Il ragazzo/Atto I
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ATTO I
SCENA I
Messer Cesare vecchio, Valerio famiglio.
Messer Cesare. In fine, quando io vo bene tra me stesso discorrendo, io trovo che Amore è gran signore. Valerio. «Gran pazzo» era piú bel detto. Messer Cesare. Che dice costui? Valerio. Io dico, padrone, che egli ha una sorella che lo avanza di signoria e ha maggior copia di cavalieri che la cortégiano. Messer Cesare. Questo io non ho piú inteso. E come si chiama ella? Valerio. La signora Pazzia; la quale non è pur solamente sorella, ma corpo e anima di Amore. Messer Cesare. Tu vói inferire che gli innamorati son pazzi f è vero? Valerio. Non tutti, ma una parte. Messer Cesare. Adunque, il tuo dire non tocca a me? Valerio. Io stimo che tocchi piú a voi che ad altri. Messer Cesare. Fa’ un poco di distinzione. Qual sorte d’innamorati intendi tu che sian pazzi? Valerio. I vecchi pari vostri. Messer Cesare. Adunque, tu di’ ch’io son pazzo? Valerio. Pazzo no, che sarebbe troppo; ma dico che Amore ha fatto del vostro intelletto il medesimo che e’ suol fare di quello degli altri vecchi. Messer Cesare. Parti che un servitore debba col suo padrone favellare a cotesto modo? Commedie del Cinquecento - il. 14
Valerio. Volete che io parli piú corretto?
Messer Cesare. Tu fosti sempre scorretto per insino da fanciullo.
Valerio. Tutti gli innamorati son pazzi; e i vecchi molto piú.
Messer Cesare. Sai tu come egli è? Ti cacciarò alle forche.
Valerio. I ladri meritano le forche, non il vostro fedel servitore.
Messer Cesare. La tua lingua ti fará venir peggio, ribaldo presentuoso che tu sei!
Valerio. Padrone, ben so io che oggi chi non è adulatore è tenuto arrogante e tristo. Ma io amo meglio l’onore e ’l ben vostro senza la grazia che la grazia con la vergogna e col danno. Forse che, a qualche tempo, imparerete a conoscermi.
Messer Cesare. Costui è divenuto filosofo.
Valerio. Io vi dico, padrone, né restarò di dirlo per minacce, che a un vecchio, e come séte voi, non si convengono gli amori.
Messer Cesare. Ah! ah! Il mio maestro!
Valerio. Ve ne ridete e dovereste piangere, considerando che séte in etá di sessanta anni e avete moglie assai fresca donna, un figliuolo d’anni diciotto e una figliuola giá da marito: la quale... Ma non voglio dir piú avanti.
Messer Cesare. Non metter la lingua nel mio onore, che, per Dio, te ne pentirai.
Valerio. Bella cosa che s’abbia a dir per Roma...!
Messer Cesare. Taci, se non che mi farai divenir teco pazzo da vero. Valerio. Chi potrebbe tacer che la figliuola del piú ricco gentiluomo...
Messer Cesare. Orsú! Lo voglio dire io. Una di queste sere, essendo in camera di mia figliuola, sentii percuoter non so che su la finestra; e, guardando ciò che poteva esser quello, vi trovai una lettera, legata insieme con certa pietricella, la quale mostra che un certo Carlo spagnuolo cortigiano di Santa Croce abbia scritta a Camilla mia. È egli si gran fatto, questo?
Valerio. A me dee parer nulla, se a voi par picciolo. Aprite gli occhi, padrone, e racordatevi d’esser padre e nell’etá nella quale dovereste insegnare ad altri.
Messer Cesare. Valerio, attendi a fare l’ufficio tuo; e di quello che mi s’appartiene lasciane, un tratto, il pensiero a me.
Valerio. Potess’io farlo senza passione!
Messer Cesare. Se tu m’amassi, non cercaresti di dileggiarmi ma faresti ogni cosa per aiutarmi in questo amore.
