Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO II

SCENA I

Spagnuolo innamorato di Camilla, Giacchetto ragazzo.

Spagnuolo. Ah ingiusta, fallace e traditrice fortuna! Quanto ho io da lamentarmi di te!

Giacchetto. Che dite, padrone?

Spagnuolo. Io dico che ho da dolermi della fortuna piú che tutti gli uomini del mondo.

Giacchetto. Anzi, piú che tutti gli uomini del mondo avete cagione di lodarvi di lei; e dovereste fare una cappella e consacrarla al suo nome.

Spagnuolo. Ah ghiotto, ribaldello! Sempre tu vai su le frascherie.

Giacchetto. Io dico, signore, che séte piú aventurato che uomo che viva.

Spagnuolo. Aventurato io?

Giacchetto. Aventuratissimo, avendo una di quelle venture che io non penso che abbia il papa.

Spagnuolo. Che ventura è questa, putanella?

Giacchetto. Non mi date nome di femina, se io son maschio.

Spagnuolo. Dimmi: quale è questa ventura?

Giacchetto. Se voi séte amato da colei che amate, non è una ventura di quelle rare che si trovino al mondo?

Spagnuolo. Egli è vero che io, mercé d’Amore, vengo amato dalla signora mia, se al volto e alle parole, che sono, il piú delle volte, imbasciatrici del cuore, si può dar fede. [p. 227 modifica]

Giacchetto. Come! Parlate voi seco ancora e poi vi lamentate della fortuna?

Spagnuolo. Le lettere che io tengo sempre appresso il cuore, formate da quella bella e bianca mano sono, in vece di ciò, ricetto di care e dolci parole.

Giacchetto. Padrone, voi parete nato e cresciuto a Fiorenza, tanto avete ben la lingua e proferitegli accenti!

Spagnuolo. Non è maraviglia, che da fanciullo ho speso il mio tempo in Toscana e qui in Roma col cardinale mio zio. Ma tu è pur ora solamente che te ne sii accorto?

Giacchetto. Non dico per questo, signore, ma perché ancora io mi diletto di leggere il Boccaccio e l’ho tutto a mente. Ma tornate pure alla signora.

Spagnuolo. Che giova a me, Giacchetto, che ella m’ami, se, dall’altra parte, la mia maladetta fortuna mi toglie di poter raccogliere il frutto dell’amore che io conosco certo essermi portato da lei?

Giacchetto. Cotesto sarebbe un altro che.

Spagnuolo. Io sono a punto a quella condizione che saresti tu, se, posto alla tavola del cardinale...

Giacchetto. Che Dio me ne guardi.

Spagnuolo. ... alora che vi fossero in maggior copia i fagiani, le starne ed i saporetti, sopragiungesse chi ti legasse le mani di dietro per si fatto modo che convenisse startene a bocca chiusa.

Giacchetto. Voi dite le gran cose, padrone. Non sapete voi che Domenedio dice: «Aiutatevi voi, che v’aiutarò io»? come ben farei, se io avessi legate le mani; e come invero dovereste far voi. E poi non si dice che «col tempo si raccoglie il grano»?

Spagnuolo. Io non voglio per ciò disperarmi affatto, che, se Ciacco non mi burla, questa notte avrò il premio della mia lunga e fedele servitú a dispetto delle ingiurie della fortuna.

Giacchetto. Vi sento pur dire al modo mio.

Spagnuolo. Taci, che mi pare sentir non so che.

Giacchetto. Odo una musica nuova.

Spagnuolo. A me pare la voce di Ciacco. [p. 228 modifica]

Giacchetto. Cosí è. Come vi sta il cuore?

Spagnuolo. Tiriamoci qui dietro per intender ciò che egli dice: che sempre parla, quando è solo. Poi mostrarò di giungere d’improviso.

SCENA II

Ciacco solo, cantando.

                    Donne mie, s’è alcun che crede
               che l’amor sia virtute,
               va per torto camino e poco vede.
                    Sapete voi qual è nostra salute
               e ne fa eguali a Dio?
               L’esser contenti d’ogni suo desio:
                    quel che non ha né vi può dar Amore,
               empio tiranno che n’ancide il core;
               ma tutto è don di Bacco e di colei
               senza cui voi ed io ne morirei.
               Viver pien di dolcezza,
               piú sa chi piú t’apprezza.

