Il paradiso delle signore/11
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Traduzione dal francese di Ferdinando Martini, Guido Mazzoni (1936)
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XI
— Dunque?
— Dunque, — rispose il giovane — quando gli ho detto che sarei passato di sicuro a salutarvi m’ha promesso di venire anche lui.
— Gli avete fatto capire che oggi faccio conto che venga il barone?
— Sí; anzi mi è parso che si sia risoluto per questo.
Parlavano del Mouret. L’anno innanzi, questi s’era a un tratto affezionato al Bouthemont fino al punto di farselo compagno nei divertimenti; e l’aveva perfino portato da Enrichetta, tutto contento d’avere uno che si prestasse a rallegrare un po’ quella amicizia di cui era stanco.
Cosí, il capo delle sete era alla fine divenuto il confidente del padrone e della bella vedovina:
faceva loro dei piccoli piaceri, discorreva dell’uno all’altra, qualche volta li riconciliava. Nei momenti di gelosia, Enrichetta, perdendo la prudenza delle donne galanti che fan di tutto per salvare le apparenze, si lasciava andare con lui ad un’intimità della quale egli stesso era stupefatto.
La Desforges riprese con calore:
— Lo dovevate condurre. Sarei stata piú sicura.
— Come si fa? non è mica colpa mia, — rispose lui con un sorriso da buon fanciullone — se mi scappa sempre, da qualche settimana in qua... Oh! del bene me ne vuol sempre. Se non fosse lui, starei fresco laggiú.
Nel Paradiso, infatti, dopo l’ultimo inventario non stava sopra un letto di rose. Aveva un bel difendersi con le piogge! tutte quelle sete di fantasia gli ricadevano sempre addosso; e siccome l’Hutin faceva suo pro di tutto, adagio adagio lo scalzava gesuiticamente nel favore dei capi, ed egli si sentiva mancare i il terreno sotto i piedi.
Il Mouret, cui, ora che stava per romperla, quel testimonio dava noia, stanco d’una familiarità che non gli giovava piú, l’aveva bell’e condannato. Ma, come era solito, mandava innanzi il Bourdoncle, facendo sí che costui, e gli altri cui la cosa importava, chiedessero in ogni adunanza che il Bouthemont fosse mandato via; ed egli resisteva, a detta sua, e difendeva l’amico vigorosamente, anche a rischio di grandissime seccature.
— Insomma — disse la Desforges — aspetteremo. La ragazza, come sapete, deve esser qui alle cinque... voglio che si trovino a faccia a faccia, e cosí lo scoprirò io, il segreto!
E ricominciò a spiegare il suo disegno, ripetendo febbrilmente che aveva fatto pregare la signora Aurelia di mandarle Dionisia per un certo mantello che non le tornava bene. Quando avesse avuta la ragazza in camera sua, avrebbe trovato il modo di chiamare il Mouret, e qualche cosa sarebbe nata. Il Bouthemont, che le si era messo a sedere di faccia, la guardava con i suoi begli occhi ridenti, cercando di farli seri. Quell’allegro bontempone, dalla barba nera come l’inchiostro, quel clamoroso gozzovigliatore cui il sangue caldo di guascone faceva rossa la faccia, pensava che le signore non valevano gran che, e quando osavano votare il sacco ne dicevano delle belle! Le amanti dei suoi amici, povere ragazze di magazzino, non avrebbero mai fatto confessioni di quella sorta.
— Ma, — osò domandarle alla fine che ve n’importa a voi, se, ve lo posso giurare, tra loro due non c’è nulla proprio nulla?
— Appunto per questo! — esclamò lei. — Che volete che me ne importi delle altre? Quelli son capricci che si sfogano in mezz’ora!
Parlò di Clara con disprezzo; le avevano detto che il Mouret, dopo i rifiuti di Dionisia, s’era ributtato a quella rossa con la testa da cavallo, ma con un secondo fine: perché la faceva restare nella sezione in modo che tutti lo sapessero, e la colmava di regali. E poi da tre mesi menava una vita dissestatissima, sparpagliando i quattrini con una prodigalità di cui parlavano tutti; aveva comprata una casa a una ballerina, manteneva due o tre sgualdrine insieme, e pareva che costoro facessero a chi gli imponesse capricci piú costosi e piú stupidi.
— E la colpa è tutta di quella ragazza! — ripeteva Enrichetta, — Si rovina con le altre, perché lei non lo vuole... Del resto, che me n’importa del suo danaro? Avrei preferito che fosse povero! Voi lo sapete che bene gli voglio, voi che siete diventato il nostro amico!
rompere Si fermò, come soffocata, al punto di in singulti; e con un moto d’abbandono gli tese tutt’e due le mani. Era vero; adorava il Mouret per la sua giovinezza e i suoi trionfi; nessuno l’aveva ancora presa tutta intera a quel modo, con un fremito del suo corpo e dell’orgoglio suo; ma al pensiero di perderlo, ella sentiva rintoccare la campana funebre dei quarant’anni, e si chie deva atterrita come avrebbe fatto senza quel grande amore.
— Oh! mi vendicherò, — mormorava — mi vendicherò se si porta male con me!
Il Bouthemont le teneva sempre le mani. Era bella ancora: ma sarebbe stata un’amante da dargli troppo pensiero, e a lui quel genere lí non andava a sangue. La cosa, per altro, meritava che ci riflettesse un po’; e forse qualcosa c’era anche da guadagnare, in compenso delle seccature.
— Perché non mettete su un magazzino per conto vostro? — chiese a un tratto lei, ritraendo a sé le mani.
Fu un po’ meravigliato. Poi rispose:
— Ma bisognerebbe avere delle somme non piccole. L’anno scorso ci pensai. A Parigi ci sono clienti per uno o per due altri grandi magazzini: soltanto, bisognerebbe scegliere bene il posto. Il Buon Mercato di là dal fiume; il Louvre nel centro; il Paradiso si prende i quartieri ricchi di ponente. Resta il settentrione, verso Piazza Clichy. E avevo trovato un posto magnifico, dietro l’Opéra.
— E cosí?
Diè in uno schianto di risa:
— E cosí, immaginatevi che fui tanto sciocco da parlarne a mio padre... Già: la mia ingenuità giunse al punto di pregarlo di trovarmi azionisti a Tolosa.
E raccontò allegramente che quel buon uomo era andato su tutte le furie, arrabbiato, com’era, nel fondo della sua botteguccia di provincia contro i grandi bazar di Parigi. Il vecchio Bouthemont, che non poteva mandar giú quei tremila franchi guadagnati dal figliuolo, rispose che avrebbe dato quanto aveva lui e quanto avevano gli amici suoi a un ospizio di carità, piuttosto che cooperare con un centesimo alla costituzione d’uno di quei magazzini ch’erano i postriboli del commercio.
