Il ragazzo/Atto III
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ATTO III
SCENA I
Flamminio solo.
O notte da me disiata si lungo tempo, o notte a me più che tutti i giorni lucente e chiara, notte dolce, notte beata, già sei pur finalmente venuta doppo tanti amari. Chi fia, notte, più aventuroso di me? poi che s’avicina l’ora che io debbo goder di colei la quale io sopra tutte le cose amo e senza la quale io non potrei vivere lungamente. Ma che dico io? Che mi porge questa fiducia? chi sa che tra la spiga e la mano non s’abbia ancora a metter qualche muro? chi è quello a cui sia ascoso quanto, il più delle volte, riescano vane le promesse d’Amore? Io credo che Livia m’ami; credo che, questa notte, il suo disegno sia d’esser meco. Ma chi mi assicurarà che non possano sopravenir mille impedimenti, di maniera che quello che, doppo tante fatiche, sarebbe venuto a questa volta non abbia forse più a far ritorno già mai? Ma chi è colui cosi aveduto che si possa schermire da’ colpi invisibili di fortuna? Siami favorevole, tu, che puoi turbare come a te piace la tranquillità d’Amore. Non ti opporre alle mie gioie; che io non temerò che mi si tolga il frutto che è promesso, questa notte, alla mia pura e salda fede. Cosi, pian piano, prenderò la strada verso il caro albergo dove abita il mio bene.
SCENA II
Ciacco, Giacchetto vestito da fanciulla, Spagnuolo.
Ciacco. Esci mora, sposa, che non ci appar niuno.
Giacchetto. Io esco.
Ciacco. Questa voce è un poco aspretta. Di’ in questa forma: «io eesco».
Giacchetto. Io eesco.
Ciacco. Bene sta. Bisogna che tu addolcisca e insaporisca la lingua piú che puoi.
Giacchetto. Vuoi tu altro? che parrá che mi esca il mèle e il zucchero fuor di bocca.
Spagnuolo. Chi stimarebbe costui maschio? Io, per me, non posso a pena credere che egli sia il mio ragazzo.
Giacchetto. Anco a me pare d’esser diventato femina.
Ciacco. Chi sa che non si vedesse in te qualche miracolo! Lassami toccare.
Giacchetto. Orsú! Ritien le mani a te.
Ciacco. Dimmi, caro Giacchetto: vorresti diventar femina da vero? cioè, vorresti che ti nascesse l’altro sesso?
Giacchetto. Vorrei che qualche santo mi cangiasse in un di quelli che si dice aver l’uno e l’altro.
Ciacco. Perché?
Giacchetto. Per provare quale è piú dolce sapore, all’una maniera o all’altra.
Ciacco. Pure?
Giacchetto. Pur, meglio è esser maschio, al parer mio.
Ciacco. Tu non sai mò un punto.
Giacchetto. Che punto?
Ciacco. Che le femine hanno piú vantaggio che gli uomini.
Giacchetto. Che vantaggio è il loro?
Ciacco. Possono servire per maschio e femina con galantaria.
Spagnuolo. Il tempo fugge; e coteste son burle.
Giacchetto. Anzi, hanno gran disavantaggio.
Ciacco. In che modo?
Giacchetto. Dimandate il pedante che ha studiato per lettera.
Spagnuolo. Io dico che ’l tempo fugge.
Ciacco. Orsú, Giacchetto! Lassando da parte le burle, non piú Giacchetto, ma Livia, sará il tuo nome.
Giacchetto. Livia sará il nome mio? insino a quanto?
Ciacco. Insino che si fornisca l’opera.
Giacchetto. Guarda, adunque, che in chiamarmi non prendi errore scambiando un nome per un altro.
Ciacco. Guarda pur tu di non errar nelle risposte.
Giacchetto. Ascoltami se io saprò fare. Tosto che io sarò dinanzi al vecchio, da poi il risalutarlo con basse e vergognose parole, se esso mi racconterá il suo amoraccio, le sue pene, i sospiri, io, mentre che egli parlará, terrò gli occhi fitti a terra.
Ciacco. Galante!
Giacchetto. Se mi accarezzará, pregará o gettará le mani al collo, datogli allora una occhiatina, cosi, dirò: — Paiovi io,, messere, femina di questa sorte?. — Ciacco. Buono!
