Il paradiso delle signore/10
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Traduzione dal francese di Ferdinando Martini, Guido Mazzoni (1936)
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Dionisia non scese alle otto con le compagne. Da cinque giorni se ne stava in camera sua per una storta presa nel salire al laboratorio: stava meglio; ma la signora Aurelia non era severa con lei, ed essa non si affrettava, mettendosi gli stivaletti con pena, per quanto fosse risoluta a scendere nella sezione.
Le stanze delle ragazze tenevano ora tutto il quinto piano dei fabbricati nuovi, lungo Via Monsigny: erano sessanta da una parte e dall’altra d’un corridoio, e un po’ migliori di prima, benché col lettino, l’armadio, la toilette di prima. Ma Dionisia, come aiuto della direttrice, aveva una delle stanze piú belle, con due finestre sulla strada; e, ricca come le pareva d’essere, se l’era abbellita da sé, con un piumino rosso coperto di trina, un tappetino davanti l’armadio e due vasi di cristallo celeste sulla toilette con qualche rosa mezzo appassita.
Quando si fu messa gli stivaletti, tentò di camminare per la stanza; ma le fu forza d’appoggiarsi ai mobili, perché zoppicava ancora. Sperava, camminando, di vincere il male; ma non aveva accettato l’invito quella sera a pranzo dallo zio Baudu, e aveva pregato la zia di portare a spasso Beppino, che aveva rimesso dalla Gras. Gianni, che il giorno avanti era venuto a farle visita, doveva anche lui desinare dallo zio.
Pian piano si sforzava a camminare, con l’intenzione d’andare a letto presto, per riposarsi la gamba, quando la sorvegliante, la Gabin, picchiò e le diè una lettera con aria di mistero.
Chiuso l’uscio, Dionisia, meravigliata del sorriso furbo di quella donna, aprí la lettera. Diventò pallida pallida, e si lasciò andare su una seggiola. Era una lettera del Mouret, nella quale egli, dicendosi contentissimo di saperla guarita, la pregava, giacché non poteva uscire, di scendere la sera a desinare con lui. Il tono di quel biglietto, familiare a un tempo e paterno, non aveva nulla d’offensivo, ma non c’era da fraintenderlo; tutti nel Paradiso sapevano ciò che quegli inviti volessero dire, e ne avevano ormai fatta una leggenda. Anche Clara aveva pranzato col padrone, ed anche tante altre; tutte quelle che gli piacevano. Dopo il desinare, dicevano quei burloni dei commessi, veniva il dolce. E le gote pallide della giovinetta si fecero a poco a poco di fiamma.
Allora la lettera le scivolò dai ginocchi, e Dionisia, mentre il cuore le batteva forte, rimase con gli occhi fissi su una delle finestre. L’aveva confessato fra sé piú volte, in quella camera stessa, nelle ore d’insonnia; se tremava ancora quand’egli passava, lo sapeva che non era per paura; e quel malumore di prima, quella sua antica trepidazione, non potevano essere che il sussulto inconscio dell’amore, il turbamento d’un affetto nascente nella sua selvaggia anima di fanciulla. Non ragionava piú, sentiva soltanto ch’essa l’aveva sempre amato, fin dal momento che aveva dovuto fremere e balbettare dinanzi a lui. L’amava quando ne aveva timore come d’un padrone spietato; l’amava quando in cuor suo pensava confusamente all’Hutin, cedendo, senza accorgersene, ad un bisogno d’amore. Se anche si fosse data a un altro, non avrebbe amato che quell’uomo il cui sguardo l’atterriva. E tutto il passato le riviveva dinanzi, svolgendosi nella luce viva della finestra, la severità dei primi mesi, la passeggiata cosí dolce sotto le ombre nere delle Tuileries; per ultimo, i desideri dei quali egli la carezzava dal giorno in cui era tornata. La lettera scivolò per terra, e Dionisia seguitò a guardare la finestra che, colpita in pieno dal so le, l’accecava.