— E poi, — conchiuse il giovane — ci vorrebbero milioni.
— E se si trovassero? — disse la Desforges.
Lui la guardò, divenuto serio a un tratto. Era una parola sfuggita a donna gelosa? Ma Enrichetta non gli lasciò nemmeno il tempo di muoverle una domanda, aggiungendo:
— Insomma, sapete quanto mi stanno a cuore le cose vostre... Ne riparleremo.
Avevano sonato il campanello dell’anticamera. La signora si alzò, e anch’egli istintivamente allontanò la seggiola come se fossero già a tal punto da temere d’esser colti sul fatto. Nel salotto dalle allegre stoffe, con tante piante verdi che tra le due finestre c’era quasi un boschetto, non si sentí un alito. Ella aspettava ritta, vicino alla porta.
— È lui! — sussurrò.
Il cameriere annunziò:
— Il signor Mouret, il signor De Vallagnosc.
Enrichetta non poté trattenere un gesto di collera. Perché non era venuto solo? Doveva essere andato a cercar l’amico per paura di trovarsi solo con lei. Nondimeno sorrise e porse la mano a tutt’e due.
— Come vi fate desiderare, da un pezzo in qua!... E lo dico anche per voi, signor De Vallagnosc!
Diventava grassa, e ci si disperava, stringendosi sempre piú in vestiti di seta nera per dissimulare la crescente pinguedine. Ma la testa graziosa, con i capelli scuri, conservava l’antica amabile eleganza: e il Mouret poté dirle finalmente, abbracciandola, per cosí dire, tutta quanta con un’occhiata:
— È inutile domandarvi come state... Siete fresca come una rosa!
— Oh! sto anche troppo bene — rispose lei, — Del resto, potevo anche morire, e voi non l’avreste saputo.
Anche lei lo guardava, e le sembrava nervoso e stanco con le palpebre pesanti e la pelle li vida.
— Ma io, — aggiunse con un tono che cercò di rendere scherzoso — io non vi renderò complimento per complimento: oggi non avete una gran bella cera.
— Lavora troppo! — disse il Vallagnosc.
Il Mouret non rispose, e fece un gesto che non voleva dir nulla: aveva visto il Bouthemont, e lo salutava con un cenno del capo. Quand’erano intimi, passava lui a pigliarlo alla sezione per andare insieme da Enrichetta durante il lavoro delle ore calde. Ma i tempi non eran piú quelli; e gli disse a mezza voce:
— Siete andato via troppo presto... se ne sono accorti, e laggiú si son tutti scagliati contro voi.
Parlava del Bourdoncle e degli altri cointeressati, come se non fosse lui il padrone.
— Ah! — mormorò il Bouthemont un po’ inquieto.
— Sí, sí, ne parleremo... Aspettatemi, ce ne andremo insieme.
Enrichetta s’era messa di nuovo a sedere, e stava a sentire il Vallagnosc che le annunziava la visita probabile della De Boves; ma non levava gli occhi di dosso al Mouret, il quale, ammutolito, guardava i mobili e il soffitto. Poi, da che ella si lamentava, ridendo, di non aver piú altro che uomini al suo tè delle quattro, a lui scappò detto:
— Credevo che ci fosse il barone.
Sentí subito egli stesso la villania della frase, e si volle correggere:
— Il barone è dei piú fedeli... è un uomo che sa il conto suo!
Enrichetta s’era fatta pallida: lo sapeva che lui veniva soltanto per trovarsi insieme col barone; ma avrebbe potuto fare a meno di gettarle a quel modo la sua noncuranza sul viso.
La porta s’era aperta proprio allora, e il cameriere stava dritto dietro lei. Quando l’ebbe interrogato con un moto del capo, le si chinò all’orecchio e le disse a voce bassa:
— È per quel mantello. La ragazza è venuta.
Ma Enrichetta alzò la voce in modo che la sentissero, e tutta la sua bile di gelosia si sfogò nel dire sprezzantemente:
— Aspetti!
— Devo farla entrare nell’abbigliatoio della signora?
— No, no, resti nell’anticamera!
E quando il cameriere se ne fu andato, si rimise a discorrere tranquillamente col Vallagnosc. Il Mouret, ricaduto nella sua stanchezza, aveva ascoltato con un orecchio solo, senza capire. Il Bouthemont, cui l’avventura dava a pensare, rifletteva. Ma quasi subito l’uscio si riaprí, ed entrarono due signore.
— Figuratevi, — disse la Marty — scendevo di carrozza, quando sotto le arcate ho trovato la De Boves.
— Già, disse quest’ultima — fa un tempo stupendo; e siccome il medico mi ordina sempre di camminare...
Poi, dopo cordiali strette di mano, chiese ad Enrichetta:
— Che pigliate un’altra cameriera?
— No, — rispose lei meravigliata. — Perché?
— Nell’anticamera ho visto una ragazza...
Enrichetta la interruppe ridendo:
— Non è vero? Tutte queste ragazze dei magazzini paion tante cameriere!... È una ragazza che mi viene a raccomodare un mantello.
Il Mouret, che cominciava a sospettare, la guardò fisso. Lei continuò, con un’allegria sforzata, a raccontare che se l’era comprato, al Paradiso, la settimana innanzi.
— Ma dunque, disse la Marty — non vi fate piú servire dalla Sauveur?
— Sí, sí, ma ho voluto soltanto provare. E poi ero abbastanza contenta d’un mantello da viaggio che ci avevo comprato tempo fa... Ma questa volta non ho proprio avuto fortuna. Avete un bel dire; i vostri magazzini rinfagottano, non vestono mica! E lo dico in faccia al signor Mouret... Non vi riuscirà mai vesfire una donna che abbia un po’ di garbo!
Il Mouret non pensò neppure a difendere il magazzino; non le levava gli occhi di dosso, e cercava persuadere se stesso ch’ella non avrebbe forse osato tanto. Toccò al Bouthemont a difendere il Paradiso.
— Se tutte le signore eleganti che si vestono da noi l’andassero a ridire, — replicò sorridendo — sentireste che clientela!... Ordinateci un vestito dandoci le misure, e non sfigurerà accanto a quelli della Sauveur; e lo pagherete la metà. Ma siccome costerà meno, parrà anche meno bello.
— Dunque non vi torna bene? — riprese la De Boves. — Mi ricordo ora la ragazza... Nell’anticamera è un po’ buio.