Giacchetto. Se vorrá fare il prosontuoso col trar delle mani nel seno o in voler metterle sotto a’ panni, subito io, dandogli delle mani nel petto, dirò: — State fermo, se non che io gridarò. — Ciacco. Benissimo!
Giacchetto. E, se pur gli volesse durare nella ostinazione ^ e io a gridar quanto di gola mi potrá uscire, a trar delle mani e a stringer le cosce.
Ciacco. Tu sei uno imperadore.
Giacchetto. Imperadrice. Ecco che giá comincia a errare.
Ciacco. Tu vali un Melano.
Giacchetto. Se egli sará moderato e onesto, io gli compiacerò finalmente d’un bascio.
Ciacco. Compiacigli anco di due, quattro e sei. Questo importa poco.
Giacchetto. Importa forse assai piú che il resto.
Ciacco. Perché?
Giacchetto. Come diavolo a basciare un vecchio il cui fiato pute, bavoso, con tre denti soli...
Ciacco. Che ne sai tu? Anzi, non vidi io mai vecchio che, dei suoi anni, avesse piú gentil fiato né la piú bella e spessa dentatura.
Giacchetto. A sua posta. Io lo basciarò meno che io potrò.
Ciacco. Vorrei saper come farai questo bascio, di maniera che egli abbia della donna e della donzella.
Giacchetto. Lo basciarò in questo modo.
Ciacco. Questo bascio è troppo stitico, troppo da romita.
Giacchetto. Farò cosi.
Ciacco. Quest’altro è bascio da cortigiana. Non voglio che tu ci metta la lingua.
Giacchetto. Lo basciarò in quest’altra guisa.
Ciacco. Non potrebbe star meglio: bascio a punto da simpliciotta.
Giacchetto. Se egli mi chiedesse la lingua?
Ciacco. E tu a ricusargliele.
Giacchetto. Ecco che io saprò il tutto. Ma questo e niente mi par tutt’uno.
Ciacco. E perché?
Giacchetto. Può egli essere che costui abbia tanto della pecora che non s’avegga, stando io seco, se io sono la sua amorosa o no? Non l’ha egli veduta?
Ciacco. Io ti dico che sei tanto simile e di volto e di persona a Livia che piú volte ho dubitato che ambedue non siate figliuoli d’un medesimo padre.
Giacchetto. Io non voglio creder che mátrema sia stata ■da piú delle altre femine.
Spagnuolo. Io penso che, oggimai, a mano a mano a mano, sia appresso la mezza notte.
Ciacco. Non sono a pena tre ore.
Spagnuolo. Son molto lunghe le ore di questa notte! Credo che abbiano invidia alla felicitá mia.
Ciacco. Troppo tosto se ne andranno. Voi ascondetevi qui d’intorno; che, in questo mezzo, condurrò madonna...
Spagnuolo. Oh! benissimo! Stanimi in cervello.
Ciacco. ... in casa la buona femina che io ho appostata. E tornarò dipoi, solo, al vecchio; il quale prima che io tiri da casa, mi conviene levarne il famiglio, acciò che, restando Camilla con la fante, non sia chi la impedisca a venire a voi nell’abito che, come io a punto voleva, le ho fatto venire in mano.
Spagnuolo. La madre se ne potrá forse accorgere.
Ciacco. La madre è inferma; e, se fosse sana, s’attenderebbe che ella se ne andasse al letto.
Spagnuolo. La fante le vieterá ella il venire?
Ciacco. È ben cosa, cotesta, da considerarsi ora! Non avete voi potuto comprender, per le parole che io vi dissi prima, che la fante è del medesimo voler che sono io e la giovane? Mercé che io l’ho strangolata col metallo di san Giovanni Boccadoro.
Spagnuolo. Perché non strangolavi anche il famiglio? che aresti avuto i denari da me.
Ciacco. Egli è troppo da bene. Non lo strangolarebbe quanto oro ha il soffi.
Spagnuolo. È da piú degli altri, costui?
Ciacco. È nato e cresciuto in quella casa.
Spagnuolo. Se è cosí fedele, non lo pagarebbe il tesoro di messer San Marco.
Ciacco. Cosí è.