Non sono io buon poeta? Si, sono, per Dio. Senza ch’io m’abbia beccato il cervello in lettere, io la ’mpatterei al Bembo ch’è, non pur poeta, ma cardinale. Ma rime a sua posta. Oh come ho ben desinato oggi! come bevuto da vantaggio! come bene empiuta la borsa! Dicono poi certi uomini che Amore non fa miracoli. Egli ha pure saputo metter la cortesia dove non fu mai se non estrema avarizia. Dico, in messer Cesare, che, per amore, diventa limosinano, credendo, per mio mezzo, di goder Livia; la quale dee esser moglie del figliuolo. E cosí lo sciocco è diventato pazzo che tien per fermo di goder la giovane, questa notte, quasi che ella fosse una di quelle di ponte Sisto, senza averle mandato pur lettera o imbasciata alcuna. Io, non potendo fare altro, gli ho promesso il tutto e intendo di fargli una burla di sorte che se ne dirá per tutta Roma. Ma ecco il gentiluomo spagnuolo; ecco lo assassinato d’amore. Io lo voglio straziare alquanto. [p. 229 modifica]

SCENA III

Spagnuolo, Ciacco, Giacchetto.

Spagnuolo. A tempo ti veggo, Ciacco galante.

Ciacco. Con questo, che non si parli di Camilla.

Giacchetto. Oh che ladro!

Spagnuolo. Perché non vói tu che io parli di lei?

Ciacco. Perché il tuo parlarne è indarno.

Giacchetto. Gli dá la baia, questo impiccato.

Spagnuolo. Il mio parlarne è indarno?

Ciacco. Signor siii.

Spagnuolo. Adunque, è indarno il parlar mio?

Ciacco. Non basta che lo dica una volta?

Giacchetto. Padrone, specchiatevi in quel fronte.

Spagnuolo. Non parlar, tu.

Ciacco. Che dice di «specchiare» questa fraschetta?

Giacchetto. La terra che aggira.

Ciacco. Che «terra»? che «aggira»?

Giacchetto. Dico che tu sei ebbro, poveretto! e non sai quello che tu ti dica.

Spagnuolo. Non vói tacer, bestiuola?

Giacchetto. Ecco che io taccio.

Spagnuolo. Vieni qui, caro Ciacco. Coteste parole sono elle conformi alla promessa che tu m’hai fatto?

Ciacco. Messer no.

Spagnuolo. La cagione?

Ciacco. Che non si può.

Giacchetto. Tanto avesse egli denti in gola acciò che si morisse di fame!

Spagnuolo. E perché non si può?

Ciacco. Perché ella piú non t’ama.

Giacchetto. Padrone, lasciate che io faccia le vostre vendette. Che si che ti scanno con questo pugnale! [p. 230 modifica]

Ciacco. Caccialo... presso che non dissi nel forame, capestro!

Giacchetto. D’intorno al collo ti campeggiarebbe un capestro divinamente.

Spagnuolo. Io giuro a Dio che, se non taci, vigliacco, mulo, io ti romperò tutte le ossa.

Giacchetto. Dica peggio che sa. Voglio esser mutolo, adunque.

Spagnuolo. Tu di’ ch’ella non m’ama?

Ciacco. No, no, no!

Giacchetto. E’ mente per la gola.

Spagnuolo. Egli è forza che mi tolga costui d’intorno.

Ciacco. Lasciatelo stare, che io non fo stima delle sue parole. Sapete come ella è? Voi non vi ricordate di me né io mi ricordo di voi.

Giacchetto. Verrá tosto dal «voi» su la «Vostra Signoria».

Spagnuolo. Non sai che io ho venticinque e trenta scudi

  • al tuo comando? Piglia la borsa.

Giacchetto. Adesso recará le buone novelle.

Ciacco. Mai non si peccò ad usar cortesia.

Giacchetto. Sarebbe di nuovo un crocifigger Cristo a usarla con un par suo.

Spagnuolo. Se non chiedi, la colpa è tua.

Ciacco. Un piacer che si fa senza che altri il richiegga vale tre tanti. Ma, se io vi fo aver Camilla questa sera, che premio sará il mio?

Spagnuolo. Quale vorrai tu.

Giacchetto. Ecco che ho pur giudicio.

Ciacco. La mia buona sollecitudine, i modi che io ho saputo usare, le parole piene di gran promesse sono state di tanto valore che Camilla desidera piú d’esser con voi che voi non disiderate d’esser con lei.

Giacchetto. Fate fabricare la capella, padrone.

Spagnuolo. Oh felice me! e te ancora, se questo è vero.

Ciacco. Cosí foss’io l’abbate di Gaeta, che averei d’alzare i fianchi a crepa corpo. [p. 231 modifica]

Spagnuolo. Che ordine s’è posto, Ciacco mio?

Ciacco. Io guardava tuttavia questo ghiotto in viso.

Giacchetto. Me, gentile uomo? Piacevi nulla? Dimandate, Spagnuolo. Che vuoi tu fare di lui?