— Anch’io — disse la Marty — pensavo dove l’avessi vista un’altra volta... Andate, andate; fate pure il vostro comodo.
Enrichetta ebbe un gesto di sprezzante noncuranza:
— Ora, ora! c’è tempo!
Seguitarono a disputare sui vestiti dei grandi magazzini. Poi la De Boves parlò del marito che, diceva lei, era partito per fare un’ispezione al deposito degli stalloni di San-Lò: ed Enrichetta raccontò che, per la malattia d’una zia, la Guibal era stata chiamata, da un momento all’altro, nella Franca-Contea. Del resto, quel giorno non faceva nemmen assegnamento sulla Bourdelais, che ogni fin di mese si chiudeva in casa con una cucitrice per accomodare la roba dei bambini.
La Marty pareva intanto agitata da una sorda inquietudine. Quel pover’uomo di suo marito, a forza di lezioni anche in istituti che commerciavano addirittura sulle licenze liceali, la correva brutta al liceo Bonaparte: guadagnava quanto poteva, per riparare alle spese che gli mettevano a sacco la casa; e la moglie, una sera che l’aveva visto piangere per paura che lo mettessero a riposo, aveva pensato di rivolgersi ad Enrichetta affinché intercedesse presso uno dei capi del ministero dell’Istruzione ch’ella conosceva. Enrichetta, alla fine, con due parole la rassicurò. Del resto, il Marty doveva venire in persona a sapere che cosa sarebbe avvenuto di lui, e ringraziarla.
— Non vi sentite bene, signor Mouret? — gli domandò la De Boves.
— Lavora troppo, lavora! — ripeté il Vallagnosc con la sua calma ironica.
Il Mouret allora, arrabbiato contro di sé, si alzò a un tratto e venne a sedersi, con tutta la sua grazia solita, in mezzo alle signore. Disse che le «novità» da inverno gli davan molto da fare, e parlò d’una grossa partita di trine.
La De Boves gli domandò quanto costavano le trine di Bruges, perché ne voleva comprare; disse che era ridotta a risparmiare i due franchi d’un legno, e tornava tutte le volte a casa sentendosi male per la roba che ammirava nelle vetrine. Col suo mantello, che aveva già due anni, si provava fantasticando sulle sue spalle da regina tutte le stoffe piú care che vedeva, e quando si risvegliava vestita dei suoi cenci, senza speranza di poter mai soddisfare la sua passione, le pareva che quelle stoffe gliele strappassero da dosso.
— Il signor barone Hartmann — annunziò il cameriere.
Enrichetta osservò che il Mouret strinse la mano al barone, tutto contento: costui salutò le signore e guardò il giovane con quell’occhio arguto che di tanto in tanto gl’illuminava la larga faccia d’alsaziano.
— Sempre tra i cenci! — mormorò sorridendo.
Poi, come familiare della casa, si permise di aggiungere:
— Che graziosa ragazza c’è nell’anticamera!... Chi è?
— Oh! nessuno! — rispose la Desforges con la sua voce maligna. — Una ragazza del magazzino che aspetta.
Ma l’uscio restava socchiuso; il domestico serviva il tè. Usciva, rientrava, posava sul tavolino le tazze cinesi, poi piatti di sandwiches e di biscotti.
Nel vasto salotto una luce viva, raddolcita dalle piante verdi, accendeva le dorature, carezzando allegramente la seta dei mobili: ed ogni volta che l’uscio s’apriva, si scorgeva un angolo oscuro dell’anticamera, che non aveva luce se non per vetri opachi. Dionisia era là in piedi: c’era una cassapanca coperta di cuoio, ma, per un senso d’orgoglio, non ci si voleva sedere. Da una mezz’ora era là, senza un gesto né una parola: le signore e il barone l’avevano squadrata, passando. La voce del salotto le giungeva ora a soffi leggieri, tutto quel lusso amabile la schiaffeggiava con la sua noncuranza; ed ella non si moveva. A un tratto, traverso l’uscio, riconobbe il Mouret; anch’egli alla fine aveva indovinato ch’era lei.
— È una delle vostre ragazze? — domandò il barone con la sua aria bonacciona.
Il Mouret era riuscito a celare il suo gran turbamento: soltanto, la voce gli tremava per commozione.
— Di sicuro; ma non so chi è.
— È la biondina delle «confezioni» — rispose cortesemente la Marty — la vice, se non sbaglio.
Enrichetta lo guardava.
— Ah! — disse lui, e non altro.
E cercò di parlare delle feste in onore del re di Prussia ch’era allora a Parigi. Ma il barone maliziosamente fece ricadere il discorso sulle ragazze dei grandi magazzini. Fingeva di voler a verne notizie, e interrogava: donde provenivano di solito? erano scostumate come si andava dicendo? Di qui una discussione.
— Davvero, — ripeteva — voi credete che sieno oneste?
Il Mouret difendeva la loro virtú con un convincimento che faceva ridere il Vallagnosc. Allora il Bouthemont si mise di mezzo per salvarlo. Dio mio! ce n’era d’ogni sorta, buone e cattive. Ma, del resto, si facevano sempre migliori. Prima non c’erano che ragazze povere e senza quasi famiglia; ora, per esempio, parecchie in via di Sèvres si vedeva che tiravan su le figliuole il Buon Mercato. Insomma, quando volevano essere oneste, potevano, perché non erano come le operaie, obbligate a trovarsi pane e tetto; avevan tavola e stanza; e la loro vita, per quanto certo non fosse bella, era almeno sicura e tranquilla. Il peggio stava in quella condizione mal definita tra la bottegaia e la signora; e buttate cosí nel lusso, spesso con poca o nessuna istruzione, prendendo, nel contatto della gente che frequentavano, modi e gusti superiori allo stato loro, formavano un ceto singolare e senza un proprio nome. Le loro miserie e i vizi provenivano da ciò.
— Io — disse la De Boves — non conosco gente più antipatica... A volte mi verrebbe voglia di pigliarle a schiaffi.
E le signore sfogarono i loro rancori. Davanti ai banchi dei magazzini si divoravano tra loro donne in una rabbiosa rivalità di danaro e bellezza.
— Via, via! — concluse Enrichetta — son tutte delle disgraziate che vendono se stesse come tutta l’altra roba dei magazzini.
Il Mouret ebbe la forza di sorridere. Il barone lo stava a guardare, commosso dal bel modo con cui si sapeva frenare. E per questo muto discorso, tornando a parlare delle feste per il re di Prussia: sarebbero stupende, tutti a Parigi dovevano guadagnarci. Enrichetta stava zitta, e divisa tra il desiderio di lasciare ancopensava, ra nell’anticamera Dionisia, e il timore che il Mouret, ormai prevenuto, se n’andasse. Dovette per ciò alzarsi.