Spagnuolo. Or va’ a fornir l’opera, che io m’asconderò in modo che non sará chi mi vegga insino all’ora predetta.
Ciacco. Non vi scostate troppo, intendete?
Spagnuolo. Scostarmi io? Ora, Giacchetto, sappi esserci.
Giacchetto. Chiamatemi Livia, se volete.
Ciacco. Benissimo. Siami pure accorto, tesoro mio.
Giacchetto. Vogliamo andarci?
Ciacco. Camina avanti, che io ti verrò dietro.
SCENA III
Spagnuolo solo.
Coloro se ne sono andati ed io rimango. E, come dice il nostro spagnuolo, «el corazon está sin fuerza y el alma sin poder y el iuyzio sin memoria». Perché, da una parte, le promesse sono grandi, il tempo nel quale esse s’abbino a fornire è appresso e chi mi può servire è posto all’opera. Dall’altra parte, io temo e parmi che non so che maligno spirito mi dica: — Tu non verrai mai a buon fine del tuo amore. — Ma sento aprir l’uscio della signora mia. Io prendo questa strada che conduce a Monte Giordano; né per ciò mi discosto molto.
SCENA IV
Messer Cesare, Valerio.
Messer Cesare. Non pensi tu che io sappi quello che m’è di vergogna e quello che m’è d’onore, bufolo?
Valerio. Basta. Fate voi.
Messer Cesare. Bisogna Livia che m’aiti; altramente, non si può far co velie.
Valerio. So ben che avete un sottile avedimento.
Messer Cesare. Lo puoi credere.
Valerio. Anzi, io il so.
Messer Cesare. Non ti pare che io abbia la piú bella amorosa che sia al mondo?
Valerio. Ed in Maremma ancora.
Messer Cesare. Non istimi, adunque, se ella è tale, che io abbia giusta cagione di chiamarmi venturatissimo?
Valerio. Messer si.
Messer Cesare. Tu parli pur come parlo io, a questa volta; e pure ora mi riprendevi.
Valerio. Chi vuol piacervi bisogna che parli a modo vostro.
Messer Cesare. Anzi, al modo della ragione; che io non me ne diparto mai.
Valerio. A punto!
Messer Cesare. Lasciamo andare queste parole. E dimmi: Flamminio è pure andato a cena con Fabrizio, è vero?
Valerio. Che sarebbe, quando ben fosse a cena con Beatrice?
Messer Cesare. Sarebbe che io non gliel comportarci mai.
Valerio. Perché?
Messer Cesare. Perché a lui non si convengono queste trame.
Valerio. Voi mi farete morir disperato. A voi fate lecito l’amare, che séte vecchio; e non volete che egli molto piú si convenga a Flamminio, che è giovane. Oh che belle ragioni sono le vostre!
Messer Cesare. Piano un poco, di grazia, messere. Io ti dico che, quando bene io fossi caduto in uno errore, non voglio lassar cadervi il figliuolo.
Valerio. Prendete essempio a misurar gli altrui falli col vostro proprio.
Messer Cesare. Tu non mi vuoi intendere e sempre hai piacer che io gridi.
Valerio. Non accadono gridi; che egli è troppo da bene il vostro figliuolo, troppo buono, troppo costumato.
Messer Cesare. Fia per lui. E, se egli sará tale, non tralignerá punto dallo antico delli avoli suoi i quali furono sempre magnificili, virtuosi ed estimati tanto quanto altri gentiluomini di Roma.
Valerio. Avanzerá l’onore.
Messer Cesare. Pur che egli giunga a questo segno, mi contento.
Valerio. Egli è giá lá.
Messer Cesare. T’ha egli detto che tu vada per lui?
Valerio. Messer no.
Messer Cesare. Farebbe egli pensiero di starvi la notte?
Valerio. Penso che si.
Messer Cesare. A me non piace; né voglio che vi stia.
Valerio." Se vi stará, come farete voi che egli non vi sia?
Messer Cesare. Va’, or ora, per lui e di’ al signor Fabrizio che me lo rimandi, che io non voglio che il mio figliuolo s’avezzi a dormire le notti fuori di casa; che talora egli mi potrá dare ad intendere d’essere a cena con lui, o col tale gentiluomo, e sará con le Maddalene o con le Angele. Non gliel voglio comportare a modo niuno. Vanne.