Valerio. Dch! Riguardate al fatto vostro e non vi lasciate portar dove poi non ci vorreste essere.
Messer Cesare. Amore ha vinto spesse fiate di maggiori cervelli che ’l mio non è. Ma tu, che sei grosso, non comprendi i miracoli ch’egli sa fare.
Valerio. Il maggior miracolo che mai facesse Amore pare a me che sia lo avervi levato il cervello a tempo che piú n’avevate di bisogno. E perdonatemi se io dico il vero.
Messer Cesare. Togli miti dinanzi, asino temerario! che, per lo corpo di...
Valerio. Alla buon’ora! Ve n’avederete al fine.
SCENA II
Messer Cesare solo.
Ora che io son rimaso solo, per confessare il vero, il mio Valerio m’è stato sempre fedele e sempre m’ha consigliato bene ed ha piú ingegno di quello che può trovarsi ne’ suoi pari. Ma chi è innamorato è nimico de’ consigli; e, quando l’uomo è caduto nel male, non gli fa bisogno di riprensione ma di medi-cina. Ma, lasciando questo da parte, dove troverò io quel ghiotto di Ciacco il quale solo può condurre a porto l’amoroso mio disiderio? E pure ieri mi promise di essere oggi meco a quest’ora. Eccolo a punto.
SCENA III
Messer Cesare, Ciacco parasito
Messer Cesare. Ben venga il mio caro e da ben Ciacco.
Ciacco. Sia ben trovato il mio cortese signore. Oh che bell’aria! che aspetto da imperadore che è questo vostro d’oggi! A fé, signore, che voi ringiovanite come fa l’elefante.
Messer Cesare. Ah! ah! Tu vuoi dir la fenice.
Ciacco. Signor si, la fenice.
Messer Cesare. Tanto è, non fu troppo errore. Ma lo amore che mi porti fa vedere in me quello che vorresti, non quello che si vede; perché ti so dire ch’io sto male.
Ciacco. Come male? Sono gli amalati di questa qualitá?
Messer Cesare. Il mio male è di dentro.
Ciacco. Sono piú sorti di mali: febbri, catarri, doglie di fianchi, torcimenti di stomachi, mal di rene e si fatti.
Messer Cesare. Ve n’ho un altro peggior di tutti.
Ciacco. Avea lasciato le podagre, la scabbia, il francese e la peste.
Messer Cesare. Sappi, Ciacco mio, che questi mali e’ hai detto si possono addimandar beni a comparazione del male che mi tormenta.
Ciacco. San Pietro e san Paolo, orate pro vobis. Io mi voglio discostar da voi.
Messer Cesare. Sta’ fermo, che ’l mio male non si prende per essermi presso né per toccarmi.
Ciacco. Dite, adunque: che nome ha egli?
Messer Cesare. Vorrei dirlo e non dirlo.
Ciacco. Di chi prendete voi vergogna?
Messer Cesare. Di me medesimo.
Ciacco. Di voi? Ditelo; che io vi fo intender che, per tacer, si muore. Ditelo a me.
Messer Cesare. A te son contento.
Ciacco. Ditelo, adunque.
Messer Cesare. Amore è il male che mi tormenta.
Ciacco. Ah! ah! ah!
Messer Cesare. Ciacco, tu te ne ridi?
Ciacco. Non volete che io rida, intendendo che il vostro male sia amore? Ed io pensava ch’ei fosse uno di que’ gran morbi orribili ai quali non si trova medicina!
Messer Cesare. Non ti pare, adunque, che amore sia della qualitá che io t’ho detto?
Ciacco. Anzi, a me par tutto il contrario; che amore è la piú dolce cosa e la piú melata del mondo. E dimandatene a quei piccioli animaletti che muoiono in sul buco.
Messer Cesare. Dolce cosa sarebbe a trovarmi nelle braccia de...
Ciacco. Della morte?
Messer Cesare. Della morte? Ah Ciacco!