Ciacco. Voglio che egli sia il mezzo di farvi aver Camilla.

Giacchetto. Non è egli assai un romano della sorte tua?

Ciacco. Tu non sai quello che io voglio inferir, gaglioffetto!

Spagnuolo. E meno lo so io.

Ciacco. Voi avete a sapere adunque... Ma non vorrei che ci fosse alcuno.

Spagnuolo. Di’ pure securamente, che questa è una strada ove rade volte passa niuno.

Ciacco. Voi avete a saper, dico, che messer Cesare padre della vostra Camilla è fuor di modo innamorato d’una giovane gentildonna bella e vergine. La giovane è, invero, da bene e non ne ascoltarebbe parola per tutto l’oro del mondo: tanto piú che ella è guasta di Flamminio suo figliuolo.

Giacchetto. Che novella ha incominciato costui?

Ciacco. E udite bella vena di pazzo! che, praticando io, quasi ogni giorno, in casa del vecchio con la miglior baldanza del mondo, egli mai non ha preso ardire di scovrirmi questo amore fuor che oggi; come che io lo sapeva assai bene, che il figliuolo e il suo famiglio me lo raccontavano ogni di.

Giacchetto. Che ha a far questo con Camilla?

Ciacco. Io, ritrovandolo in questa trama cosí semplice e cosí sciocco che miracolo mi parrebbe a trovarne un simile, gli ho promesso di condurgli la giovane in casa di una buona femina sua vicina.

Giacchetto. E poi?

Ciacco. Per me, faceva di tenerlo qualche giorno in pastura per cavargli piú cose di mano. Ma il buon cavaliere pur mi teneva detto: — O fa’ che io l’abbia questa sera o io me ne moro. — Né mai s’è voluto acchetare infino a tanto che io non glie l’abbia promesso e giurato.

Spagnuolo. È ben sciocco costui, da vero. Ma che appartiene questo a me? [p. 232 modifica]

Ciacco. Io avea pensato di fargli una burla d’una sorte. Da poi, venendomi a mente il vostro ragazzo, ho mutato proposito e glie ne voglio fare un’altra assai piú solenne.

Giacchetto. Che si che costui mi vorrá far diventar uccello e attaccarmi dietro la coda come si fa agli sparavieri!

Spagnuolo. Non so ancora a che tenda il parlar tuo.

Ciacco. Cotesto ribaldello del vostro ragazzo (udite gran cosa) s’assomiglia tanto di fatezza a quella giovane che io non so come si potessero assomigliare piú fratello e sorella nati ad un corpo.

Giacchetto. Se costei è bella, io mi posso tener gentil robba, è vero, Ciacco?

Ciacco. Si, per quello elemento che cuoce e fa render odore agli arrosti.

Spagnuolo. Lasciensi le burle. E taci tu, una volta.

Giacchetto. Non volete che io parli, se la cosa ha a farsi sopra di me?

Spagnuolo. Parla tanto che ti si secchi la lingua.

Ciacco. Io ho fatto, dunque, pensiero che Giacchetto si vesta in abito di donna e di menarlo al vecchio in iscambio della amorosa.

Spagnuolo. Non so ancora come questo fatto appartenga a me.

Giacchetto. Ben dissi che egli era ebbro.

Ciacco. Appartiene, che io, fra quel mezzo, tolto i panni del ragazzo, gli recarò a Camilla: con i quali ella vestitasi, doppo la partita del padre, leggermente potrá venirsene a voi senza che alcuno di casa se ne a vegga. Oltra che, avendo ella a caminar di notte un pezzo di via, sará molto piú sicura in abito di maschio che di femina.

Spagnuolo. Non so cotesto.

Giacchetto. Dimandatelo a me. Ma, per Dio, che tu non me l’accocherai. A me, ahn?

Spagnuolo. Non si potrebbe tór que’ panni senza vestire il ragazzo da femina e condurla al vecchio?

Ciacco. Si potrebbe, si; ma non cosí bene per il fatto vostro e ancora pel mio. [p. 233 modifica]

Spagnuolo. Facciasi come tu vuoi, pur che io abbia Camilla.

Giacchetto. Come «facciasi»? Io dico ch’io non voglio.

Ciacco. Perché non vuoi?

Giacchetto. Perché, ahn?

Ciacco. Perché, si?

Giacchetto. Tosto che il vecchio s’avederá che io son maschio, come andrá il fatto?

Ciacco. Temi tu che egli ti tagli a pezzi?

Giacchetto. Io dico che tu non mi ci corrai. Padrone, qui c’è arte. Poneteci mente.

Ciacco. Che arte?