Valerio. Voi sete il sollecito padre! Ma, se non temete che egli vi torni a casa gravido, non abbiate paura d’altro; perché io vi so render certo che il vostro Flamminio ha le labra ancora tinte di latte né sa quello che sia amor di donna.
Messer Cesare. Né mi curo anco che egli il sappia di qui a gran pezza.
Valerio. Cioè, allora che sará nella etá che siete voi.
Messer Cesare. Basta mò. Io t’assicuro che gli amori delle puttane son rasoi che scorticano la pelle e veleni che attoscano il cuore. Siano lontane dal mio figliuolo queste fiamme.
Valerio. Avete lassato un punto.
Messer Cesare. Aspetto d’intenderlo.
Valerio. Che elle scannano le borse e fanno loro uscir fuori l’anima.
Messer Cesare. Il peggio è, al mio parer, della vita e dell’onore che delle borse.
Valerio. L’onore e la vita sono a punto quelle cose che si stimano meno, a questi di; e, se vedete uno che non si dolga della borsa quando una puttana glie ne scanna, abbiate per cosa ferma che molto minor stima fará costui dell’onore e meno si dorrá, perdendolo.
Messer Cesare. La vita ove lassi tu?
Valerio. Cotesto è un passo un poco duretto. Tuttavia pensate che, se l’uomo avesse in quel conto la vita che si dee avere, non la metterebbe tuttodí a pericolo cosí scioccamente per una femina come egli la mette e amarebbe piú sé medesimo che altri. Ma ecco il vostro fedele; ecco lo armaio de’ vostri secreti.
Messer Cesare. Tu va’ per Flamminio; e non star piú.
SCENA V
Ciacco, Messer Cesare, Valerio.
Ciacco. Valerio, dice Flamminio che tu vada a lui.
Messer Cesare. Adesso saprò la veritá. Ciacco, vien qui. Ove è il mio figliuolo?
Ciacco. Lontano di qui.
Messer Cesare. Dove?
Ciacco. Volete ch’io vel dica? In prigione.
Messer Cesare. In prigione? Parti il mio figliuolo uomo da mettersi in prigione?
Ciacco. Se il governatore l’ha fatto metter, parmi che si.
Valerio. Oh che ghiotto fino!
Messer Cesare. E perché l’ha egli fatto mettere?
Ciacco. Per cagione di certe arme.
Messer Cesare. Come per cagione di arme? Un gentiluomo non può portar, la notte, le sue arme?
Ciacco. Voi intendete.
Messer Cesare. Questo impiccato di Valerio m’avea dato a credere che egli era a cena col signor Fabrizio e che devea restarvi a dormir la notte. Io sono scappato. Non dovea correr si innanzi, se io volea saperne il vero.
Valerio. Volta carta.
Ciacco. Io scherzo, padron dolce. Cosí è come ha detto Valerio. Egli è a casa del signor Fabrizio, dove s’è redotta una brigata di gentiluomini che si intratengono sui piú belli ragionamenti del mondo, cioè di lettere e di poesia; e ho udito dire che v’è anco il Molza. Che volete piú?
Valerio. Oh che forca!
Messer Cesare. Queste non son novelle da pigliarsi a scherzo, Ciacco. Tu m’hai fatto riscaldar tutto.
Ciacco. Corri per la camisa, Valerio, che il sudore non penetrasse nell’ossa.
Valerio. Va’ e deleggia i pari tuoi.
Messer Cesare. Il sangue mi s’è aghiacciato.
Ciacco. Come sarete appresso Livia, egli ritornerá tutto di fuoco.
Messer Cesare. Tu m’hai inteso.
Ciacco. Se io v’ho apparecchiato per questa notte un mar di dolcezza, non vi posso io dare un poco d’amaro, burlando?
Messer Cesare. Puoi far di me come di cosa tua. Or dunque va’ per lui, Valerio. E se, per caso, il signor Fabrizio volesse che egli vi rimanesse, fagli la imbasciata mia.
Valerio. Padrone, io il dirò pure, si ben v’andasse la vita. Voi avete perduto il cervello.
Messer Cesare. Che ti par, Ciacco, della libertá che hanno meco i miei servidori galanti?
