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atto secondo | 227 |
Giacchetto. Come! Parlate voi seco ancora e poi vi lamentate della fortuna?
Spagnuolo. Le lettere che io tengo sempre appresso il cuore, formate da quella bella e bianca mano sono, in vece di ciò, ricetto di care e dolci parole.
Giacchetto. Padrone, voi parete nato e cresciuto a Fiorenza, tanto avete ben la lingua e proferitegli accenti!
Spagnuolo. Non è maraviglia, che da fanciullo ho speso il mio tempo in Toscana e qui in Roma col cardinale mio zio. Ma tu è pur ora solamente che te ne sii accorto?
Giacchetto. Non dico per questo, signore, ma perché ancora io mi diletto di leggere il Boccaccio e l’ho tutto a mente. Ma tornate pure alla signora.
Spagnuolo. Che giova a me, Giacchetto, che ella m’ami, se, dall’altra parte, la mia maladetta fortuna mi toglie di poter raccogliere il frutto dell’amore che io conosco certo essermi portato da lei?
Giacchetto. Cotesto sarebbe un altro che.
Spagnuolo. Io sono a punto a quella condizione che saresti tu, se, posto alla tavola del cardinale...
Giacchetto. Che Dio me ne guardi.
Spagnuolo. ... alora che vi fossero in maggior copia i fagiani, le starne ed i saporetti, sopragiungesse chi ti legasse le mani di dietro per si fatto modo che convenisse startene a bocca chiusa.
Giacchetto. Voi dite le gran cose, padrone. Non sapete voi che Domenedio dice: «Aiutatevi voi, che v’aiutarò io»? come ben farei, se io avessi legate le mani; e come invero dovereste far voi. E poi non si dice che «col tempo si raccoglie il grano»?
Spagnuolo. Io non voglio per ciò disperarmi affatto, che, se Ciacco non mi burla, questa notte avrò il premio della mia lunga e fedele servitú a dispetto delle ingiurie della fortuna.
Giacchetto. Vi sento pur dire al modo mio.
Spagnuolo. Taci, che mi pare sentir non so che.
Giacchetto. Odo una musica nuova.
Spagnuolo. A me pare la voce di Ciacco.