio, tanto più che non prendeva gusto alcuno alla compagnia di questa fredda bellezza, vuota e compassata. Non ostante la loro buona relazione, che passava per amicizia, nessuna simpatia od intimità correva fra le Bancu e le Marchis; appena si separavano si criticavano a vicenda. La signora Marchis era poi una pettegola numero uno, che osservava ogni particolarità e trovava da ridire sopra ogni cosa.
Durante il passeggio ad Elena toccò, manco male, andarle al fianco, perchè Peppina e Giovanna precedevano; la signora non tacque un minuto secondo: parlava male di tutte le persone che incontravano e ripienava la povera testina di Elena di pettegolezzi e malignità.
Ma ella non rispondeva; era annoiata e nervosa, non salutava nessuno, ed a momenti si estasiava, un pensiero profondo le passava negli occhi e guardava Giovanna con desiderio intenso di rientrar presto in casa, per confidarle il gran segreto di cui da due ore era partecipe. Gliel’aveva già annunziato mentre si vestivano.
— Quando saremo rientrate ti dirò una cosa.
— Cosa, cosa, dimmelo ora, subito!
Ma ella aveva taciuto. Non era cosa da dirsi su due piedi, con le porte spalancate, mentre s’allacciavano a vicenda le cinture dei vestiti; ne avrebbero parlato al ritorno.
A misura che la sera avanzava, la passeggiata si animava; apparivano signore in abiti chiari, signori invisibili durante la luce del giorno, e saliva un bisbiglio allegro e animato nel crepuscolo diafano e lucente di giugno. Persino Peppina rideva, col suo riso fresco, ma leggero e compassato. La sua signora madre intanto non trovava più parole bastanti per sparlare di tutti; qualche vittima le sfuggiva senza dubbio, e le sarebbe sfuggito anche un signore d'una certa età, che passando vicino a loro salutò profondamente e rispettosamente, ma il cui saluto era senza fallo alle sole Bancu, perchè accompagnato da un impercettibile sorriso rivolto a Giovanna. Quest’ultima si volse, e aspettando che la sorella s’avvicinasse, disse vivamente:
— Elena, hai veduto De-Cerere?
— Sì, va avanti! — rispose seria Elena, con una ruga in mezzo alla fronte.
— Ah. De-Cerere, quel signore vecchio? — domandò la signora Marchis.
— Non è vecchio! — esclamò Giovanna, volgendosi ancora con interesse.
— Ah, il giudice, quel giudice, sì, sì, lo conosciamo. E chi non lo conosce? Però mi pareva che si chiamasse Cenere. Non esce mai: l’hanno mandato qui in punizione, è sempre serio, non esce mai. È vecchio, avrà sessant’anni!
— Non è vero, non è vero! — esclamò Giovanna, e si fermò. Poi si mise al fianco della signora e cominciò a difendere il giudice con un calore troppo evidente, senza accorgersi delle fulminee occhiate d’Elena.
— Non è vero che ha sessant’anni, chi lo dice?
Ne ha quarantacinque, quarantotto al più. Ha tutti i denti, non vede?
— Saranno falsi....
— Ma che falsi! Viene spesso in casa nostra.... anche ieri sera.
— Oh! — esclamò la signora, con sorpresa e malizia. — Sono in relazione?
— Sì — prese a dir Elena, per impedire a Giovanna di proseguire. — È molto amico di Cosimo e viene spesso in casa. Non va altrove, credo: ha poche relazioni, ma è tanto bravo e gentile. A Nuoro però sta mal volentieri, perchè dicono mille sciocchezze sul conto suo. Si farà presto cambiare.
— Fa l’amore con la tale — disse Peppina.
— L’amore? Ma è vecchio! — disse la madre, ridendo; si era accorta facilmente che a Giovanna interessava il De-Cerere, e insisteva su quel punto per farla indispettire. E Giovanna stava per scattare di nuovo, ma intervenne Elena, seria ed autorevole:
— No, signora, non è vecchio. Non ha ancora cinquant’anni; eppoi è ricco, è gentiluomo. Se chiedesse la mano della tale, l’accetterebbero in famiglia. Ma è una diceria.