Ciacco. Della morte, si; che sareste fuori di tanti tormenti, se amore è cosí mala cosa come dite.
Messer Cesare. Sallo chi ’l pruova come fo io.
Ciacco. Ora, padron dolce, ho inteso il vostro male; e me ne duole, invero. Ma come farete voi a guarirne?
Messer Cesare. Il medico puoi esser tu, Ciacco caro, amandomi: ancora che tu non abbi studiato mai, per quello ch’io sappia, né Ipocrasso né Avicenna né Galieno.
Ciacco. Anzi, porco grasso, vino a cena e corpo pieno è stato sempre il mio studio. E, in tal dottrina, non è niuno che possa comparer meco.
Messer Cesare. Se mi guarisci, tutti i porchi che si amazzaranno in Roma, questi tre anni, saranno per tuo conto.
Ciacco. Se ciò avesse effetto, non mi accorderei con lo imperadore. Ma che volete che io faccia? Quando io fossi l’amorosa, tosto vi metterei nel paradiso di Adamo; e cosí tornereste sano e allegro.
Messer Cesare. Altri non me vi può metter che tu.
Ciacco. Eccomi apparechiato. E, se io saprò come poterlo fare, vi lodarete di me. Benché, mi maraviglio che un par vostro stia di mala voglia per dubbio di non ottener ciò che desidera.
Messer Cesare. Fratel mio, quando io fossi in quell’essere nel quale era, giá trentasei o quaranta anni, io non dubitarci di avere in ogni cosa l’intento mio: che mille belle e gentili madonne impazzirono giá del mio amore. Ma, come tu vedi, io son vecchio; e le giovani vogliono i giovani.
Ciacco. Egli è vero. Ma voi avete un’altra cosa che vale molto piú che non vagliono le bellezze e le giovenezze.
Messer Cesare. Che? la virtú? Non si ama virtú, oggidí.
Ciacco. Virtú ove si soffia alle noci! Altro intendo io.
Messer Cesare. Il sangue nobile?
Ciacco. Meno.
Messer Cesare. Che cosa è, adunque, ella?
Ciacco. L’esser ricco, lo aver danari. M’intendete voi? f Messer Cesare. Sentenza divina.
Ciacco. State, adunque, sicuro di piegare alle vostre voglie le colonne, non che le donne.
Messer Cesare. Questo è quel poco di speranza che mi tiene in vita.
Ciacco. Dubitatene voi? È forse reina o imperadrice quella che amate?
Messer Cesare. Colei che io amo è gentildonna romana, fanciulla e sottoposta a madre.
Ciacco. Se la figliuola fosse l’Ancroia e la madre la fata Morgana, l’arete, avendo la borsa piena.
Messer Cesare. Oh che nuova similitudine!
Ciacco. Io ne so le migliaia a mente. Ma voi mi parete uno di quelli che aspetta che il confessore gli addimandi i peccati. Chi è questa vostra amorosa? Volete voi ch’io vi cavi le parole di bocca con le tenaglie?
Messer Cesare. Non è uomo in Roma che meglio la conosca di te; e tanto sei della casa di lei quanto la camiscia che hai indosso è tua.
Ciacco. Piacemi. Ma come si chiama?
Messer Cesare. Tu dovesti conoscer messer Fabio Cesarino.
Ciacco. Piú che tutti gli uomini del mondo. Oh che gentil signore! oh che cortese gentiluomo! Beato me, se costui aveva lunga vita! Benché, la medesima domestichezza che io ebbi in casa sua, quando egli vivea, ho io ora con madonna Agnela sua moglie; e ciò che non si crede a me non si crede ad altri.
Messer Cesare. Adunque, tu conosci la figliuola e hai compreso il mio amore.
Ciacco. Piú in lá di bene l’ho compreso. E dicovi Livia esser la piú bella, la piú gentile e la piú virtuosa fanciulla che abbia il nappamondo.