Giacchetto. Tu sei d’accordo col vecchio; e vuoi uccellar me col mio padrone, a un tratto.

Spagnuolo. Può far la ierarchia degli angeli che tu non tacerai?

Giacchetto. Se appartiene a me, non volete che io parli?

Spagnuolo. Temi tu d’essere svirginato?

Giacchetto. Svirginato non giá; bastonato si bene. E pure che non m’avenisse peggio.

Spagnuolo. Poverino!

Ciacco. Odi, Giacchetto. Tu non sarai conosciuto per maschio, quando vorrai osservar quello che t’insegnerá questa testa. E, posto che si, io sarò lo incolpato, non tu.

Giacchetto. Io ti dico che tu sarai lontano e io in fatto; tu alla colpa e io alla pena.

Ciacco. Non temere, che il cardinale fará venire una indulgenza dal papa che ti as/olverá di colpa e di pena.

Giacchetto. Burle! Io so bene il fatto mio.

Spagnuolo. Orsú! Io voglio che tu ci vada.

Giacchetto. Voi mi potete sforzare.

Ciacco. Che téma è la tua? Io so bene che saprai molto ben fingere la donzella nel guardare, nel parlare e negli atti e, quante volte esso ti vorrá metter le mani nel seno o altrove, spingerlo a dietro e mostrar di volerti partire. Di me, che tu di’ che sarò lontano, non dubitare; che m’avrai sempre appresso [p. 234 modifica]e vedrai quello che io saprò dire. Al peggio che ella andrá, ti converrá basciarlo. Fia si gran fatto?

Giacchetto. Alla buon’ora. Volete voi cosi, padrone?

Spagnuolo. Si, voglio.

Ciacco. Ed io son contento.

Spagnuolo. D’intorno al fatto mio...

Ciacco. Non avete inteso il tutto?

Spagnuolo. Ho; ma vorrei intenderlo meglio.

Ciacco. State in punto alle quattro ore di notte. E trovate, fra questo mezzo, qualche bel drappo di donna schietto per dar colore alla cosa; e vestitene di lui il ragazzo leggiadramente in modo che, devendo egli finger costei, non paia né disutile né troppo ornata. Ben vorrei che gli faceste prima molto bene lavare il viso con quelle acque che fanno liscia la pelle.

Giacchetto. Va’; lava tu il vino che hai nella testa, imbriaco!

Ciacco. Fate, sopra tutto, che io abbia i panni fra due ore almeno acciò che ci sia agio di recargli a Camilla.

Spagnuolo. Come gli farai venire in mano di lei, che non se ne avegga alcuno?

Ciacco. Gli portarò meco in casa del vecchio e gli farò creder che io gli ho guadagnati ad uno che, per non aver da giuocare altro, giuoco i panni. Io, alle quattro ore, sarò a voi.

Giacchetto. Padrone, se costui mi fará un fiacco di questi panni, me ne promettete voi altretanti?

Spagnuolo. Si, giuro a Dio, se volessi ben di broccato.

Giacchetto. Basta. Giuocarò di securo.

Spagnuolo. Non m’hai detto per ciò, Ciacco, il modo che terrai in fare che Camilla gli abbia.

Ciacco. Darògli in presenza del vecchio a serbare alla fante la quale, consapevole del tutto, come fia l’ora, gli recará a Camilla e l’aiutará a vestirsene.

Spagnuolo. Cotesto non mi dispiace.

Ciacco. Io lo credo. Ma torno a te, ghiottarella. Paioti ladro, io?

Giacchetto. Paioti io femina?

Spagnuolo. Orsú! Alle quattr’ore. [p. 235 modifica]

Ciacco. Ricordatevi che io non voglio che la fatica sia per dominion?wstrum.

Giacchetto. È forse senza memoria egli?

Spagnuolo. To’, piglia: due, quattro, sei, dieci. Questi sono per dar principio. Come sará fornita l’opera, ti lodarai compiutamente di me.

Ciacco. Gran mercé.

Giacchetto. Messere, ricordatevi che la metá ha ad esser mia poi che senza me non si può far quest’opra.

Ciacco. Il vecchio t’impierá la borsa da vantaggio, che importará un poco piú.

Giacchetto. A me non la fregará egli.

Spagnuolo. Senza fallo, alle quattr’ore?

Ciacco. Senza fallo.

Spagnuolo. Vedi non mi vender fole.

Ciacco. Se temete che io v’assasini, pigliate i vostri denari.

Spagnuolo. Ciacco, abbimi periscusato, che tanto è la voglia che io ho d’esser con Camilla che io non ci credo di giunger mai.

Ciacco. Sempre li spagnuoli hanno nel capo qualche poco di eresia. Alle quattr’ore, v’ho detto.