— Non la conosce neppure — esclamò Giovanna. — E poi non ci pensa neppure! Eccolo di nuovo. Lo guardi bene se è vecchio!
De-Cerere infatti si riavvicinava, dopo aver fatto ben poca strada; era in compagnia d’un altro signore grave e solenne, ed ora non sorrise, ma gli sorrise Giovanna, fattasi improvvisamente muta; la fanciulla si volse anche leggermente a guardarlo. Elena se ne accorse e strinse le labbra pensando: — La farai con me, quando ritorniamo a casa, sciocchina!
— Non è vecchio, ma è tutt’altro che giovane! — sentenziò la signora Marchis. — Ha i capelli e la barba castani, ma chi sa che non si tinga!
— Non si tinge, non si tinge! — affermò Giovanna. — Non li ha veramente castani i capelli, li ha neri e cominciano a diventargli grigi. Quindi non si tinge. E poi non è uomo da far queste piccolezze.
— Ma che piccolezze!... (La signora Marchis se li tingeva.)
E proseguirono su questo tono finchè rividero più volte De-Cerere, e la signora Marchis si convinse che egli non poteva aver cinquant’anni, che conservava tutti i denti, tutti i capelli, tutta la barba, sebbene un po’ rada, corta e divisa sul mento.
Era piccolo, con portamento un po’ stanco ma corretto e aristocratico, la fisionomia nobile e buona, quasi soave, gli occhi oscuri e profondi, la fronte alta, senza rughe, pensierosa e triste; pallido, vestiva elegantemente, con guanti neri; e l’aria di tutta la sua persona spirava decoro, gravita e serietà.
Questa fu infatti l’ultima impressione della signora Marchis.
— Non mi par uomo da far la corte alle ragazze: è tanto serio!
— Se sapesse! — pensò Giovanna sorridendo.
— Sarà forse ammogliato. Di dov’è?
— Toscano. Se avesse avuto moglie... — disse Giovanna, e stava per pronunziare una sciocchezza, ma aggiunse: — non sarebbe venuto solo nell’esilio, come lo chiama.
Da tutti questi discorsi le Marchis capirono che una relazione più che amichevole legava la Bancu al De-Cerere; ritiratesi, non parlarono d’altro, s’immaginarono ch’egli facesse la corte a Giovanna e subito sparsero ai quattro venti la notizia.
Tre giorni dopo tutti dicevano che De-Cerere era fidanzato.... con Elena!
— Sarà con donna Francesca! — disse un bello spirito.
Rientrando in casa, Elena fece a Giovanna una ramanzina coi fiocchi; la chiamò civetta e minacciò di dir tutto a Cosimo, se si permetteva di voltarsi un’altra volta a guardar quel vecchio.
Lo chiamò così, benchè non lo pensasse punto, e disse:
— L’ho difeso perchè la signora Marchis mi dà ai nervi, ma è vecchio, ha i capelli tinti, i denti falsi...
— E del resto cosa me ne importa? — esclamò Giovanna.
— Perchè fai la sciocca, allora?
— Perchè anche a me le Marchis danno ai nervi. Che gente invidiosa! Se Paolo cercasse Peppina vedresti come sarebbe giovine e bello e.... tutto!
Parlando di De-Cerere fra loro lo chiamavano sempre col solo suo nome: in principio Elena lo faceva per scherzo, per ironia, ma poi ci si era avvezzata sul serio. Fra loro Paolo andava e Paolo veniva; di mattina o di sera era necessario, ogni giorno, che parlassero di lui in una strana maniera.
Egli veniva spesso a trovarle; talvolta Cosimo non era in casa, oppure c’era benissimo, ma non si lasciava vedere, e donna Francesca era occupata. Allora Elena e Giovanna lo ricevevano da sole, senza alcun male al mondo: donna Francesca e Cosimo permettevano ciò perchè consideravano il giudice un uomo stagionato, se non vecchio, la cui presenza non poteva recare alcun danno alle ragazze. Cosimo anzi voleva che lo ricevessero con riguardo: era il giudice anziano, faceva continuamente da vice-presidente, era influentissimo, e gli avvocati, anche se infingardi come Bancu, sapete bene che talvolta han bisogno di simili personaggi.