Messer Cesare. Non pensare che da altro che da cosa gentile fosse derivato il mio amore.
Ciacco. Il so. Ma parmi avervi data troppa sicurtá, non sapendo prima chi fosse costei. È ben vero che io tengo una ricetta in tasca che può guarire ogni infermitá.
Messer Cesare. Ah fratello! Tornami in vita.
Ciacco. Qui bisognano quattro cose: ingegno, sollicitudine, animo e ventura; e, sopra tutto, che non ci manchi il conquibus, che sapete bene che madonna Agnela è povera gentildonna.
Messer Cesare. Che vuol dire «conquibus»
Ciacco. Danari, vuol dire.
Messer Cesare. Io non son per mancare di danari, quando tu non manchi d’animo, d’ingegno e di sollecitudine. Ma come si fará ad aver la ventura?
Ciacco. Bisogna prenderla.
Messer Cesare. Ed in che modo si prende ella?
Ciacco. Con le reti d’oro.
Messer Cesare. Dunque, fa’ ch’io l’abbia; che felice e beato te! perché, oltra che la mia casa sará tua, potrai forse ancor tu tener cavalcatura e paggi.
Ciacco. So ben io che Vostra Signoria è magnifica e magnanima.
Messer Cesare. Ma come s’ha egli a fare questa opera?
Ciacco. Lasciatene la cura a me.
Messer Cesare. Bene. Ma andiamo alla mia casa; e, desinato che avrai, potrai discorrer sopra il fatto mio piú allegramente e con migliore animo.
Ciacco. Ben detto. Andiamo.
Messer Cesare. Ecco Flamminio mio figliuolo, insieme con Valerio, che esce di casa. Facciam quest’altra strada, che non vo’ che mi veggano.
Ciacco. O piú corta o piú lunga, pur ci giugneremo oggi.
SCENA IV
Flamminio giovane, Valerio famiglio.
Flamminio. Hai veduto, Valerio, il padre mio insieme con Ciacco?
Valerio. Gran fatto se io l’ho veduto!
Flamminio. Ahi lasso me! che io sono il piú misero e il piú sventurato giovane che viva. Quando s’udi piú dire che il padre fosse rivale al figliuolo?
Valerio. Che ne sa, il padre, del tuo amore?
Flamminio. Quanto volentieri vorrei che tu glie lo avessi detto!
Valerio. A che fine?
Flamminio. A fine che, vergognandosi di concorrer meco in amore, si rimanesse, per onestá, dalla impresa.
Valerio. Oh bel detto! Quale è piú onesta cosa, o che il padre ceda al figliuolo o il figliuolo ceda al padre?
Flamminio. Dunque, restarò io d’amare ciò che non posso?
Valerio. Il medesimo potrá dire egli.
Flamminio. Io m’avea imaginato di scovrirli il mio amore...
Valerio. Poverino! Tu sei pazzo. Che ne seguirá da poi?
Flamminio. Lasciami fornir di dire.
Valerio. Fornisci.
Flamminio... e poscia dargli a vedere che io desideri di tór Livia per moglie.
Valerio. Peggio.
Flamminio. E perché peggio?
Valerio. Ascoltami.
Flamminio. Io t’ascolto.
Valerio. Egli, da prima, ti fará una riprension da padre.
Flamminio. Che fia per ciò? Valerio. Da poi, seguirá che ad un giovane nobile come sei tu e figliuolo di cosí ricco gentiluomo non si conviene chiedere, ma esser chiesto; e massimamente una povera gentildonna come è costei.
Flamminio. Quando io ciò facessi, non sarei il primo.
Valerio. O vero egli dirá che attendi agli studi e che del maritarti lasci la cura a lui.
Flamminio. Quasi che io avessi a tór moglie con la sua persona e non con la mia!
Valerio. E chi dubita che, amando egli ardentemente questa Livia, come io so che egli l’ama, non sappia trovar mille cagioni delle quali una sola sará bastante a chiuderti la bocca in modo che non parli piú di questo amore, se non vorrai cader nella sua disgrazia?