Giacchetto. Non si fornirá tutt’oggi di parlar di queste quattr’ore.

Ciacco. Voi m’avete benissimo inteso. Non preterite l’ordine. Addio.

Spagnuolo. Abbi a mente, Ciacco, che in te è posto la felicitá mia.

Ciacco. Ed in voi il farmi ricco. Addio.

Spagnuolo. Che strada pigli tu?

Ciacco. Non risponde a verso. Qui a Santo Agostino.

Spagnuolo. Ed io verso Banchi.

Ciacco. Andate e tornate poi con la borsa piena di scudi. [p. 236 modifica]

SCENA IV

Ciacco solo.

Se io conduco a buon fine la trama che io ho ordita in questo cervello, io sono il piú felice e il piú aventurato uomo del mondo. Tre s’hanno a mettere in campo, questa sera, sotto alla guida mia: messer Cesare, Flamminio suo figliuolo e questo spagnuolo. Il figliuolo combatterá la ròcca e la fará sua. Il padre, pensando d’essere egli il possessore di questa ròcca, non s’accorgendo, si trovará alla impresa d’un castello, non senza suo scorno e forse danno. E, mentre egli si crederá espugnar le altrui fortezze, il terzo fará preda nella propria cosa di costui e del suo si goderá. Io trarrò utile da ogni parte e, se mi rendo nemico un solo, m’obligo per sempre due. Importa piú a star bene co’ giovani che con i vecchi. I vecchi se ne muoiono d’oggi in domani e lasciano i figliuoli ed i denari. Per ciò bisogna accarezzare i giovani nella guisa che io accarezzo Flamminio. Ma non è egli quello? Si, è pur, per Dio! Ho reso l’anima a due. Ci resta il terzo.

SCENA V

Ciacco, Flamminio, Pedante mezzo nascoso.

Ciacco. Flamminio, porgimi la mano e bascia questa fronte.

Flamminio. Eccomi. Che buone novelle ci sono per me, Ciacco?

Ciacco. Quelle a punto che piú desidera il cuor tuo. Che t’ha detto Valerio?

Flamminio. Molte cose m’ha egli detto che mi piacciono grandemente fuori che la conclusione del matrimonio.

Ciacco. Io, ciò che prometto, è il Vangelo. Questa sera parlarai con Livia e, a qualche via, v’accordarete insieme, che di questo ne lascio l’incarco a voi. A me basta a condurti nelle braccia sue; e so che altro non vuoi da me. [p. 237 modifica]

Flamminio. Tu sai bene che io son tutto tuo e puoi dispor di me quanto di te medesimo.

Ciacco. Coteste sono parole; e spero vederne i fatti.

Flamminio. Siane certissimo. A l’ordine, adunque.

Ciacco. L’ordine fia che, a due ore e mezza di notte, tu ti conduca dinanzi alla casa di lei, solo e in quello abito che ti parrá piú atto a non esser conosciuto. E, dato un segno che ti dirò, di subito ti sará aperto l’uscio e verrai menato in una camera dove ti troverai essere dolcemente atteso dalla tua cara e gentil Livia.

Flamminio. Qual fia questo segno?

Pedante. Quid ego intelligo?

Ciacco. Ascolta nell’orecchio.

Flamminio. Che accade nell’orecchio? che qui non c’è persona.

Ciacco. Ascolta pur nell’orecchio.

Pedante. Habuit spiritum propheticum.

Flamminio. T’ho inteso; e piacemi. Ma posso io andarvi sicuramente?

Ciacco. Come «sicuramente»?

Flamminio. Che so io? che non vi potesse esser trama.

Ciacco. Trama ordita da chi? temi tu forse di me?

Flamminio. Non giá di te. Ben temo che non vi sopragiungesse fratello o parente di lei che, cogliendomici in fatto, non mi facesse ingiuria.

Pedante. Non sine quare.

Ciacco. Stanne sicuro, che, quanto a questo, puoi andarvi in camiscia; e io so ben quello che io parlo.

Flamminio. Avengane che vuole, non si può mettere mano alle grandi imprese senza gran rischio. Sará custode di questa mia vita Amore che gran signore si dice essere e valente cavaliere.

Pedante. Intellectu caret.

Ciacco. Va’ pur senza sospetto alcuno.

Flamminio. In quanto al padre mio, come va la burla?

Ciacco. Dirassi poi, allora che si potrá ridere con piú agio.

Flamminio. A me par mill’anni che si faccia sera.

Ciacco. Verrá pur troppo per tempo. [p. 238 modifica]

SCENA VI

Pedante uscito nella scena, Ciacco, Flamminio.