— Permettono?
— Ma vi pare! — rispose la Marty. — Farò io da padrona di casa.
Si alzò, prese il tè, empí le tazze. Enrichetta si era voltata verso il barone:
— Restate un altro po’, non è vero?
— Sí, ho da discorrere col signor Mouret.. Invaderemo il vostro salottino.
Ed ella uscí; il vestito di seta nera dette, strisciando sull’uscio, un fruscío, come di lucertola tra le foglie.
Il barone fece subito in modo di portarsi via il Mouret, lasciando le signore al Bouthemont e al Vallagnosc. Poi, a voce bassa, si misero a discorrere, nel vano della finestra del salotto accanto. Era un nuovo affare: il Mouret da gran tempo pensava ad effettuare il suo antico disegno, invadere l’intero isolato nel quale era il Paradiso, da via Monsigny a Via della Michodière, e da Via Nuova di Sant’Agostino a Via Dieci Dicembre. Su quest’ultima c’era ancora, nel gran quadrato, un vasto terreno che non era suo, e. ciò bastava a sciupargli il trionfo: era tormentato dal bisogno di compiere la sua conquista, d’innalzare là, come un’apoteosi, una facciata monumentale. Finché l’androne maggiore si trovava in Via Nuova di Sant’Agostino, in una strada buia della vecchia Parigi, l’opera non era né compiuta né logica: lo voleva mettere in mostra dinanzi alla nuova Parigi, sopra uno di quei viali nuovi, dove passava, sotto la luce del sole, la moltitudine del secolo presso alla fine: e già vedeva il nuovo edifizio ergersi e dominare come il palazzo gigantesco del commercio, gittando sulla città piú ombra dell’antico Louvre.
Ma fin allora aveva dato di cozzo contro la cocciutaggine del Credito Fondiario, che non voleva deporre la prima idea di costruire su quei terreni un grande albergo. I disegni eran già pronti; per cominciare i lavori non aspettavano se non che Via Dieci Dicembre fosse libera. Finalmente, con un ultimo sforzo, il Mouret aveva quasi convinto il barone Hartmann.
— Bene! — cominciò questi a dire. — S’è tenuta ieri un’adunanza e son venuto qua, pensando di vedervi perché desideravo tenervi al corrente... Seguitano a resistere.
Il Mouret ebbe una specie di moto nervoso.
— Han torto, torto marcio... Che dicono?
— Dio mio! dicono ciò che v’ho detto anche io, e che in fondo in fondo... La facciata non è se non un ornamento; il nuovo fabbricato non aumenterebbe che di un decimo la superficie dei vostri magazzini; ed è buttar via gran bei quattrini soltanto per la pubblicità!
Il Mouret non si contenne:
— Pubblicità! pubblicità... Ma questa pubblicità a ogni modo sarà di pietra e ci sotterrerà tutti. Capite una volta ciò che vuol dire concludere affari dieci volte di piú. In due anni si ripigliano le spese. Che importa che sia, come dite voi, terreno perduto, se questo terreno ci rende un frutto enorme!... Vedrete che ressa, quando i clienti non si accalcheranno piú in Via Nuova di Sant’Agostino, e potran liberamente passare per una strada larga cosí da farvi trottare sei carrozze in fila.
— Sicuro!... — rispose il barone, ridendo — ma voi siete un poeta nel vostro genere, ve l’ho già detto altre volte. Quei signori credono che sarebbe pericoloso allargare dell’altro i nostri affari. Vogliono avere prudenza per voi.
— Come! prudenza? Non ci capisco un’acca... I conti son lí; e non dimostrano l’aumentó continuo della vendita? Da principio, con un capitale di cinquecentomila franchi, facevo per due milioni di affari: il capitale era investito quattro volte. Poi è divenuto di due milioni, l’ho investito quattro volte. Poi è divenuto di quattro milioni, l’ho investito dieci volte, e ho fatto per quaranta milioni d’affari. Alla fine, dopo questi aumenti continui, ho visto all’ultimo inventario che ho un commercio di ottanta milioni; e il capitale che non è aumentato, perché è soltanto di sei milioni, è cosí stato investito in mercanzie che son passate sui banchi dodici volte!
Alzava la voce, picchiando le dita della destra sulla palma della sinistra, nel contare i milioni come se schiacciasse nocciuole. Il barone l’interruppe.
— Lo so, lo so... Ma non potete mica sperare di seguitare sempre cosí!
— E perché no? — disse il Mouret ingenuamente. — Non c’è nessuna ragione per fermarsi. Il capitale può passare sui banchi fin quindici volte; l’ho detto da un pezzo. Anzi, in certe sezioni, passerà venticinque, trenta volte... E poi, qualche modo si troverà per farlo passare anche piú alla svelta!
— Volete dunque bere alla fine il danaro dei parigini come si beve un bicchier d’acqua?
— Sicuro! Parigi e le donne; e le donne non son tutte nostre?
Il barone gli pose le due mani sulle spalle, guardandolo con aria paterna:
— Su! voi siete un buono e bravo figliuolo e vi voglio bene. Non ci se ne può con voi. Combatteremo sul serio, e spero che capiranno. Fino ad ora non abbiamo avuto che a lodarci di voi.
I dividendi stupefanno la Banca... Dovete aver ragione voi; è più sicuro mettere il danaro nei vostri magazzini, che rischiarli in un albergo, che può andar bene e può andar male!
Il Mouret si quetò: ringraziò il barone, ma senza il solito impeto d’entusiasmo; e questi lo vide volgersi con gli occhi verso l’uscio della stanza accanto, ripreso dalla sorda inquietudine che celava.
— Ditemi un po’: si vendicano?
— Chi? — domandò il Mouret, imbarazzato.
— Chi? Oh! bella! Le donne!... Si sono stancate d’essere vostre schiave, e son diventate le vostre padrone. Vi sta bene!
Si mise a scherzare; sapeva gli amorazzi del giovane. Quel quartierino comprato alla ballerina, le somme enormi sperperate con ragazze raccattate per le trattorie, lo rallegravano tutto come una scusa alle pazzie che aveva fatte egli stesso ai suoi tempi. La sua vecchia esperienza ci godeva.
— Ma io non vi capisco! — ripeteva il Mouret.
— Via, via! — riprese il barone. — Sono sempre loro che hanno ragione, alla resa dei conti. È per questo dicevo tra me: «Non è possibile! si vanta! non è di ferro neanche lui!». Ed eccovi bell’e caduto. Fate ciò che volete delle donne, servitevene come di una miniera di carbon fossile... poi viene il giorno che son loro quelle che si servono di voi e vi fanno buttar fuori quanto avete preso a loro!... State attento, perché le donne vi succhieranno piú sangue e danaro che non abbiate saputo cavar voi da loro!