A un tratto sentí picchiare, e si affrettò a raccattare la lettera e a ficcarsela in tasca. Paolina, con un pretesto qualsiasi, era venuta via dalla sezione per chiacchierare un po’ con lei.
— Come vi sentite? Non vi si vede piú!
Ma essendo proibito salire nelle stanze, e soprattutto chiudervisi in due, Dionisia la portò in fondo al corridoio dove c’era il salotto, regalo del Mouret alle ragazze, che ci potevano passare la serata aspettando le undici. La stanza, dipinta a bianco e oro, volgare come un salotto di albergo, era ammobiliata con un pianoforte, un tavolino in mezzo, poltrone e canapé coperti di fodere bianche.
— Posso camminare, ora — disse Dionisia. — Stavo per venir giú.
— Brava, brava davvero! Questo si chiama pigliarsela calda... Io, per me, starei qui in santa pace, niente niente che avessi una scusa!
S’eran messe a sedere su un canapè. Paolina, da quando l’amica era vicedirettrice alle «confezioni », non la trattava piú come prima: nella sua familiarità c’era ora un po’ di rispetto; e un po’ di sorpresa anche, vedendo quella pove ra figlioluccia procedere per la via della fortuna Ma Dionisia le voleva lo stesso bene, e si confidava a lei sola, tra le duecento donne impiegate nel Paradiso.
— Che v’è accaduto? — chiese vivamente Paolina, quando si accorse del turbamento di lei.
— Nulla, nulla! — rispose, cercando di sorridere.
— Sí, sí, avete qualcosa... Dunque non vi fidate di me, se non mi dite piú i dispiaceri che avete!
Allora Dionisia lasciò sfogare la commozione che le gonfiava il petto, e che non le riusciva frenare. Dette la lettera all’amica, e balbettò:
— M’ha scritto! guardate.
Tra di loro non avevano parlato mai apertamente del Mouret; ma quel silenzio stesso era un confessare i loro segreti pensieri. Paolina sapeva tutto. Dopo aver letto la lettera del Mousi strinse addosso a Dionisia, l’abbracciò, e le sussurrò dolcemente:
— Piccina mia, se volete che vi dica la verità, credevo che foste già d’accordo. Non ve la pigliate in cotesta maniera; tutti nel magazzino lo credono, come lo credevo io. Perdinci! v’ha nominata cosí di salto e poi v’è sempre intorno! come si fa a non accorgersene?
La baciò piano sui capelli, e poi le domandò:
— Stasera ci andrete, non è vero?
Dionisia la guardò senza rispondere, e a un tratto si mise a singhiozzare, appoggiando il capo sulla spalla dell’amica. Questa ebbe a stupire.
— Via! via! datevi pace. Non c’è nessuna ragione per scalmanarsi cosí!
— No, no! lasciatemi stare, — rispose fra i singulti Dionisia. — Se sentiste che dispiacere! Da che ho avuto questa lettera, non respiro piú. Lasciatemi piangere; mi fa tanto bene...
Commossa anche lei, sebbene non ci capisse nulla, Paolina fece ciò che poté per consolarla. Prima di tutto, con Clara, lui non ci andava piú: dicevano che aveva una signora fuori, ma chi sa s’era vero! E poi d’uno come il Mouret non si poteva essere gelosa: era proprio ricco; e... in fin dei conti, non era il padrone lui?
Dionisia stava a sentire; e se avesse dubitato ancora del proprio amore se ne sarebbe accertata sentendo di che spasimo la trafiggeva il nome di Clara e l’allusione alla Desforges che, con disprezzo da gran signora, la portava su e giú pei magazzini.
— Ma ditemi, ci andreste, voi?... — chiese alla fine.
Paolina, senza nemmeno stare a pensarci su, esclamò:
— Lo credo io! non se ne potrebbe mica fare a meno!
Poi ci rifletté e aggiunse:
— Ora no; perché sto per pigliare il Baugé, e non voglio far del male io...