Pedante. «Meretrices fu gè», precetto catoniano.

Ciacco. Chi diavolo è quel frate che predica?

Pedante. «Nec lachrymis crudelis amor nec fronde capellae», il magno Marone.

Flamminio. Ecco, io son pur ruinato del tutto senza rimedio alcuno.

Ciacco. Onde vien questa ruina?

Flamminio. Tu non vedi il mio maestro? La cosa è scoperta. Qui bisogna bene adoperarvi astuzia, se non che spacciato è il fatto.

Ciacco. È cosí gran diavolo costui?

Pedante. Che parla del diavolo quell’animale irrazionale?

Ciacco. Sareste voi suo fratello, che rispondete per lui?

Flamminio. Maestro, io non m’era accorto di voi. Ove andate, cosi, a quest’ora?

Pedante. Questo è il «salve magister» che doverebbe dire? Sei ambulato in Campo di fiore?

Flamminio. Ai piaceri vostri. Ho tanti travagli nella testa che io m’era scordato di salutarvi. Fate mia scusa.

Pedante. O Flammino, Flamminio, non bene se res habent, le cose non van bene.

Ciacco. Che fernetica costui?

Pedante. Tu sei innamorato, il che nesciebam. Ma io ti dico che istai male.

Flamminio. Che volete che io faccia? non sono ancora io di carne e d’ossa?

Pedante. Bene. Etiam i quadrupedi, come sarebbono verbi grada i buoi, le pecude e gli equi, in quibus non est intellectus, et omnia huiuscemodi ammalia, sono di carne e d’ossa.

Ciacco. Le parole di questo babbuasso, mezze per lettera e mezze per volgare, mi paiono di quegli animali antichi che aveano l’aspetto d’uomo e i pie di capra. [p. 239 modifica]

Pedante. Non rispondo a persone della qualitá tua. Torno a dir, Flamminio, che io ti scerno a malo et pessimo itinere, se non ti correggi.

Flamminio. Non m’avete voi letto mille volte nella Bucolica che «omnia vinci t amor» ?

Pedante. Poverino! Tu non prendi le cose sanamente come elle stanno. Però dice la Scrittura che la lettera occide. Sai tu quali volea inferir Virgilio che fossero vinti d’amore? Gli animali. Hinc est che egli introduce a parlare un cura ovium. Ma, se non avesti fatto exule il meminit, ti ricordaresti molto bene in quanti luoghi il terso Terenzio nuncupa e chiama gli amanti «amenti», idest senza mente, senza intelletto. Et ita est; che amore extirpa l’intelletto all’uomo e fallo diventare una bellua penitus et omnino. Il che, in lingua vernacula, vuol dire «due volte del tutto».

Ciacco. Oh che parole divine gli sdrucciolano di bocca! Domine y potrebbesi mangiare di queste vostre parole auree?

Pedante. Io t’ho detto che non sei digno di responso; ed è peccato che ipse pater rerum mandasse un’anima in cosí sceleste corpo.

Ciacco. Come è il vostro, è vero?

Flamminio. Non lo far salir in còlerá.

Ciacco. Fermatevi, che qui vi colgo io. E perché mi trattate da bestia, domine! Io vi voglio far vedere che voi non sapete quello che sia anima.

Pedante. Ah! ah! ah! Mi provoca al riso questo nescio, ignorantello, senza cervello.

Flamminio. Gli umori esalano. Che cosa è anima, Ciacco?

Ciacco. Lascia che lo dica egli, che non lo sa.

Flamminio. Se non lo sa, come vuoi che lo dica?

Pedante. Costui si pensa d’esser quel furfante che con lo enigma fece cavarsi gli occhi a Omero.

Ciacco. Io non so né de lima né di ferro. Basta che io vi farò vedere che non sapete che cosa sia anima.

Pedante. Questo è un punto di filosofia; e non sei capace a intenderlo. [p. 240 modifica]

Ciacco. Anzi, è che voi noi sapete. Ed io penso che non v’intendiate a pena di grammatica, non che di filosofia.

Flamminio. Non lo punger, se vuoi prendere spasso. Fino a qui le cose van bene.

Pedante. Ora intendi, che io te lo declaro. Anima ea est qua vivimus, l’anima è quella parte per la quale l’uomo vive; perché, quando l ’anima relinque questa corporea e fetida massa, tunc actum est della vita, allora non si può vivere. Che ti pare? non è cosi?

Ciacco. Cotesto dove l’avete voi pescato?

Pedante. Ne parla diffusamente, non pur Cornucopia e Calepino, ma tutti e’ codici latini.

Ciacco. Non sanno nulla questi vostri podici e capelini.