Flamminio. Questo posso imaginarmi ancora io. Ma che ci debbo fare? Consigliami tu. Tu sai che il parasito, doppo tanti giorni, finalmente m’ha promesso di farmi goder di lei, questa notte. Ma che ci debbo io fare?
Valerio. Il consiglio che io ti potrei dare sarebbe che tu ti levassi da questa tua frenesia e che attendessi a cose piú utili e di piú onore.
Flamminio. Quasi che questo fosse in poter mio! Ma egli è cosa molto facile all’uomo, quando è sano, a confortar gli amalati. Ciò a me non piace né si può mettere in opera.
Valerio. Egli è cosa da savio a prendere i buoni consigli, quando l’utile importa per colui a cui si danno.
Flamminio. Oimè! che, non si provando un male, di leggero non si crede. Io ti dico, Valerio, che, se io non ho Livia, se io non godo del mio amore, io ne morrò di corto.
Valerio. Oh meschino! Ti so dire che egli è cotto. Ma vedi chi viene a tempo.
Flamminio. Chi?
Valerio. Messere Opilio, il tuo maestro galante.
Flamminio. Vedi se la sorte m’è bene in tutto contraria. Andiamo, di grazia; che, se costui ne coglie qui, ci stiamo insino a notte.
Valerio. Che importa?
Flamminio. Non sai quanto importa per me; e per te ancora, che, se mio padre vorrá desinare, chi gli attenderá, non vi essendo tu?
Valerio. Non c’è la Caterina? E poi egli è in corruccio meco perché pur ora lo riprendeva di questo amore.
Flamminio. Ecco il mio maestro. Io, per me, non lo voglio aspettare.
Valerio. Aspetta, di grazia: che aremo, un pezzo, materia di ridere.
SCENA V
Pedante, Valerio, Flamminio.
Pedante. Heus, Flamini!
Valerio. Piú forte, che egli non v’intende. Alzate la voce.
Pedante. Sono aliquantulum rauco, hodie. Heus! ah! A chi dico io?
Flamminio. O maestro, siete voi? Il buon giorno.
Valerio. Quella riverenza vai piú che non vale egli e tutte le sue lettere.
Pedante. Bona dies de curia.
Valerio. Galante!
Pedante. Adesdum. Paucis te volo.
Valerio. Se i pesci volano, gli uccelli nuotano.
Pedante. Quid? Costui ha il cerebro ottuso; non m’intende.
Flamminio. Domine la Vostra Eccellenzia mi perdoni perché ora convien ch’io vada in Campo di fiore per cosa che molto importa: onde non posso esser con voi.
Valerio. Come sarebbe a dire, «in quella parte dove amor mi tira».
Flamminio. Piano, in nome del diavolo!
Pedante. Che va balbutando quel servus servorum fra i denti?
Valerio. Io mastico avemarie.
Pedante. Flamminio, due verbicule; e poi ti do plenaria licenzia.
Flamminio. Eccomi: ma fornite presto.
Pedante. Il sugo delle nostre meliflue parole si è breviter quello che canta lo Ecclesiastico-. «Si cum sancto, sanctus eris: si cum perverso, perverteris» . Ideo Cato: «Cum bonis ambula».
Valerio. Vorrebbe intender la Sua pedantesca Reverenza che io non fossi uomo da bene?
Pedante. Taci, tu, che io non volgo il mio eloquio a’ pari tuoi.
Flamminio. Taci, Valerio.
Pedante. Piú ultra san Paolo: «Corrupunt bonos mores eloquia mala».
Flamminio. Io non v’intendo.
Pedante. Io voglio dinotare che non mi piace molto quella domestichezza che hai presa noviter con quel cortigiano ispano, perché gli ispani sono generatio mala.
Valerio. Egli parla santamente, Flamminio. Non dice di me.