Il Baugé, che da poco era entrato nel Paradiso, lasciando il magazzino suo, stava veramente per sposarla ai primi di agosto. Il Bourdoncle non li poteva soffrire i matrimoni, ma ormai avevano fatto le carte, e confidavano anzi in quindici giorni di permesso per godersi la lun adi miele.
— Lo vedete, — disse Dionisia — quando si vuol bene davvero, si sposa... Il Baugé vi sposa.
Paolina dette in uno scoppio di risa, e abbracciò da capo l’amica:
— Ma, cara mia, non è mica lo stesso! Il Baugé mi sposa perché è il Baugé: da pari a pari, si sa! Ma il signor Mouret! che il signor Mouret se la può sposare una delle ragazze del suo magazzino?
Rise anche più forte, e dette un altro bacio sui capelli a Dionisia.
Il suo viso grosso con gli occhi teneri si atteggiava a commiserazione materna. Poi si alzò, aprí il pianoforte e sonò con un dito solo il Re Dagoberto, certamente per buttare un po’ d’allegria in tanta tristezza di cose. Nella nudità del salotto, di cui le fodere bianche pareva ingrandissero il vuoto, salivano i rumori della vita, il grido lontano d’una donna che vendeva piselli. Dionisia s’era quasi sdraiata sul canapè, appoggiando la testa al legno, scossa da un nuovo impeto di singulti che soffocava nel fazzoletto.
— Da capo! disse Paolina voltandosi. — Non avete punto giudizio... Perché mi avete portata qui? era meglio restare in camera vostra!
Le si inginocchiò davanti, e ricominciò a addurle ragioni. Quante altre avrebbero voluto essere nel caso suo! e poi, se non voleva, bastava che dicesse di no, senza bisogno di piangere tanto. Ma ci doveva pensare sul serio, prima di arrischiare. il posto con un rifiuto che non si capiva, una volta che lei non aveva altri impegni. Di che mai credeva si trattasse? E la predica finiva con degli scherzi sussurrati furbescamente, quando si sentirono dei passi nel corridoio.
Paolina s’era alzata per dare un’occhiata fuori dell’uscio.
— Zitta! la signora Aurelia! Scappo via subito. E voi asciugatevi gli occhi. Non c’è bisogno che lo sappiano tutti.
Quando Dionisia fu sola, si alzò e si forzò a rattenere le lacrime; con le mani, che ancora le tremavano per la paura d’essere trovata lí a non far nulla, richiuse il pianoforte, che Paolina aveva lasciato aperto. Ma sentí la signora Aurelia picchiare all’uscio di camera, e s’affrettò fuori del salotto.
— Come! vi siete levata? — esclamò la direttrice. È un’imprudenza bella e buona, piccina mia. Venivo appunto a sentire come stavate, e dirvi che giú non abbiamo punto bisogno di voi.
Dionisia le accertò che stava molto meglio, e che, anzi, il distrarsi le avrebbe fatto bene.
— Non mi straccherò mica. Mi metterete a sedere, e scriverò gl’inventari.
Scesero. La signora Aurelia, tutta premurosa, l’obbligava ad appoggiarsi sulla sua spalla; s’era certamente accorta degli occhi rossi della ragazza, e le dava sbirciate indagatrici. Doveva sapere ogni cosa.
Quella di Dionisia era una vittoria affatto insperata; aveva finalmente dalla sua tutta la sezione. Dopo essersi per quasi dieci mesi dibattuta fra i tormenti delle principianti senza riuscire a stancare il maligno animo delle compagne, era giunta in poche settimane a dominarle e a vedersele intorno tutte obbedienti e rispettose. L’improvvisa benevolenza della signora Aurelia l’aveva grandemente aiutata nella difficile impresa di conciliarsi i cuori. Si andava bucinando che la direttrice era la mezzana del Mouret, e che, se aveva presa con tanto fervore la giovinetta sotto la sua protezione, voleva dire che le era stata particolarmente raccomandata; anche Dionisia aveva fatto di tutto per disarmare le nemiche; il che tanto meno era facile, dovendosi insieme far perdonare la nomina a vicedirettrice.