Nel salotto di donna Francesca, Paolo De-Cerere era così amabile, lieto e galantemente affettuoso che non sembrava neanche per sogno un giudice.
Le sue visite si prolungavano, diventavano indiscrete; egli si dimenticava, si estasiava, diceva che erano per lui un raggio di sole, e corteggiava Giovanna. Ma era una corte tutta innocente, quasi paterna, se può chiamarsi così, che lusingava enormemente la vanità della bimba, senza toccarle il cuore.
Sulle prime De-Cerere aveva rivolto la sua attenzione ad Elena, ma forse l’aveva trovata troppo esile e seria, e forse egli era uomo di mondo più che non lo dimostrasse e gli piacevano le ragazze belle, fresche e fragranti, perchè in breve si rivolse tutto a Giovanna, dimostrando ad Elena soltanto una amicizia profonda e rispettosa, una ammirazione sincera per la sua intelligenza, per la sua bontà ed indulgenza. Ma ella si sentiva poco lusingata, e gli nutriva una stima relativa; le sembrava ch’egli mettesse poca profondità nelle sue parole, che venisse più per divagarsi che per altro; e ad ogni modo la disgustava grandemente la corte che egli faceva a Giovanna. O egli scherzava, ed Elena non ammetteva scherzi, o faceva sul serio e le ripugnava forte l’idea di Giovanna sposa d’un uomo che poteva esserle padre. Appena egli se ne andava ella cominciava a lamentarsi e parlar male. «Non avrebbe più tenuto il moccolo, non avrebbe più permesso di ricever da sole quel vecchio ipocrita, imprudente e importuno.»
Un giorno disse:
— Poteva attendere un momentino, ieri sera, e scoccava mezzanotte. Che signore educato! Senti, Giovanna. Non azzardarti più a farmi uscire, quando egli viene. Ricevitelo da sola.
— Perchè non le dici a lui queste cose? — domandò Giovanna risentita.
Esse andavano sempre d’accordo, si amavano, si confidavano tutta l’anima, ma spesso, causa il signor De-Cerere, si bisticciavano molto. Giovanna diceva:
— Egli non pensa a me sul serio; se ci pensasse, me lo piglierei!
Lo diceva per burla, ma Elena si adirava, sembrandole proprio di veder quella bimba innamorata di Paolo al punto di sacrificargli la sua fanciullezza, e per combatterlo meglio lo metteva in caricatura. E Giovanna aggiungeva con cattiveria:
— Parli così perchè non pensa a te. Se ci pensasse, ti parrebbe un sogno.
— Ma certo! Un sogno cattivo! — diceva Elena ridendo, e minacciava di far chiuder la porta sul muso a Paolo. Invece quando egli ritornava ella entrava sorridendo in salotto, e non smetteva di sorridere durante tutta la visita, neppure quando Paolo stringeva le manine di Giovanna o le rivolgeva complimenti troppo galanti. Del resto il vezzo di stringer le mani, a certi punti del discorso, Paolo lo aveva con tutti. Più d’una volta si permetteva di prender anche le mani di Elena, e tenersele fra le sue con atto affettuoso e paterno; ma ella le ritirava subito.
Però questa ed altre famigliarità, sembravano naturalissime nel De-Cerere; egli, così solenne e grave nelle vie, presso le sue piccole amiche si lasciava andare ad intimità affettuosissime; raccontava la sua vita, faceva narrazioni graziose e divertenti, e rideva mostrando tutto il meraviglioso splendore dei suoi denti.
Diceva d’aver molto viaggiato, e parlava di suo padre, ancor vivente, con tenerezza profonda: il che non impediva che Elena dicesse a Giovanna, sole:
— Dev’esser vecchio come Malusalem. Credi davvero che sia ancor vivo? Io non ci credo!
— Che sciocca tu sei! — esclamava Giovanna con stupore. — Come vuoi che parli di suo padre in questo modo, se fosse morto?