Flamminio. Domine mi, la domestichezza che io ho con lo spagnuolo che dite non passa piú oltre di «buon di» e «buon anno». E questo io fo, che, avendo egli preso a salutarmi come mi vede Pedante. Quel «come mi vede» è superfluo.
Flamminio. ... mi parrebbe opera da villano a non risalutare lui ancora.
Valerio. Non sarebbe spagnuolo, se non avesse questo costume, e dee venir via con le riverenze insino a terra.
Pedante. Questo tuo servulus è presontuoso, ne dicam temerario. Non lassar mai che la tua libertina lingua si mescoli nei sermoni degli uomini dotti. Aliter, sarai tenuto un quadrupede Valerio. Volentieri, cembalo della pedantaria.
Pedante. Itaque, Flamminio, figliuolo, te admonuisse volui.
Flamminio. Vi ringrazio.
Pedante. Da poi habeo etiam aliquid tibi di cere.
Flamminio. Quel che avete detto è pur troppo; e si fa tardi.
Pedante. Arrige aures; e ascoltami con attenzione.
Flamminio. Ascolto.
Pedante. Io non so da qual causa, da qual pravo cogitamene) procede e deriva che tu sei diventato discolo.
Valerio. È egli qualche animale questo «discolo» o qualche uomo salvatico?
Pedante. «Discolus, quasi a schola divisus», Boétius, De scolastica disciplina. E, che ciò sia vero, non soleva prima passar giorno che tu non mi mostrassi qualche dettato o qualche epigrammatino. Nunc vero, e credo che luna quater latuit, non mi ostendi amplius né prosa né verso; e poi non frequenti cosí il ludo letterario come solevi da prima. E, pure se vi vieni, una letiuncula, e addio.
Flamminio. Non sapete voi.quello che dice Terenzio?
Pedante. Quid inquit comicus noster, fili? Egli ha una memoria acutissima.
Flamminio. «Haec dies aliam vifam adfert, alios mores postulata, se io ben mi ricordo.
Pedante. Ita est. Ma tu non penetri bene le medulle di questa pulcherrima sentenzia.
Flamminio. Disciferatela a modo vostro.
Pedante. Vuole inferir Terenzio che, quando il parvulo è uscito della etá puerile et ingresso nella adolescenzia, come sei ingresso tu, «tunc», allora, «illadies», quel tempo, «adfert» induce «aliam vitam», un’altra vita; et«ipsa», subintelligitur, «aetas» vel «dies postulat», inquire «alios mores», altri costumi. Id est che doverebbe ritenere in seipso alquanto piú di gravitá e lassare penitus, del tutto, i costumi puerili.
Valerio. E non praticar con spagnuoli, è vero?
Pedante. Optime locutus est famulus: e non praticar con spagnuoli, idest con qual si voglia sorte di cortigiani. Nanque, prò, quia, perché, quando non ci fosse altro, si dá cagione alle persone d’incorrer nel peccato della mormorazione, quod grave est.
Flamminio. Adunque, sono di si mala sorte i cortigiani?
Pedante. Lege le optime e saluberrime opere di quella tuba angelica, di quel profeta veridico, di quel flagellum principum Petrus Aretinus editae in luce per documento della insolente et muliebre iuventudine; e trovarai i cortigiani esser lo piú pravo e diabolico genus hominum che sia in toto orbe. Et, posto che fosse aliter, quod non est, quel contra naturam è pur cosa da submergere Roma, olim caput mundi.
Valerio. Anzi, tutto ’l mondo insieme.
Pedante. Ergo «disce bonas artes, moneo, romana iuventus », lo ingenioso Nasone. Aliter, actum est.
Valerio. Costui è un gran pedante.
Pedante. Onde ben disse il lipido e laureato Francisco Petrarca poeta florentinus nel principio d’una sua tersa cantilena: «Roma, quamvis il mio parlar sia indarno».
Flamminio. Domine, parmi che dica «Italia», non «Roma».