Rideva piú forte; e il Vallagnosc, lí accanto, sogghignava senza aprir bocca.
— Dio mio! bisogna provare un po’ di tutto, — confessò il Mouret, fingendo d’essere allegro anche lui. — Il danaro a che serve, se non si spende?
— In questo son d’accordo rispose il barone. — Divertitevi, divertitevi! non sarò davvero io il predicatore che v’insegni la morale, né tremerò pei gravi affari che vi abbiamo confidati. Bisogna svagarsi un po’; e la testa, dopo, è più fresca. Eppoi non dispiace rovinarsi quando ci si può rifare in quattr’e quattr’otto... Ma se il danaro non conta, ci sono però dei dolori...
Si fermò; il sorriso gli si fece triste; il ricordo di pene sofferte si mescolò all’ironia del suo scetticismo. Aveva osservato il duello tra Enrichetta ed il Mouret, da uomo curioso di vedere ancora combattersi negli altri le battaglie del cuore; e sentiva che la crisi era venuta: sapendo la storia di quella Dionisia che aveva visto nell’anticame ra, indovinava il dramma.
— Oh! soffrire poi, non è fra le mie consuetudini! — disse il Mouret, col tono della spacconata. — Mi basta di pagare.
Il barone lo guardò per qualche secondo in silenzio. Senza voler insistere nella sua discreta allusione, aggiunse lentamente:
— Non vi fate piú cattivo di quanto siete!.. Altro che il danaro! c’è il caso di lasciarvi la pelle, amico mio.
S’interruppe per domandare, ridendo daccapo:
— Non è vero, signor Vallagnosc, che accade qualche volta cosí?
— Dicono, signor barone! si contentò di rispondere l’altro.
Proprio in quel punto l’uscio della stanza s’aprí. Il Mouret, che stava per rispondere, sussultò leggermente. I tre signori si voltarono.
Era la Desforges, allegrissima in apparenza, che metteva fuori la testa, chiamando frettolosamente:
— Signor Mouret! signor Mouret!
Poi, quando vide gli altri due:
— Oh! permettete, signori, che vi porti via per un momento il signor Mouret. Non mi pare di chieder troppo, se desidero qualche consiglio dopo che m’ha venduto un mantello orribile. E questa ragazza è una stupida che non ha un’idea nel capo!... Su! andiamo, vi aspetto!
Egli titubava, non osando avventurarsi alla scenata che prevedeva. Ma dovette obbedire.
E il barone, con la sua aria paterna insieme e canzonatrice:
— Andate, andate pure! La signora ha bisogno di voi.
Il Mouret la seguí. Entrò, e credé sentire il tiso stridente del Vallagnosc, attenuato dalle tende. D’altra parte non ne poteva piú. Da quando Enrichetta se n’era andata dalla sala, e sapeva che Dionisia era là, tra le mani della gelosa, sentiva un’ansietà crescente, un tormento nervoso che gli faceva tendere ogni poco l’orecchio, quasi trasalisse a un rumore lontano di pianto. Che poteva mai inventare quella donna per torturarla? E tutto l’amor suo, quell’amore ch’egli ancora non riusciva a capire, accorreva dov’era la giovinetta, come un aiuto, una consolazione. Non aveva mai amato in quel modo né provato mai quella voluttà del soffrire. Le sue affezioni d’uomo che ha sempre fretta, perfino Enrichetta, cosí elegante, cosí graziosa, e che lusingava il suo orgoglio, non erano state, in fondo, che divertimenti, o se mai desiderio d’unire all’utile il piacevole. Usciva di casa delle amanti e tornava nel suo quartiere di scapolo, senza mai un rimpianto né un pensiero, contento della libertà. Ora, invece, il cuore gli batteva dall’angoscia, la sua vita non era piú sua, nel suo letto, grande, solitario non trovava piú l’oblio del sonno. Anche in quel momento non pensava che a lei, e preferiva essere lí a proteggerla, sebbene seguisse l’altra con paura di qualche scena dolorosa e uggiosa.
Traversarono dapprima la camera da letto, silenziosa e vuota. Poi la Desforges, aperto un uscio, entrò nella stanza della «toilette», e il Mouret la seguí.
Era una stanza abbastanza grande, addobbata di seta rossa, ammobiliata d’una tavola di marmo e d’un armadio a tre battenti, con grandi specchi. La finestra dava sulla corte, e c’era di già buio: avevano perciò accese due fiammelle di gas, che sporgevano i loro bracci lucidi, a destra e a sinistra dell’armadio.
— Guardiamo un po’ — disse Enrichetta. — Forse cosí sta meglio.
Nell’entrare, il Mouret aveva trovato Dionisia ritta in mezzo alla luce viva. Era pallidissima, modestamente stretta in una giacchetta di casimirra, con un cappellino semplice; teneva su un braccio il mantello comprato al Paradiso. Quando vide il padrone, le tremarono lievemente le mani.
— Facciamo giudice il signor Mouret — riprese Enrichetta. — Aiutatemi.
E Dionisia, avvicinandosi, dovette rimetterle addosso il mantello. La prima volta che gliel’aveva provato aveva appuntato degli spilli sulle spalle, che non le tornavano bene.
Enrichetta si voltava e rivoltava guardandosi nello specchio.
— Può stare? ditelo liberamente.
— È vero! — disse il Mouret per farla finita — il mantello è fatto male. È una cosa da nulla: la signorina vi piglia la misura, e se ne fa fare un altro.
— No, no, voglio questo; n’ho bisogno subito — riprese essa vivacemente. — Mi stringe qui al petto, e là dietro il collo mi fa una gobba.
Poi, con voce aspra:
— Stare a guardare, signorina, non è correggere un difetto!... Cercate e trovate qualche cosa. Sta a voi.
Dionisia, senza aprire bocca, ricominciò ad appuntare gli spilli. Fu un lavoro lungo: bisognava passare da una spalla all’altra: dové perfino abbassarsi un po’, e quasi inginocchiarsi, per tirar giú il davanti del mantello. La Desforges la lasciava fare conservando l’aspetto arcigno d’una padrona difficile a contentarsi. Felice d’umiliare la giovane a quell’ufficio di serva, le dava ordini brevi, spiando le menome contrazioni nervose sul viso del Mouret.
— Qui uno spillo. Eh! no, non costà, qui accanto alla manica. Non capite?... Cosí non va; non vedete che la tasca sta male daccapo? Attenta vi dico! ora mi bucate!