Valerio. Intendete s’egli è cosi.
Messer Cesare. Vuole ancora allegarmi le ragioni!
Valerio. Ora voi ve n’andate in corso. La padrona mia è nel letto con un sacco di febbre addosso. Camilla è garzona e non ha tutto quello intelletto che le bisognarebbe avere. Se io mi parto, chi volete che resti in guardia della casa? Parvi che sia da fidarsi la giovane al governo d’una fante?
Messer Cesare. Sapeva bene io che costui fuggiva di far quattro passi perché il buono uomo ha paura di non dormir questa notte. Ma voglio che tu vi vada, intendimi tu?
Valerio. Io ve andrò; e, avengane che può, il danno sará vostro.
Messer Cesare. Va’ pure.
Ciacco. I servidori hanno essi a essere padroni?
Valerio. Va’ alle forche, tu.
Ciacco. Il cane è rabbioso. Bisogna incatenarlo o ucciderlo.
Messer Cesare. Orsú! Non star piú. E odimi.
Valerio. Che ci è?
Messer Cesare. Se egli volesse portar la spada, digli che la ponga giú.
Ciacco. Ah! ah! Temete della pregione?
Messer Cesare. Che so io? Non vorrei avere a gridar col governatore o a pregare il papa.
Ciacco. Sarebbe egli qualche plebeo?
Messer Cesare. Pare a me che non si conoscano molto i gentiluomini dai plebei, a questo tempo.
SCENA VI
Messer Cesare, Ciacco.
Messer Cesare. Costui se n’è andato. Ciacco, al fatto nostro. Hai condotta la mia signora lá giú?
Ciacco. Pensate che io stia a dormire?
Messer Cesare. Che perdiamo noi, adunque, tempo? Andiamvi.
Ciacco. Sapete ciò che io vi voglio prima dire?
Messer Cesare. Non giá.
Ciacco. Bisogna che, per questa volta, usate con esso lei un poco d’onestá; perché la fanciulla, come sapete, è vergine e la piú vergognosa non vidi a’ miei di.
Messer Cesare. Paioti io cosí sfrenato?
Ciacco. Dico che, dove voi credereste avanzare, perdereste di largo e le cadereste forse in odio: perché io le ho detto di voi tutto quel bene che se ne può dire e pensare; e con gran fatica e con artificio mirabile l’ho condotta a tal passo. E, sopra tutto, m’è convenuto farle mille sacramenti che, se ella non vorrá, voi non le usarete forza.
Messer Cesare. Forza? Io non voglio da lei se non quanto ella vorrá, né piú né meno. Che bisognano parole? Il mio voler sará congiunto col suo.
Ciacco. Sta bene. Non accade, adunque, dire altro. Voi sapete chi ella è. Andianne.
Messer Cesare. Andianne, Ciacco gentile. Ma lascia che io dica prima alla fante che tenga ben serrato l’uscio.
Ciacco. Dite.
Messer Cesare. Dálie tu una voce.
Ciacco. No, no. Chiamatela pur voi, che, se madonna mi sentisse e conoscessimi, subito sospettarebbe di trama d’amore. Sapete bene che io non le sono molto in grazia.
Messer Cesare. Madonna ha un buon tempo e non sei conosce.
Ciacco. Tale ne abbiano tutte le altre.
SCENA VII
Messer Cesare, Caterina, Ciacco.
Messer Cesare. Caterina! Caterina! Tu non m’odi, asina?
Caterina. Che volete, padron caro?
Messer Cesare. Terrai chiavato quest’uscio. E, se madonna ti domanda di me, dille che io son nel letto, intendimi tu?
Caterina. Messer si.
Messer Cesare. E guarda che non ti venga sonno negli occhi per insino a tanto che Flamminio ritorni; che ho mandato testé Valerio per lui né indugeranno molto a venire. E, sopra tutto, non ti partir da Camilla.
Caterina. Se volete che io vada ad aprire a Flamminio, non converrá partirmi da lei?
Ciacco. Ah! ah! È de gentile ingegno, costei, se ben è losca d’un occhio.
Messer Cesare. Tu m’hai inteso.
Caterina. Benissimo.
Messer Cesare. Or chiava l’uscio.