Pedante. «Roma» vuol dire.
Flamminio. Il comento dice «Italia».
Pedante. Forsi che tu non hai veduto quello che ha elaborato lo acume del mio ingegno.
Flamminio. Questo è vero. Ma quel «quamvis» non è parola fiorentina.
Pedante. Ella è latina, che importa piú.
Valerio. Messer, la venuta vostra non sará senza mio utile rispetto alla profonditá del vostro penetrativo sapere; e vorrei che mi chiariste d’un dubio.
Pedante. Libenter, per far piacer a Flamminio; subintelligitur, son contento.
Valerio. Vi ringrazio.
Pedante. Di che genere è questo dubbio?
Valerio. «Cuium pecus» è per lettera o per volgare?
Pedante. È per lettera; e fu cantato da quel mantuano che modulò «Tytire tu patulae». Ah! ah! Racca.
Valerio. Che diavolo è questo «racca»? Deve esser parola ebraica.
Pedante. Imo, latinissima. Da «ridendis», ut racca. Io rido alla antica.
Valerio. Ab! ah! ah!
Flamminio. Ah! ah! ah!
Pedante. Attamen aveva preso un moscone. È da «indignantis ».
Flamminio. Non importa.
Valerio. Come si sternuta alla antica?
Pedante. Exalando l’anima.
Valerio. Vostra Eccellenza, in fine, è un’arca di lettere.
Pedante. Orsú! «Claudite iam rivos, pueri, sat prata biberunt », Virgilius metaphorice.
Flamminio. L’ora è fuggita. Addio.
Pedante. Aspetta il fine. Reliquum est che incombi allo studio. Haec nostrorum sermonum habetur conclusio.
Valerio. E che egli lasci le pratiche de’ cortigiani, cioè dello spagnuolo.
Pedante. Per contrarium, dello spagnuolo, id est de’ cortigiani: quia cosí lo Ispano come il Gallo sono pessimi egualmente.
Valerio. Non intendete la mia ciffera.
Pedante. In hac materia, Flamminio, ti voglio mostrare un mio epigramma argutissimo. — •* Flamminio. Non, di grazia, che ho tardato troppo. Me lo mostrare te un’altra volta.
Pedante. Non voglio esser d’impedimento ai tuoi negoci. Attende interim a quello che io t’ho detto, perché, fili mi carissime, io son tuo preceptore et docebo te, se non vorrai parvi pendere precepta mea. Cura ut valeas.
Flamminio. Valeat Excelleiitia Vestra.
Pedante. Tua. Fa’ buon latino.
Flamminio. Bene.
Pedante. Valete ambo. Attamen audi.
Flamminio. Io ho fretta.
Pedante. Uno verbo dicam tibi.
Flamminio. Ho fretta, dico.
Pedante. Patrem tuum virum profecto ab omni parte absolutissimum plurimis verbis salvere iubeo.
Flamminio. Sará fatto.
Pedante. Alio modo, patri tuo viro de pontificatu bene merito multis verbis salutem imparte. Saluta meo nomine patrem tuum.
Flamminio. Bastava averlo detto una volta.
Valerio. La gazza ha mangiato la suppa.
Pedante. Io ho la copia verborum cosí bene che tengo in podice Erasmo.
Valerio. Il cancaro che vi magni! Rispondi cosí per lettera, Flamminio.
Pedante. Iterum atque iterum vale.
Valerio. In malora, assorda-cielo!
SCENA VI
Flamminio, Valerio.
Flamminio. Ha vòlto ancora il cantone questo barbagianni?
Valerio. Si; esci fuora.
Flamminio. Io non credo che sia il piú ladro romper di testa né il piú crudo crepacuore che l’esser sforzato di dare orecchia ad uno di questi pedanti; massimamente quando altra fantasia ti si rivolge pel capo.
Valerio. Per Dio, per Dio, che tutte le sue parole sono sentenzie e tu non doveresti tener la pratica di colui.