Due volte il Mouret cercò vanamente di metterci bocca per far cessare la scena. Il cuore gli sussultava in quella umiliazione del suo amore; e amava Dionisia anche piú, con una tenerezza commossa, dinanzi a quel coraggioso e dignitoso silenzio. Se le mani della giovinetta tremavano ancora un po’, trattata a quel modo in faccia a lui, ella sopportava i guai del mestiere con la fiera rassegnazione d’una ragazza piena d’animo. Quando la Desforges capí che non si sarebbero traditi, cercò un’altra via, e si mise a sorridere al Mouret, trattandolo manifestamente da amante.
Allora, perché gli spilli mancavano:
— Guardate, caro, — disse — guardate là nella scatolina d’avorio sulla «toilette»... È vuota?... Abbiate pazienza; guardate un po’ sul camino in camera da letto, laggiú, sapete, vicino allo specchio.
E cosí lo trattava come se egli fosse familiare della camera, e vi avesse piú volte dormito, sapesse bene dov’erano i pettini e le spazzole. Quando le ebbe portati gli spilli, Enrichetta li prese a uno a uno forzandolo a star lí ritto accanto a lei, e guardandolo, parlandogli, come se Dionisia non fosse presente.
— Eppure gobba non mi pareva d’essere... Datemi la mano, tastatemi le spalle, fatemi il piacere. Son fatta proprio cosí, io?
Dionisia aveva alzati lentamente gli occhi, piú pallida ancora, e s’era rimessa ad appuntare zitta zitta gli spilli. Il Mouret non vedeva che i folti capelli biondi di lei attorcigliati sul collo gentile; ma a quel leggiero brivido che li scoteva, gli pareva di scorgerle la vergogna e il dolore sul viso. Ora sí che lei l’avrebbe respinto, rimandandolo da quella donna che non nascondeva nemmeno la sua tresca in faccia alla gente. E si sentiva una gran voglia di menar le mani e picchiare Enrichetta. Come farla chetare? come dire a Dionisia ch’egli adorava lei, ch’era lei il suo unico pensiero, che le sacrificava tutti i suoi vecchi amorazzi d’un giorno? Una sgualdrina avrebbe osato lasciarsi andare, come quella borghese, a tali confidenze di cattiva lega? Tirò a sé la mano e diè un passo indietro dicendo:
— Il torto è vostro, signora mia, perché vi ostinate quand’io stesso riconosco che il mantello è fatto male.
Stettero tutti zitti. Una delle fiammelle del gas sibilava; e nell’aria calda e pesante della stanza non si sentiva piú che quel soffio ardente. Gli specchi dell’armadio riflettevano larghe strisce di vivo chiarore sulle tende di seta rossa, dove ballavano le ombre delle due donne. Una boccetta d’acqua di verbena, rimasta stappata, esalava l’odor vago d’un mazzo che appassisca.
— Ecco, signora, tutto quel che ho potuto fare io — disse finalmente Dionisia alzandosi.
Non ne poteva piú: due volte s’era ficcata gli spilli nelle mani, come accecata, con gli occhi smarriti. Anche lui d’accordo? l’aveva fatta venire per vendicarsi dei suoi rifiuti, mostrandole che altre donne l’amavano? E questo pensiero le gelava il sangue: non si rammentava d’aver avuto mai bisogno di tanto coraggio, neppure nelle ore terribili della sua vita, quando le era mancato il pane. Non bastava sentirsi umiliata, bisognava veder lui quasi tra le braccia d’un’altra, come se lei non fosse stata lí.
Enrichetta si guardava allo specchio. Daccapo diè in parole scortesi:
— Credo che abbiate voglia di burlarmi! Sta peggio di prima. Guardate come mi torna davanti, paio una balia.
Dionisia non seppe piú rattenersi:
— La signora è un po’ grassa... Quando avremo fatto ben bene, non la potremo far dimagrare.
— Grassa! grassa! — ripeté Enrichetta che impallidí alla sua volta. — Siete anche insolente, signorina! ci vuole un bel coraggio, a farvi giudice voi, delle altre!
Tutt’e due, l’una in faccia all’altra, frementi, si guardavano. Non piú una signora e una ragazza di magazzino; due donne, rese uguali dalla rivalità. L’una s’era levata il mantello furibonda, gettandolo sopra una seggiola; l’altra buttava a caso sulla «toilette» gli spilli che aveva ancora in mano.
— Mi meraviglio, — riprese Enrichetta — che il signor Mouret tolleri questa insolenza... Credevo che foste piú severo coi vostri impiegati.
Dionisia era rientrata nella sua calma coraggiosa, e rispose dolcemente:
— Se il signor Mouret non mi licenzia, vuol dire che non ha da farmi nessun rimprovero. Se il signor Mouret me l’ordina, son pronta a domandarle scusa.
Il Mouret stava a sentire, non sapendo come uscire da quella contesa che lo stupiva e l’addolorava ad un tempo. Aveva in uggia tali liti fra donne, che, aspre, dovevano di necessità spiacere a lui, sempre in cerca d’eleganza graziosa.
Enrichetta voleva strappargli una parola di biasimo per la ragazza; e siccome, incerto ancora, non apriva bocca, lo frustò con un’ultima ingiuria:
— Benone! Dunque, in casa mia devo io sopportare le insolenze delle vostre amanti?... Di una sgualdrina che avete raccattata dal lastrico?
Due grosse lacrime caddero dagli occhi di Dionisia. Le ratteneva da un pezzo, ma ora si sentiva venir meno sotto quell’insulto.
Quando la vide piangere, senza rispondere alla violenza, chiusa in una dignità muta e disperata, il Mouret non esitò piú, il cuor suo volò a lei con immensa tenerezza. Le prese le mani e balbettò:
— Andate, andate via, figliuola, e scordatevi di questa casa.
Enrichetta, sbalordita, strozzata dalla rabbia, li guardò.
— Aspettate, — soggiunse egli ripigliandolo da sé — a voi il mantello! La signora se ne un altro altrove... E non piangete piú, comprerà ve ne prego. Sapete quanta stima ho di voi.
L’accompagnò fino all’uscio, e lo richiuse subito. Lei non aveva detta una parola; soltanto una fiamma rosea le era salita alle gote, mentre gli occhi le s’inumidivano d’altre lacrime, dolcissime.
Enrichetta, che si sentiva soffocare, si premeva il fazzoletto sulle labbra. Cosí dunque aveva ottenuto l’opposto di ciò che voleva! era rimasta presa al tranello che aveva teso! E rimpiangeva d’avere spinto le cose a quel punto, torturata dalla gelosia. Abbandonata per una creatura come quella! Vedersi anche disprezzata davanti a lei! L’orgoglio soffriva piú che l’amore.