Pedante. Vuoi tu ch’io te la diffinisca secondo l’alto e penetrativo intelletto del gran Platone? o vero come vuole la scola dei sacri di teologia professori?

Ciacco. Questo poco basta a farmi intender che voi non sapete nulla.

Pedante. Homine imperito non è cosa piú misera, come bene locutus est Terentius Apher.

Ciacco. Ho ascoltato voi; ed è ben ragione che voi ancora ascoltiate me.

Pedante. È cosa onesta, ma non copulata con l’utile, come vult Marco Tullio nel primo libro De officiis da noi illustrato con lucida interpretazione.

Ciacco. L’anima... Udite bella comparazione, e trovata da questo cervello! L’anima, a dirlo in due parole, è come il vino.

Pedante. Ah! ah! ah!

Flamminio. Ah! ah! ah!

Ciacco. E, che sia il vero, ecco la ragione. Il vino è da per sé buono; e l’anima buona. Se metti il vino in una botte netta, egli ritiene la sua bontá; se l’anima entra in un corpo buono, ella ancora riman buona. Torno al vino. Se lo poni dentro una botte che abbi qualche strano odore, egli di subito riceve qualitá da quello e si guasta. Cosi, se l’anima entra in un corpo mariuolo, ella similmente diventa asina. Ergo, adunque, l’anima è come il vino. Che vi pare? [p. 241 modifica]

Flamminio. Ah! ah! ah! ah!

Pedante. Ah! ah! ah! ah!

Ciacco. Ve ne ridete voi?

Pedante. Bene, optime, argutule. Sed de hoc iam sit satisBasti questo per evitare il titolo di «scurra».

Ciacco. È qualche cardinale questo Scurra o qualche bassa del gran Turco?

Flamminio. Ah! ah! ah!

Pedante. Mai, a punto! «Scurra» vuol dire un «buffone». Ciacco/ Dunque, trattate me da buffone?

Pedante. Absit il sospetto. Benché, essendo questa in ilio tempore stata calumnia di Cicerone, non te la doveresti prendere a verecundia tu, se io l’attribuissi a te.

Ciacco. Poco mi curo io di Cicerone né di Salamone.

Flamminio. Domine, avanti che mi parliate d’altro, vi voglia ricordare che io sono uscito di fanciulezza.

Pedante. E di questo habeo dolorem magnum; che, quando deveresti cominciare a dimostrarti uomo, torni a infanciullire. Repuerascis, mchercle, Flamminio. Nam Amor puer est e gli innamorati sempre convengono perpetrare opere da fanciullo. Ma non sai forse di quante erumne, di quante miserie, di quante ruine sia cagione questa bestia, bestia, inquam, rapacissima, fatta dominus deus da gente vana?

Flamminio. Non avete forse veduto quei libri che tanto lodano Amore, mostrando che da lui ne nascono tutti i beni?

Pedante. Lege tu quegli altri che ostendeno che da lui pullulano ed hanno exito tutti i mali.

Ciacco. Come possono stare questi duo contrari insieme? O che egli è buono o che egli è tristo.

Pedante. Egli è sempre malo, immo peximo. Et chi crede aliter decipitur di grosso errore.

Flamminio. Anzi, Amore è sempre buono; e tristo lo fa co’ suoi vizi chi è tristo. Come si può dir d’alcuni in questa cittá i quali, sotto spezie d’insegnar le virtú, ammorbano ogni sessoQuesti sono tristi; e tristo è il loro amore.

Ciacco. Coteste sono sentenzie, e non le vostre. [p. 242 modifica]

Pedante. A me non puoi attribuire istam rem, Flamminio.

Flamminio. Anche voi non séte un santo. È ben vero che io vi conosco di quelli che vogliono esser intesi ai cenni solamente.

Pedante. In queste tue parole s’asconde una gran medulla; e parli molto ironice.

Flamminio. Sapete bene dovè io m’aviso con l’arco.

Ciacco. Messere, interpretate Vostra Eccellenza queste parole, tanto che le intenda ancora io.

Pedante. Flamminio, quel che ti dico vogli accipere in buona parte. Sai bene che mea interest a darti i buoni precetti piú che a insegnar grammatica. Et è proverbio di vulgari che «le lettere non danno il senno».

Ciacco. Ah! ah! ah! Voi avete fatto come fa uno che vuol tirar di punta a colui con chi combatte e viene a dare col fronte in qualche stecco che cava l’occhio a se medesimo. Questo proverbio è contra voi, benché ne abbiate poche delle lettere.

Flamminio. Taci tu, un poco, di grazia.

Ciacco. Comanda pure.