ma Le ragazze dicevano ch’era una ingiustizia e l’accusavano di essersela guadagnata a un desinare col padrone: davano perfino dei particolari inenarrabili. Ma avevano un bel ribellarsi: quel titolo di vice le faceva stare a dovere, e Dionisia prendeva un’autorità che meravigliava e faceva piegare anche le piú ostili. Ben presto ebbe, tra le ultime venute, delle adulatrici; la sua dolcezza e modestia compirono la vittoria; Margherita passò dalla sua. Clara sola seguitò a far la cattiva, gittando là ogni tanto la vecchia ingiuria di sciattona, che ormai non faceva piú ridere nessuno. Del breve capriccio del Mouret si era approfittata per non far piú nulla, in un ozio ciarliero e vanitoso; quando lui non ne volle saper piú, non si lamentò nemmeno, non potendo sentire la gelosia in quella vita che menava; e fu contenta e paga del guadagno d’essere tollerata senza far nulla. Ma secondo lei, la sciattona le aveva rubato il posto della Frédéric. Non l’avrebbe accettato, perché c’era troppo da fare; eppure non poteva tollerare in santa pace quella mancanza di riguardo, avendo gli stessi diritti dell’altra; anzi diritti maggiori per via dell’anzianità.
— Guardate! ora che ha partorito, la portano a spasso! — mormorò, quando vide che la signora Aurelia sorreggeva Dionisia.
Margherita si strinse nelle spalle dicendo:
— Codesta, cara mia, non sa di nulla.
Sonarono le nove. Fuori, un cielo d’un azzurto infocato scaldava le vie; delle carrozze correvano verso le stazioni; tutta la gente vestita a festa si avviava in lunghe file verso la campagna. Nel magazzino inondato dal sole, per i finestroni spalancati, gl’impiegati avevano cominciato allora a far l’inventario.
Avevan chiuse le porte: e la gente si fermava sul marciapiede, meravigliata di veder chiuso quando invece dentro c’era un gran da fare. Di cima in fondo alle gallerie, nelle corti, dal primo all’ultimo piano, era un tramestio di commessi, braccia per aria, pacchi che volavano sulle teste, in mezzo a una tempesta di cifre, e ripetute con una confusione di voci alte, che saliva e turbinava in un frastuono assordante.
Ogni sezione lavorava per conto suo, senza darsi pensiero della sezione accanto: erano proprio sul principiare; giacevano per terra, soltanto poche merci. Se volevan finire in serata, bisognava tirar via.
— Perché siete scesa? — domandò cortesemente Margherita a Dionisia. — Vi farete del male, e qui c’è quanta gente si vuole.
— Glie l’ho detto anch’io! — soggiunse la signora Aurelia — ma ha voluto fare a modo suo.
Tutte le ragazze s’affollarono intorno a Dionisia, interrompendo il lavoro, per rallegrarsi con lei, e ascoltare il racconto della sua storia, interrompendolo via via con esclamazioni.
Finalmente la signora Aurelia la mise a sedere su una seggiola, davanti a un banco; doveva contentarsi di segnare la roba che a mano a mano era calata dagli scaffali. La domenica dell’inventario, quanti sapevano tenere una penna in mano, erano visti e presi: gl’ispettori, i cassieri, gli impiegati dell’amministrazione, perfino i garzoni; anzi le sezioni si disputavano quell’aiuto momentaneo, per far piú presto. Cosí Dionisia si sedé tra il Lhomme e Giuseppe, chini tutt’e due su grandi fogli di carta.
— Cinque mantelli stoffa, guarniti pelliccia, gridava terza grandezza, duecentoquaranta! — gridava Margherita. — Quattro idem, prima grandezza, duecentoventi!
Il lavoro ricominciò. Dietro Margherita, tre ragazze votavano gli armadi, mettevano in ordine la roba, gliela passavano a pacchi; e quando lei aveva detto che cosa erano, e il prezzo, li buttava su delle tavole, dove a poco a poco formavano mucchi enormi.