— Dunque, è proprio questa ragazza che voi amate? domandò dolorosamente, quando furono soli.
Il Mouret non rispose subito: passeggiava tra la finestra e l’uscio, come preso da una violenta commozione. Finalmente si fermò e garbatamente, con voce che tentava di serbare tranquilla, disse con semplicità:
— Sí.
La fiammella del gas seguitava a sibilare nell’aria pesante. I riflessi degli specchi non eran piú traversati dal moto delle ombre; la stanza pareva nuda nella sua tristezza grave. Enrichetta si lasciò andare su una seggiola, torcendo il fazzoletto tra le dita febbrili, e ripetendo fra i singhiozzi:
— Dio mio! come son disgraziata!
Lui la stette a guardare, pochi secondi, immobile. Poi tranquillamente se ne andò. Ella, rimasta sola, pianse nel silenzio, davanti agli spilli seminati sulla «toilette» e per terra.
Quando il Mouret rientrò nel salottino non vi trovò che il Vallagnosc; il barone era tornato dalle signore. Sentendosi ancora commosso, si buttò a sedere in fondo alla stanza, sopra un canapè; e l’amico, vedendolo pallido, venne caritatevolmente a porglisi davanti per nasconderlo agli sguardi curiosi.
Da principio si guardarono, senza dir nulla; poi il Vallagnosc, che pareva dentro sé un po’ contento che il Mouret fosse turbato cosí, gli domandò con accento canzonatore:
— Ti diverti?
Il Mouret parve che, lí per lí, non capisse. Ma quando si fu rammentato le loro conversazioni d’una volta sulla stolta inutilità della vita, rispose:
— Ma sicuro! non ho mai vissuto tanto come ora!... Non mi canzonare, amico mio; quando si muore dal dolore, il tempo passa piú presto che mai.
Abbassò la voce, e continuò scherzosamente sotto le lacrime mal asciugate:
— Tanto, tu sai tutto, non è vero? m’hanno fra tutt’e due lacerato il cuore. Eppure, le ferite che m’han fatto sono quasi dolci come carezze. Sono stanco, non ne posso piú, ma non importa; non puoi credere quanto mi piaccia la vita! Oh, la vincerò prima o poi quella piccina che non vuol saperne di me!
Il Vallagnosc disse semplicemente:
— E dopo?
— Dopo? me la goderò! non basta?... Ti credi forte, tu, perché t’affanni a non fare ciò che fanno tutti, e non vuoi soffrire? Ma l’ingenuo sei tu... Tenta desiderarne una e possederla... sarai largamente compensato, in un minuto, di tutti i dispiaceri!
Ma il Vallagnosc esagerava il suo pessimismo. Una volta che il danaro non dava tutto ciò che si desidera, perché lavorare? Lui, se si fosse accorto che con i milioni non si può nemmeno comprare la donna che ci piace, avrebbe chiuso bottega, e si sarebbe sdraiato in santa pace, senza piú muovere un dito. Il Mouret, ascoltandolo, si rimbruniva: poi l’interruppe violento, ridestatasi in lui l’antica fede, la credenza che la volontà è onnipotente.
— La voglio, l’avrò: è una cosa semplicissima questa!... E se mi sfugge, vedrai che cosa saprò far io per guarirmi! A ogni modo sarà un bel vedere... Tu non ci capisci nulla, amico mio: altrimenti sapresti che l’azione ha in sé il suo premio. Fare, operare, opporsi agli eventi, vincerli, esserne vinto, sta qui tutta la gioia e la salute degli uomini.
— Anche cotesta è una maniera per stordirsi — brontolò l’altro.
— Sarà, ma io preferisco di stordirmi... Crepare per crepare, preferisco crepare di passione piuttosto che di noia.
Si misero a ridere tutt’e due, rammentandosi le vecchie dispute del collegio. Il Vallagnosc cominciò allora a dimostrare pacatamente la insulsaggine delle cose: nel continuo vantare la inerzia e il vuoto della sua vita, egli ci metteva un po’ di fanfaronata. Già, domani al Ministero si sarebbe annoiato come ci s’era annoiato oggi; in tre anni gli avevano dato un aumento di seicento franchi, ed ora ne aveva tremilaseicento; neppure tanto da fumare dei sigari a modo. Un servizio sempre piú uggioso e piú grave; se non si ammazzava anche lui come tanti altri, era per evitarsi quello scomodo. Il Mouret gli domandò allora del suo matrimonio con la signorina De Boves, ed egli rispose che, sebbene quella be nedetta zia non volesse ancora morire, il matrimonio stava per esser conchiuso; almeno cosí credeva, perché i parenti s’erano già intesi, e lui era pronto a fare quel che gli avrebbero detto. Perché affaticarsi a volere o a non volere, una volta che nulla andava in modo conforme ai propri desideri? Citò come esempio il suo futuro suocero, che aveva creduto di trovare nella Guibal una bionda indolente, tanto divertircisi un’ora, ed era invece spinto innanzi, da lei, a frustate come un cavallo vecchio di cui giovi consumare le ultime forze. Mentre lo credevano occupato nella rassegna degli stalloni di San-Lò, lei lo rifiniva in una casuccia presa da lui in affitto a Versailles.
— È piú contento di te, però! — disse il Mouret alzandosi.
— Oh! lui, sicuro! confessò il Vallagnosc. — Forse forse non c’è che il male che sia un po’ divertente.
Il Mouret s’era ricomposto. Pensava ora ad andarsene; ma non voleva far la figura d’uno che scappa, e per questo rientrò nella sala, scherzando con l’amico, per prendere una tazza di tè. Il barone gli domandò se il mantello stava bene, alla fine; e lui, senza turbarsi, rispose che aveva smesso il pensiero di accomodarlo. Parve stanco; e mentre la Marty si affrettava a mescergli il tè, la De Boves cominciò ad accusare i grandi magazzini di far sempre i vestiti troppo stretti. Finalmente si poté mettere a sedere accanto al Bouthemont che non s’era mosso: gli altri non badarono piú a loro; e a un tratto, mentre costui lo stringeva di domande per saper com’era non aspettò, come s’era proposto dapandata, prima, d’essere con lui per la strada, e gli disse che quei signori del Consiglio volevano a ogni costo privarsi dei suoi servigi. Tra una frase e l’altra, sorseggiava il tè, seguitando ad affermare che n’era dispiacentissimo. Oh! una scena seria; egli era uscito dal Consiglio, furibondo. Ma che farci? Non poteva romperla con gli altri per una mera questione di personale. Il Bouthemont, pallidissimo, dovette anche ringraziarlo.