Flamminio. Che dite voi di precetti, poverino? Non vi ricordate di qual sorte precetti mi volevate dare una volta? che meritareste essere arso. Giovami che io ho piú cervello di voi e non voglio discovrire le vostre ribalderie. Ma giuro a Dio che, se direte parola niuna di quello che m’avete udito ragionare con costui, io vi fo rimanere il piú svergognato e ’l piú misero uomo che oggi sia in Roma. E questo basti.

Pedante. Fili mi dulcissime, tu sei in còlerá. Io non voglio parlar, per ora, piú teco.

Ciacco. Ricordatevi che vi giovará piú, a questo tempo, il tacere che tutte le vostre lettere.

Flamminio. Lassa pur che egli ne parli. Se non gli costará, mio danno! [p. 243 modifica]

SCENA VII

Flamminio, Ciacco.

Flamminio. Tu vedi, Ciacco, se poteva peggior sventura mandarmi la disgrazia che farmi oggi due volte abbattere in costui. Me n’era sbrigato poco dianzi. Ora un’altra volta ella me l’ha mandato tra’ piedi affine che se gli facesse aperto quello che io avea saputo asconder benissimo infino a questo di.

Ciacco. Pensi tu che esso abbia inteso il tutto?

Flamminio. Cosí non ci fosse egli al mondo!

Ciacco. Tu gli hai fatto turar la bocca di maniera che non osará dirne parola al vecchio; e, quando bene glie ne dicesse, che fia per questo, che non sa di qual giovane abbiam parlato?

Flamminio. Anzi, si, sa; che dicesti chiaramente «Livia».

Ciacco. Conosce egli Livia?

Flamminio. Basta saperne il nome e dirlo a mio padre che poi verrebbe prestissimo a cognizione del tutto. Cosí sarei caduto dalla cima d’ogni felicitá al fondo d’ogni miseria.

Ciacco. Non glie ne dirá mai; stanne sicuro. E, posto che glie ne dicesse, il mio cervello provederá al tutto. Orsú! Hai inteso l’ordine e l’ora. Io mi voglio partire.

Flamminio. A rivederci, adunque.

Ciacco. A rivederci. Odi, Flamminio. Quando arai avuta la buona notte, ricorderá ’ti di me?

Flamminio. Se io mi ricordarò?

Ciacco. Quando sarai nelle allegrezze, dirai: — Chi mi vi ha fatto essere altri che Ciacco? — E questo basterá, allora, in parte.

Flamminio. Ben ti lodarai dell’opera mia. Per ora, che mi comandi tu?

Ciacco. Che tu ponga mente di dar l’assalto alla ròcca cosí destramente che la fanciulla non perisca.

Flamminio. Non ti dubitare, che non ne muore niuna in cosi fatti assalti.

Ciacco. A rivederci domani.

Flamminio. Domani o un altro di. [p. 244 modifica]

SCENA VIII

Ciacco solo.

Costui dee far pensiero di starvi un mese almeno, tanto il sento riscaldato. Stia quanto gli piace, la quaglia ara ad esser sua o, per dir meglio, egli metterá il luscignuolo nella sua gabbia. E chi dubita che io non abbia ordita questa trama col voler della madre di Livia? Ben lo saprá egli. Cosí da tante parti sará il mio guadagno che, a questa volta, mi farò ricco.

SCENA IX

Pedante solo.

Proh deum atque hominum fidem! Oh mondo pien di scelere e di spurcizie! Ben è vera quella saluberrima sentenzia del neapolitano poeta Accio Sincero Sannazarius che «tanto peggiori piú quanto piú inveteri». Si doverebbe scriverla in lettere d’oro. Certe, un uomo probo come son io, un uomo litterato, un uomo facondo non può venire hac tempestate per le calumnie dei malevoli. Oggi non si porge auricula alle parole dei savi, ma di ruffiani, di parasiti, di ganimedi e di simili cinedi e scelesti homunculi solamente. Ecco, io che, per riprendere ex toto corde, con zelo di caritá, Flamminio del mal cepto itinere della voluptá, de buono opere lapidatus sum. Che bisogna fare, adunque? Oportet riputarsi d’essere elingui et sine oculis; cioè, se vedi i vizi, se gli ausculti, chiuder gli occhi e tacere. Aliter actum est, non si può viver, dico. Posthac nullum verbum faciam. Et con questo optimo consiglio, poi che ’l rutilante et clarum iubar febeo s’inchina all’occaso per acquiescere, la notte, nel gremio di Tetide dea marina, io, passo passo, me ne andrò al mio tugurio ornato solo d’ottimi e pulcherrimi libri: ove, incumbendo alle virtú, m’allontanarò in tutto dal vulgo ignaro.