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atto secondo | 243 |
SCENA VII
Flamminio, Ciacco.
Flamminio. Tu vedi, Ciacco, se poteva peggior sventura mandarmi la disgrazia che farmi oggi due volte abbattere in costui. Me n’era sbrigato poco dianzi. Ora un’altra volta ella me l’ha mandato tra’ piedi affine che se gli facesse aperto quello che io avea saputo asconder benissimo infino a questo di.
Ciacco. Pensi tu che esso abbia inteso il tutto?
Flamminio. Cosí non ci fosse egli al mondo!
Ciacco. Tu gli hai fatto turar la bocca di maniera che non osará dirne parola al vecchio; e, quando bene glie ne dicesse, che fia per questo, che non sa di qual giovane abbiam parlato?
Flamminio. Anzi, si, sa; che dicesti chiaramente «Livia».
Ciacco. Conosce egli Livia?
Flamminio. Basta saperne il nome e dirlo a mio padre che poi verrebbe prestissimo a cognizione del tutto. Cosí sarei caduto dalla cima d’ogni felicitá al fondo d’ogni miseria.
Ciacco. Non glie ne dirá mai; stanne sicuro. E, posto che glie ne dicesse, il mio cervello provederá al tutto. Orsú! Hai inteso l’ordine e l’ora. Io mi voglio partire.
Flamminio. A rivederci, adunque.
Ciacco. A rivederci. Odi, Flamminio. Quando arai avuta la buona notte, ricorderá ’ti di me?
Flamminio. Se io mi ricordarò?
Ciacco. Quando sarai nelle allegrezze, dirai: — Chi mi vi ha fatto essere altri che Ciacco? — E questo basterá, allora, in parte.
Flamminio. Ben ti lodarai dell’opera mia. Per ora, che mi comandi tu?
Ciacco. Che tu ponga mente di dar l’assalto alla ròcca cosí destramente che la fanciulla non perisca.
Flamminio. Non ti dubitare, che non ne muore niuna in cosi fatti assalti.
Ciacco. A rivederci domani.
Flamminio. Domani o un altro di.