Il Lhomme scriveva, e Giuseppe faceva un’altra lista per riscontro: la signora Aurelia in persona, aiutata da tre ragazze, contava da sé i vestiti di seta, che Dionisia appuntava scrivendo in un foglio. Clara doveva stare attenta ai mucchi della roba, e ordinarli in modo che tenessero il minor posto possibile lungo le tavole; ma ci stava poco attenta, e qualche mucchio minacciava di rovinare.
— Dite un po’, — chiese a una ragazzetta entrata quell’inverno — vi crescono qualche cosa a voi? La vice la metteranno a duemila franchi, e cosí con gli altri guadagni si beccherà quasi settemila franchi l’anno!
L’altra, senza smettere di passare mantelli, rispose che, se non le dessero ottocento franchi, se n’andrebbe. Gli aumenti si facevano sempre il giorno dopo l’inventario: e al tempo stesso, sapendosi ormai quanti affari erano stati fatti nel corso dell’anno, i capi delle sezioni avevano un tanto sull’aumento della somma paragonata con quella dell’anno scorso. Perciò, anche se c’era confusione e molto da fare, le chiacchiere seguitavano fervide. Tra un pacchetto e l’altro non si discorreva che del danaro. Correva voce che alla signora Aurelia sarebbero toccati piú di venticinquemila franchi; e ognuno s’immagina quanto le ragazze vi ricamassero sopra! Margherita, la piú brava a vendere dopo Dionisia, s’era guadagnata quattromilacinquecento franchi, millecinquecento di stipendio, e quasi tremila del tanto per cento; Clara non arrivava, tutto compreso, a duemilacinquecento.
— Che me n’importa a me dei loro aumenti? — ripigliava quest’ultima, volgendosi da capo alla ragazza. — Se il babbo fosse morto, lo vedrebbero se ci resterei un minuto! Ma ciò che non mi va giú, sono quei settemila franchi che si pappa quello strofinacciolo là! E voi?
La signora Aurelia interruppe stizzita la conversazione, voltandosi con la sua aria da imperatrice:
— Zitte un po’! Non si capisce piú nulla!
Poi si rimise a sedere, e continuò:
— Sette mantiglie, siciliana, prima grandezza, centotrenta. Tre pellicce, seconda grandezza, centocinquanta. Vo troppo lesta?
— No — rispose Dionisia.
Allora Clara dové occuparsi, un momento, dei vestiti che s’ammucchiavano sulle tavole; con due spinte fece un po’ di largo. Ma li lasciò da capo andare come volevano, per rispondere a uno che cercava di lei; era il Mignot, che aveva piantata la sua sezione per chiederle in prestito venti franchi. Gliene doveva dare di già trenta, che s’era fatti prestare da lei il giorno dopo le corse, perché aveva, purtroppo, perduto tutto il guadagno della settimana su un cavallo: questa volta s’era bell’e mangiato il guadagno intascato il giorno innanzi, e non gli restavano cinquanta centesimi per festeggiar la domenica. Clara non aveva che dieci franchi, e glieli prestò garbatamente: si misero quindi a discorrere, e parlarono d’una cenetta in sei, che avevano fatta in una trattoria di Bougival, dove le donne avevano pagato la parte loro; cosí eran piú contenti tutti.
Ma il Mignot aveva bisogno di altri dieci franchi, e andò a parlare in un orecchio al Lhomme; questi, frastornato nel suo lavoro, parve seccato: eppure non osò rifiutare, e cercava il denaro nel portamonete, quando la signora Aurelia, stupita di non sentir piú la voce di Margherita che aveva dovuto smettere anche lei, vide il Mignot e capí subito di che si trattava. Non c’era davvero bisogno che le venisse a distrarre le ragazze! E lo mandò via come un cane.
La verità era che aveva una gran paura di quel giovinotto, amico intimo del suo Alberto, il complice delle brutte storie ch’essa temeva andassero un giorno o l’altro a finir male. Per questo, quando il Mignot ebbe i dieci franchi e scappò, non poté trattenersi dal dire al marito:
— Come si fa a lasciarsi gabbare cosí?