— Lo farà per dimostrare che essendo vivo il padre egli non può esser vecchio!
Da questo punto ricominciavano le questioni. Elena diceva:
— Un’altra volta mi farai il santissimo piacere di sederti lontana da lui, di non lasciarti stringer le mani, di badare a quel che dici. Dimmi, se il tale od il tal altro venissero e si permettessero di fare e dire quanto egli fa e dice, che ne penseremmo noi?
— Ma lui lo fa innocentemente! È così buono, così educato! Potrebbe esser nostro padre! Chissà che non abbia idee con la mamma! — diceva Giovanna scherzosamente, e questo pensiero le divertiva e le rappacificava.
Giovanna però credeva che De-Cerere fosse innamorato di lei, e non d’altre, e aspettava una formale dichiarazione. Non era innamorata, ma la corte di Paolo la lusingava, dandole una strana idea di sè stessa; ed avrebbe voluto ch’egli si spiegasse per poter far pompa di un tanto corteggiatore, serio ed influente, e sopratutto ricco.
I Bancu abitavano una bella casa a due piani, con un piccolo giardino, una casa piuttosto comoda e signorile, restaurata al ritorno di Cosimo dagli studi: al pian terreno c’era il suo studio d’avvocato e di procuratore.
Possedevano un’altra casa affittata, e molte terre, ma in realtà erano meno benestanti di quel che si credeva. Le rendite bastavano appena a pagar le imposte ed a viver decorosamente, senza lusso: Cosimo non guadagnava nulla e aveva debiti; ricordava i tempi splendidi quando, vivo suo padre, il denaro scorreva come un fiume nella loro casa, e avrebbe voluto rinnovarli; ma non aveva volontà, e il suo desiderio ambizioso lo tormentava senza spronarlo all’opera.
Anche le ragazze, ricordando vagamente altri tempi migliori, sognavano ricchi matrimoni; perciò Giovanna non rifuggiva dall’idea di sposar il De-Cerere, poichè lo si diceva ricco.
Ma Elena era più spirituale, e oltre il benessere sognava l’amore; senza l’amore anzi non capiva il matrimonio.
Due anni prima s’era innamorata di un giovane studente, amico di Cosimo, distinto, ma povero. Conoscendo l’ambizione dei Bancu, egli aveva promesso ad Elena mari e monti; avrebbe studiato, occupando una buona e splendida posizione. Ella, prestandogli fede, si era abbandonata al suo primo amore come ad un soave sogno sicuro.
Ma era accaduta la solita storia: egli non raggiunse che una modesta posizione. Donna Francesca e Cosimo strepitarono perchè Elena rompesse la sua relazione amorosa, e il sogno cadde come una rosa sfogliata.
Egli era lontano, ora, e sperava sempre, ma Elena non pensava più a lui.
Ella sperava di amar nuovamente, ma non cercava, non andava incontro ad alcuna passione. Tutti i giovani che conosceva le erano profondamente indifferenti; non guardava nessuno con desiderio d’esser corteggiata, ma aspettava.
— Verrà, domani, fra un anno, fra due o tre, ma verrà — pensava. — L’amerò grandemente, ma mi guarderò dal ricadere in una passione infelice. Bisogna che tutti ne restino contenti....
Qualche volta pensava che forse in quel tempo egli poteva sollevarsi e rendersi degno di lei. L’avrebbe riamato? Sarebbe stato egli l’eletto? Forse no, pur troppo! L’indifferenza era grande ed intensa, quanto grande ed intenso era stato l’amore, ed anzi il velo della sofferta delusione le gettava nell’anima un lieve disgusto, al pensiero che egli, col tempo, poteva farla sua.
Intanto però non gli aveva mai scritto queste cose; la relazione si era rotta insensibilmente, come smorzata dal tempo e dalla lontananza. L’ultimo a scrivere era stato lui; ella non aveva risposto, non gli avea più detto alcuna parola di speranza, ma neanche di diniego. Ed egli, lontano, nel silenzio di lei, sperava tuttavia ed amava sempre.