Ciacco. Egli è meglio che noi prendiamo quest’altra strada.
Messer Cesare. Sia al modo tuo.
SCENA Vili
Caterina fante, Camilla.
Caterina. Andate pur, padrone; che io vi so dire che, alla tornata vostra, non trovarete Camilla. Qualche pazza si starebbe con le mani a cintola, spettando d’oggi in domani «il padre mi maritará». Il quale è tanto perduto dietro a questi suoi amori che non si ricorda di se medesimo. Camilla, figliuola» le cose non potevano andar meglio, poi che quel manigoldo di Valerio ci s’è tolto da’ piedi. A me paion mill’anni di veder come ti campeggiano indosso quegli abiti di maschio. E non è egli da tardare. Va’ e cambia tosto panni. Ma chi è colui che esce di lá? Parmi il tuo amante. Si, è. Vatti a vestire.
Camilla. Lassa che io il vegga.
Caterina. Lo vedrai poi a tuo bell’agio quanto vorrai. Non indugiar piú, che, fra questo mezzo, potrebbe venire il fratello e quel ladro insieme di Valerio che è nimico del nostro bene.
SCENA IX
Spagnuolo, Caterina.
Spagnuolo. Anima mia! Reina di questo cuore! Non era quella la mia signora? Dico a voi, madonna. Non era quella l’anima mia?
Caterina. Si, era, messere.
Spagnuolo. Perché è ella cosí sparita?
Caterina. È ita a vestirsi i panni che le avete mandati.
Spagnuolo. Non poteva ella venirsene nell’abito in che si trovava?
Caterina. Le sará piú commodo a venirsi in quest’altro.
Spagnuolo. Oh Dio! che ogni indugio potrebbe essermi d’estremo danno.
Caterina. Verrá or ora. Io vo a lei. Passeggiate qui d’intorno.
Spagnuolo. Dille, di grazia, che fornisca tosto e non lassi fuggirsene questa bella occasione.
Caterina. Adesso sarò a voi. Perdonatemi se io vi chiudo l’uscio inanzi.
Spagnuolo. Questo importa poco, pur che Sua Mercede venga tosto. Commedie del Cinquecento - 11. 17SCENA X
Spagnuolo solo.
Amore, sia da me sempre ringraziata la tua pietá. Non averrá mai che io mi lamenti piú di te né di Fortuna. Egli è pur vero che ora mi trovare appresso la mia cara Camilla senza cui aveva fatto pensiero di piú non vivere. Fia dunque dono d’amendue voi questa mia vita. Per ciò non sará noia di spenderla nei tuo’ servigi, Amore; e di te, Fortuna, benedirò sempre le forze grandi, dove ch’io sia. Non ti chiamarò piú ingiusta, come pur ora io faceva. Ad ogni ora ti lodarò. E cosí debbo. Benedetti siano i dolori, le pene, i tormenti e i molti guai che io ho patito amando, poi che ora mi s’apparecchia cosí caro e felice guidardone; benedetti i sospiri e le lagrime che mi sono usciti del petto e di quest’occhi; benedette le notti che io ho trapassato in vigilie e in lamenti, poi che tale dee essere il premio della servitú mia. Ma ecco che s’apre l’uscio; ecco che appare il cuor mio.
SCENA XI
Camilla, Caterina, Spagnuolo. Camilla. Signor, io metto nelle vostre mani l’onore e la vita, che altre gioie non ho piú care.
Caterina. Amore, quanto è il poter tuo! Costui non può formar parola: cotanta è la dolcezza che egli prende di vedersi inanzi la donna sua! Oh che soavissimi basci!
Camilla. Questo è troppo, per ora, signor mio. Non ci lasciamo coglier qui.
Spagnuolo. Imperadrice di questo cuore, poi che la vostra cortesia è tanta che mi fa degno dello amore che io, lungo tempo, mi sono affaticato d’acquistare, l’obligo mio è di si fatta grandezza che, quando io morissi per voi, sono ben certo che non ne arei pagato una minima parte. Per ciò voi disporrete di me quanto vi sará in grado, che la servitú mia non è per finirsi se non per morte. Né giudicare che possa esser mio onore dove non sia il vostro; né mia vita senza la vostra.
Caterina. Parole dolci e inzuccherate.