— Che mantello lungo, ch’è questo!... — osservò la Marty. — Enrichetta non torna piú.
L’assenza cosí lunga cominciava a dar noia a tutti; ma proprio in quel momento la Desforges ricomparve.
— Non riesce neanche a voi? — esclamò allegramente la De Boves.
— Perché?
— Il signor Mouret ci ha detto che non vi riusciva accomodarlo.
Enrichetta finse di cascar dalle nuvole:
— Il signor Mouret l’ha detto per ridere. Starà anzi benissimo!
Si mostrava calma e sorridente: certo s’era rinfrescata le palpebre, perché parevano fresche e nemmeno un po’ rosse. Mentre dentro sanguinava ancora, trovava la forza di nascondere la tortura sotto la maschera d’una disinvolta eleganza; e col sorriso solito offrí i sandwiches al Vallagnosc. Soltanto il barone, che la conosceva bene, osservò la leggiera contrazione delle labbra di lei e il fuoco sinistro che non le era riuscito spegnere nel fondo degli occhi. Indovinò tutto.
— Dio mio! Ognuno ha i suoi gusti — disse la De Boves prendendo anch’ella un sandwich.
— Conosco delle donne che non comprerebbero nemmeno un nastro altrove che al Louvre: altre invece son tutte pel Buon Mercato... Dev’essere questione di temperamento.
— Il Buon Mercato è un po’ troppo per le provinciali — mormorò la Marty — e al Louvre c’è tanta folla!...
Le signore ricaddero nel solito discorso dei grandi magazzini. Il Mouret dovette anche lui dire ciò che ne pensava; tornò in mezzo, e ostentò imparzialità. Il Buon Mercato era una buona casa, solida, rispettabile; il Louvre aveva certo clienti piú scelti.
— Insomma, per voi è meglio il Paradiso delle signore! — disse il barone sorridendo.
— Sí, — rispose tranquillamente il Mouret — da noi le signore son piú accarezzate.
Tutte le donne presenti furono di quel parere. Era vero: al Paradiso eran trattate con piú garbo, si sentivano lusingate continuamente, in modo tale che anche le piú forti ci restavano. Il mirabile buon successo del magazzino proveniva da quella seduzione.
— A proposito, - domandò Enrichetta, che voleva far vedere d’essere padrona di sé — e della mia protetta che n’avete fatto, signor Mouret?... La signorina di Fontenailles?
E volgendosi alla Marty:
— Una marchesa, nientemeno, una povera ragazza che non aveva da mangiare.
— Ma, — disse il Mouret — guadagna tre franchi al giorno a cucire dei fascicoli di campioni: e credo che mi riuscirà maritarla con uno dei miei garzoni.
— Dio ce ne liberi! — esclamò la De Boves.
Egli la guardò, e riprese con voce pacata:
— E perché? Non è meglio sposare un bravo giovanotto, un buon lavoratore, che correre il rischio d’essere raccattata di sul marciapiede da un fannullone qualsiasi?
Il Vallagnose volle scherzare:
— Non lo fate chiacchierare troppo, signora De Boves! Sarebbe capace di dirvi che tutte le vecchie famiglie della Francia debbono mettersi a vendere mercerie.
— Ma, — ribatté il Mouret — per molte sarebbe, tirate le somme, una fine onorevole.
Risero tutti; il paradosso parve un po’ troppo arrischiato. Ed egli seguitò a celebrare l’aristocrazia del lavoro, come diceva lui. Un po’ di rosso aveva colorato le gote della De Boves, furibonda per la misera vita che le toccava condurre: la Marty, invece, approvava, presa dal rimorso, pensando al suo povero marito. Per l’appunto il cameriere aprí la porta al professore che veniva a prenderla. Era piú magro, piú smunto di prima, per tutti quei suoi pensieri, stretto nel soprabito che mostrava le corde. Quand’ebbe ringraziata la Desforges d’aver parlato per lui al Ministero, gettò sul Mouret un’occhiata da uomo pauroso che s’imbatte nel male di cui deve morire. E fu meravigliato che quegli gli rivolgesse la parola.
— Non è vero, signore, che il lavoro è una gran bella cosa?
— Il lavoro e il risparmio — rispose con un leggiero brivido di tutta la persona. — Aggiungete il risparmio!
Il Bouthemont intanto non s’era mosso dalla poltrona: le parole del Mouret gli ronzavano ancora nell’orecchio. Si alzò alla fine, e venne a dire piano ad Enrichetta:
— Sapete, m’ha messo alla porta; oh! gentilmente, gentilissimamente!... Ma mi sbattezzo se non lo faccio pentire! Ho bell’e pensato al cartello, Le quattro stagioni; e mi pianto accanto all’Opéra.
Lei lo guardava; e gli occhi le s’intorbidarono:
— Fate pure assegnamento su di... Aspettate.
E, senza perdere tempo, trasse il barone nel vano d’una finestra. Lí, su due piedi, gli raccomandò il Bouthemont, dipingendoglielo come uno che avrebbe messo sossopra Parigi, con un negozio per conto suo. Quando poi gli parlò di un’accomandita, il barone, benché non si meravigliasse piú di nulla, non poté trattenere un gesto di spavento. Era il quarto ch’essa gli raccomandava, e capiva di cadere nel ridicolo! Ma non disse addirittura di no; anzi, il concetto di aiutare uno che facesse concorrenza al Paradiso delle signore, non gli dispiaceva; aveva già esperimentato cotesto sistema per le banche, suscitare concorrenti per liberarsi da altri. E poi a tutto quell’armeggio ci si divertiva; promise di pensarci su.
Enrichetta si riaccostò al Bouthemont, disse in un orecchio:
— Bisogna che stasera discorriamo un po’ insieme; verso le nove; non mancate. Il barone è dalla nostra!
La sala sonava intanto di voci. Il Mouret, sempre in piedi, tra le signore, era tornato quel di prima, e con garbo si difendeva dall’accusa di rovinarle a forza di cenci; offriva di provare coi numeri alla mano che faceva loro risparmiare il trenta per cento in ogni compra. Il barone lo guardava, ammirandolo daccapo con un’intrinsichezza da Don Giovanni invecchiato.
Il duello era bell’e finito; Enrichetta ne aveva buscate lei; non era lei quella che doveva venire a vendicare le altre. E gli parve rivedere il profilo modesto della ragazza che già aveva vista nell’attraversare l’anticamera. Era là, paziente; la sola che fosse da temere, appunto per quella dolcezza.