Flamminio. Che diavolo ho io a fare seco? E che importa se io lo saluto o se io non lo saluto? se io gli parlo o se io non gli parlo?
Valerio. Importa tanto che.... Basta. Dirò poi un’altra volta.
Flamminio. Un’ora mi par milPanni.
Valerio. Or torniamo al tuo amore. Ed abbi per cosa certa che, se non fosse una sola cagione, nissuno dei prieghi tuoi sarebbe stato sufficiente a fare che io t’avessi prestato il mio aiuto e sollecitatone il parasito per si fatto modo che, questa notte, ne debbe succedere lo effetto.
Flamminio. Qual cagione vi t’indusse?
Valerio. La cagione è questa: che, se io pigliava la impresa per il padre tuo facendone contento il suo disio, ne potevano avenir piú mali; se io la prendeva per te, mi poteva render sicuro che, succedendo lo effetto, ne sarebbono derivati molti beni, fra li quali quello del matrimonio non mi pare il minore.
Flamminio. Non parliamo di matrimonio.
Valerio. Quasi che tu non ne avessi parlato poco innanzi e che non lo avessi a cuore! Ma sappi certo che, non togliendo lei per moglie, le fatiche saranno poste indarno. Ed a che effetto estimi tu che siano i molti segni che Livia dimostra in amarti e le spesse imbasciate che tu ne hai avuto? Non ti parlo della conclusione di questa notte.
Flamminio. Alla buon’ora.
Valerio. È da credere che la buona fanciulla faccia ciò che ella fa per consiglio della madre: si come fanno, molte volte, le povere gentildonne; le quali, per questa via, trovano modo di maritar le figliuole senza dote agevolmente.
Flamminio. Avegna ciò che si voglia. Ben ti voglio far certo che io amo assai piú il contento mio che la grandezza delle doti.
Valerio. E tu savio, perché egli s’ha a vivere e a morire con la moglie: la quale se aviene che si conformi con le tue voglie, la vita tua è il paradiso; se è ritrosa e bestiale come sono la maggior parte delle femine, credi a chi l’ha provato che minor pena è l’inferno. L’inferno, Flamminio, è minor pena.
Flamminio. Se io non ci saprò essere, mio danno. Ma pure che Ciacco, in questo mezzo, non mi tradisca.
Valerio. Non dubitar di lui, che egli ti serve da vero ed è per fare a tuo padre una burla la piú piacevole del mondo.
Flamminio. S’egli desse a te parole, e che io fosse il burlato, che ti parrebbe?
Valerio. Pensi tu che io sia una bestia? Chi la fará a me la potrá fare anco a un ghiotto. E poi la cosa va a un altro modo; che io sono l’autore, se noi sai.
Flamminio. Potrebbesi far senza? che a me non piace che si facciano burle a mio padre; e non mi par ben fatto.
Valerio. Hai paura ch’egli non s’uccida?
Flamminio. Potrebbe sdegnarsi meco di maniera che non si rapaci fi carebbe piú.
Valerio. Sdegnisi quanto si voglia, converrá che si accheti, al fine. Io il voglio fare perché si castighi. Ma guarda che egli non venga a sapere il tuo amore, che altrimenti sturberesti il tutto.
Flamminio. Non ci dubitare. Ma vorrei intender questa burla.
Valerio. Puoi ben indovinare a che fine ho preso amicizia con la Belcolore fante di Livia.
Flamminio. Ora t’intendo: voi glie la volete condurre in iscambio di Livia. Ma io non penso che egli sará cosí semplice che non se ne avegga.
Valerio. Anzi, in questi fatti d’amore è egli la semplicitá istessa. Ma lassa pur faie a noi. Inteso hai a bastanza. Andiamo.
Flamminio. Andiamo; che, se tutti i nostri ragionamenti d’oggi fossero tra noi cosí lunghi, io penso che la notte ci venia a dosso che forse non si sarebbe fatto cosa alcuna.