Camilla. Signor mio, ove mi condurrete voi?
Spagnuolo. Dove v’ho io a condurre, anima mia, se non in quella casa la quale ha ad essere perpetuamente vostra, dovendo voi sempre viver con meco ed io con voi?
Camilla.- Non si tardi piú, adunque.
Caterina. Domenedio vi benedica con la sua mano.
SCENA XII
Caterina sola.
Da che tutti hanno a darsi buon tempo e sono su le imprese d’amore, ora, che io mi veggo un bel tratto, che sto io a indugiar, prima che torni Valerio e Flamminio, a prender ciò che io posso e sgomberare? Perché, tosto che ’l padrone ritornerá dalla caccia amorosa, non trovando in casa Camilla, come anderanno le cose? Egli mi vorrá isquartare: come se io n’avessi tutta la colpa, di questo fatto! e non fosse egli molto piú avvenuto per la sua dapocaggine, che è impazzito dietro le femine e non prende cura di maridar la figliuola, quasi che ella non fosse di carne. Io dico che, se gli uomini sono uomini, e le donne sono donne. O vecchio pazzo, prendi il guadagno che tu ne arai. Io, per me, non vorrei che al ritorno egli vi trovasse per insino alla casa. Ma che sto io a fare? Ho forse bisogno di consiglio? poi ho udito dire ch’egli è gran senno a tórsi del bene quando Domenedio ne manda altrui.
SCENA XIII
Messer Ascanio, fratel della madre di Livia, solo.
Io credo che, insino a quest’ora, l’uccello ara dato del capo nella rete. Pensavasi forse Flamminio d’aversi, con le spesse ambasciate e con le lunghe sollecitudini, acquistata Livia per concubina? Le cose aranno un altro fine.
SCENA XIV
Caterina, uscita di casa, con argenti e altre cose nelle mani. Questi, una fiata, saranno miei. Ho bene io appostato luogo dove non sarò scoperta d’alcuno. Giovami che ci so essere quando io voglio e che Ciacco mi ama. E, quando tutto mancasse, cambiati gli argenti in oro, mi partirò di Roma. A ogni modo, non ci si può vivere. Io n’andrò a Vinegia dove forse Domenedio mi manderá delle venture; e so che, avendo qualche denaio, non mi mancare marito; e odo dire che egli è buon vivere a Vinegia e che lá sono i veri gentiluomini. Questi non hanno a far con loro né gli vanno appresso delle miglia piú di cento e millanta. Addio, casa. Io mi ti raccomando.
SCENA XV
Camilla sola.
Ahi lassa me! Quanto brieve è stata la felicitá mia! Anzi, come bene son nata al mondo per non esser mai felice! Che dico felice? Anzi, pure senza lagrime un giorno solo. Ora, che era venuto quel tempo che io piú che ogn’altro disiderava, quel tempo nel quale io devea trovarmi nelle braccia del signore mio, seguendolo, a pena m’era allontanata di qui, che ci troviamo nel mezzo di cento spade; né sentimo dire altro che «taglia» e «amazza». Io, si per lo insolito incontro come per la naturai timiditá dell’animo fé minile, sentendo il romore e vedendo fulminar tante spade, dirò il vero, scordandomi ogn’altra cosa, mi diedi a fuggire; né sono restata di correre insino a tanto che io son giunta qui; né so che cosa sia avvenuta del mio signore. Onde quanta sia la passion mia la sente questo cuore. Ahi lassa me, infelice e misera! Che farò io? Debbo io tornare in casa del padre mio? Questo non fia giá mai. Che far debbo, adunque? Andar dove? Dch! Trovassi io almeno chi m’insegnasse la strada! che andrei al palazzo del cardinale e intenderei qualche cosa; saprei se il mio signor avesse ricevuto alcun dispiacere; e tanto l’attenderei che o ne tornarebbe egli o io ne udirei novella. Per quello che a me parve di vedere, mostravano coloro d’esser tra loro azzuffati, non di voler fare oltraggio a noi. Pure, la paura non mi vi lasciò fermare o prender con esso lui la strada altrove. Ma ecco male sopra male. Ecco Valerio. Avengane il peggio che può, piú tosto mi lasciarci isquartar viva che far ritorno in casa del padre mio.