— Ma, amor mio, io non potevo mica dirgli di no...
Lei alzò le spalle, e gli chiuse la bocca. Poi, vedendo che le ragazze, sotto sotto, se la godevano di quel battibecco, riprese severamente:
— Via, signorina Margherita, non ci addormentiamo... Se no, non se n’esce piú.
— Ventotto paltoncini, casimirra doppia, quarta grandezza, diciotto e cinquanta — gridò Margherita con voce cadenzata.
Il Lhomme ricominciò a scrivere, a testa bassa. A poco a poco il suo stipendio era salito a novemila franchi, ed era umile umile, innanzi alla moglie che gli portava in casa, ogni anno, tre volte tanto.
Per un po’ lavorarono di voglia: le cifre volavano, i pacchi piovevano fitti fitti sulle tavole. Ma Clara aveva inventata un’altra distrazione, ed era di piccheggiare Giuseppe, attribuendogli un amore furibondo per una signorina impiegata ai campioni. Costei, che non aveva meno di ventotto anni, magra e pallida, era protetta dalla Desforges che l’aveva fatta a ogni costo prendere dal Mouret, raccontandogli una storia commovente: era orfana, l’ultima dei Fontenailles, famiglia di antica nobiltà del Poitou; ed era capitata a Parigi con un babbo ubriacone, rimanendo onesta, per quanto disgraziatamente non fosse stata educata in modo da poter fare la governante o la maestra di pianoforte.
Il Mouret, di solito, s’arrabbiava tutte le volte che gli raccomandavano signore decadute; non c’era, diceva, gente piú zuccona e antipatica di loro: e poi a stare al banco non s’impara mica da un momento all’altro! Ci voleva un tirocinio, perché era un mestiere difficile e delicato. Con tutto ciò, prese la protetta della Desforges, ficcandola nell’ufficio dei campioni come già, per non dir di no a degli amici, aveva ficcate due contesse ed una baronessa a quello degli avvisi e cataloghi, dove non facevano che fasce e buste.
La signorina di Fontenailles guadagnava tre franchi il giorno, e cosí tirava innanzi nella sua stanzuccia di Via d’Argenteuil. Nel vederla sempre seria, vestita poveramente, il cuore di Giuseppe, cuore dolce, sotto la muta rigidità da soldato, s’era commosso. Non lo confessava, ma quando le ragazze del vestiario lo canzonavano, arrossiva. L’ufficio dei campioni era in una stanza vicina, e loro lo vedevano girandolare continuamente dinanzi all’uscio.
— Giuseppe si distrae un po’ troppo! sussurrò Clara il naso gli si volta verso la sezione della biancheria!
La Fontenailles aiutava a far l’inventario dei corredi; e siccome il garzone gettava davvero ogni poco qualche occhiata verso quella parte, le ragazze si misero a ridere. Lui si turbò e si tuffò nei suoi fogli, mentre Margherita, per soffocare la risata che le solleticava la gola, gridò piú forte che mai:
— Quattordici giacchette, panno inglese, seconda grandezza, quindici franchi!
A un tratto la signora Aurelia, che stava per contare i mantelli, ebbe velata la voce, e, con una maestosa lentezza, disse visibilmente arrabbiata:
— Un po’ piú piano, signorina! Non siamo in mercato! E fate a chi fa peggio, a divertirvi cosí con delle ragazzate, quando il nostro tempo è tanto prezioso!
Nemmeno a farlo apposta, in quel punto, siccome Clara non ci guardava, i mucchi della tavola scivolarono un dopo l’altro per terra, e il tappeto ne fu coperto.
— Che vi dicevo io? — gridò la direttrice, fuor di sé. — State attenta, signorina Clara: cosí non si può andare avanti!
