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atto secondo 233


Spagnuolo. Facciasi come tu vuoi, pur che io abbia Camilla.

Giacchetto. Come «facciasi»? Io dico ch’io non voglio.

Ciacco. Perché non vuoi?

Giacchetto. Perché, ahn?

Ciacco. Perché, si?

Giacchetto. Tosto che il vecchio s’avederá che io son maschio, come andrá il fatto?

Ciacco. Temi tu che egli ti tagli a pezzi?

Giacchetto. Io dico che tu non mi ci corrai. Padrone, qui c’è arte. Poneteci mente.

Ciacco. Che arte?

Giacchetto. Tu sei d’accordo col vecchio; e vuoi uccellar me col mio padrone, a un tratto.

Spagnuolo. Può far la ierarchia degli angeli che tu non tacerai?

Giacchetto. Se appartiene a me, non volete che io parli?

Spagnuolo. Temi tu d’essere svirginato?

Giacchetto. Svirginato non giá; bastonato si bene. E pure che non m’avenisse peggio.

Spagnuolo. Poverino!

Ciacco. Odi, Giacchetto. Tu non sarai conosciuto per maschio, quando vorrai osservar quello che t’insegnerá questa testa. E, posto che si, io sarò lo incolpato, non tu.

Giacchetto. Io ti dico che tu sarai lontano e io in fatto; tu alla colpa e io alla pena.

Ciacco. Non temere, che il cardinale fará venire una indulgenza dal papa che ti as/olverá di colpa e di pena.

Giacchetto. Burle! Io so bene il fatto mio.

Spagnuolo. Orsú! Io voglio che tu ci vada.

Giacchetto. Voi mi potete sforzare.

Ciacco. Che téma è la tua? Io so bene che saprai molto ben fingere la donzella nel guardare, nel parlare e negli atti e, quante volte esso ti vorrá metter le mani nel seno o altrove, spingerlo a dietro e mostrar di volerti partire. Di me, che tu di’ che sarò lontano, non dubitare; che m’avrai sempre appresso