SCENA XVI
Valerio, Camilla.
Valerio. Ecco, ecco il ragazzo di quello sgraziato spagnuolo. Egli de’ avere appostato questa ora, giá piú d’un mese, col parasite Ben lo conciarò io di maniera che non ci tornerá piú. Che passeggi tu qui intorno, a quest’ora, impiccato? Finge di non mi udire e rivolge i passi. Vien qui, furfantello! Fermati! E levati quel mantello dal volto; che hai a far conto meco, se noi sai.
Camilla. Dch! Vanne per la tua via, uomo da bene; e non ti curar di vedermi, che io non ho a far conto teco né poco né molto.
Valerio. Vedi atto di presontuoso! Levati quella cappa d’intorno al volto; e non mi rivolger la schiena, che ancora non mi par tempo di adoperarvi il bastone.
Camilla. Ti dico che tu vada al tuo camino, m’hai inteso? io.
Valerio. Che! Non ti scoprirò io?
Camilla. Togliti di qua, tristo che tu sei! Tu mi vuoi assassinare nella strada?
Valerio. Oh Dio! oh Dio! Che è quel che io veggio? Non è questa Camilla?
Camilla. Che parla costui di Camilla? Tien pure mente che ei mi vorrá battezzar femina, per trovare piú apparente colore di menarmi seco!
Valerio. Oh povera pazzarella! Cotesto è l’onore che fai al tuo sangue nobile? coteste sono le allegrezze che apparecchi al tuo padre? chi t’ha condotto fuor di casa in questo abito? Vedi con quale occhio mi guarda! Ove pensi di andar, misera? Ritorna a casa, ritorna; poi che ventura m’ha qui mandato a tempo. Ritorna, prima che il tuo padre se ne accorga; e, fin e’ hai tempo, reggi la tua pazzia. Oli meschina te! Ancora non ti muovi?
Camilla. Chi non riderebbe delle fole di questo uomo? Chi sei tu? quando ti conobbi io mai? o quando conoscesti tu me per femina? Tu sei pazzo, poverino, o ebbro; o forse fernetichi. Femina io? Dio me ne guardi!
Valerio. Ecco onestá di donzella, parole di savia!
Camilla. Pazzo sei tu. Quante volte vuoi ch’io lo ti dica?
Valerio. Ora io vorrò vedere quali averanno maggior forza, o le tue parole o le mie braccia.
Camilla. Che di’ tu, gentiluomo?
Valerio. Odi. Comprendo chiaramente che tu non hai intelletto e che, a usar teco ragioni, sarebbe un perder di voluntá. Io, per far l’ufficio di buon servitore, voglio adoperar la forza.
Camilla. La forza? Tu saprai quello che importa forzar le persone.
Valerio. Che! Non ti farò io tornare in casa?
Camilla. Ah ribaldo! Tu mi strascini? che vuoi tu da me?
Valerio. Tornavi per bontá, che lasciarò le forze.
Camilla. Io ti strangolarò, reo uomo che tu sei. Mi vuoi far forza?
SCENA XVII
Spagnuolo ritornato, Camilla, Valerio.
Valerio. Ah cielo! Come, in una brieve ora, si vanno cangiando gli affetti d’Amore e di questa manigolda Fortuna. Ora avea meco il mio bene e ora l’ho perduto. Ahi lasso! Da qual parte incominciarò io a lamentarmi? Ma non è quella la signora mia? Ah tristo me! Che vuol fare di lei quel ribaldo? A tempo io giungo.
Camilla. Ecco chi viene a mia difesa, lodato sia Iddio. Vedete audacia di poltrone! Vedete, signore.
Valerio. Cotesto è il tuo nobile amante. Oh misera te! Ti fo la croce.
Spagnuolo. Aspetta, ladro, traditore! Ove fuggi tu?
Camilla. Signore, lasciatelo andare, che ringraziato sia Iddio del mio vedervi sano e libero dalle mani di coloro. E, poi che^ la ventura ci ha raccongiunti insieme un’altra volta, non aspettiamo che la disgrazia ci diparta piú.
Spagnuolo. Io veggio ben che i nostri congiungimenti sono descritti in cielo; ed oggimai prendo fede che accidente contrario non ne potrá disgiunger mai.