Ma un fremito si propagò; il Mouret ed il Bourdoncle, che facevano il loro giro solito d’ispezione, eran comparsi. Ricominciarono subito le voci e lo scricchiolio delle penne, mentre Clara si affrettava a raccattare i vestiti. Il padrone non interruppe il lavoro: rimase per qualche minuto lí fermo, sorridendo senza aprir bocca: soltanto le sue labbra avevano un tremito febbrile, nonostante l’allegria che gli si leggeva sul volto in quel trionfale giorno dell’inventario. Quando si accorse di Dionisia, mancò poco non gli sfuggisse un gesto di stupore: dunque era scesa? E i suoi occhi s’incontrarono con quelli della signora Aurelia. Poi dopo un istante di titubanza, se n’andò ed entrò nella sezione accanto.
Dionisia, avvertita dal leggiero bisbiglio, aveva alzata la testa. E, riconosciuto il Mouret, si era chinata di nuovo sui fogli, facendo finta di nulla. Da quando s’era messa a scrivere meccanicamente in mezzo ai gridi regolari delle ragazze, si sentiva piú tranquilla. Aveva sempre ceduto in quella maniera stessa al primo assalto della sensibilità; le lacrime la soffocavano, la passione le raddoppiava i tormenti: poi si faceva una ragione, e ricuperava il coraggio sereno, una forza di volontà dolce e indomabile. Ed ora, con gli occhi limpidi, il volto pallido, non aveva un brivido, tutta intenta al lavoro, risoluta a spezzarsi il cuore ma non fare altro che ciò che voleva lei.
Sonarono le dieci, e il chiasso dell’inventario si fece sempre maggiore nel tumulto delle sezioni.
Fra i gridi lanciati senza tregua, che s’incrociavano dappertutto, la stessa notizia correva ora in ogni parte, con velocità incredibile; ogni commesso sapeva di già che il Mouret aveva scritto quella mattina a Dionisia, per invitarla a pranzo. La colpa era di Paolina. Mentre tornava giú commossa ancora, aveva incontrato il Deloche nella sezione delle trine, e, senza badare che il Liénard gli stava discorrendo, s’era sfogata con lui:
— Ormai quel ch’è stato è stato, caro Deloche... Ha avuta la lettera. La invita per stasera, Il Deloche era divenuto livido; aveva capito subito, perché non mancava giorno che non discorresse con Paolina della loro amica comune, del capriccio del Mouret, di quel famoso invito che, prima o poi, doveva chiudere il primo capitolo del romanzo. Del resto, lei lo sgridava perché voleva bene nascostamente a Dionisia, con la quale, tanto, non c’era sugo. E quando egli approvava la giovinetta, perché resisteva al padrone, lei si stringeva nelle spalle.
Il piede sta meglio; ora vien giú — continuò Paolina. — O perché fate quel viso da mortorio?... È una fortuna per lei!
E si affrettò a tornare nella sua sezione.
— Ah, ah! — mormorò il Liénard che aveva sentito tutto — si tratta della signorina che ha la storta a un piede... Avevate ragione voi, ieri sera, di difenderla al caffè! avevate proprio ragione!
E anche lui scappò via. Ma prima d’esser tornato al suo banco, aveva già raccontata la cosa a quattro o cinque commessi. In meno di dieci minuti non ci fu piú uno, nel magazzino, che non la sapesse.
Le ultime parole del Liénard si riferivano a una scena avvenuta la sera innanzi nel caffè San Rocco. Il Deloche e lui s’eran fatti intimi, e stavano sempre insieme. Quando l’Hutin, nominato aiuto, si era preso un appartamento di tre stanze, il Deloche era andato a stare all’albergo Smirne, nella stanza di lui; e i due commessi ogni mattina venivano insieme al Paradiso, e la sera s’aspettavano per uscire insieme. Le loro camere, ch’erano accanto, davano sullo stesso cortile buio, quasi un pozzo che ammorbava col suo lezzo tutto l’albergo. Per quanto fossero differenti d’indole, vivevano assai d’accordo, l’uno mangiandosi, senza un pensiero al mondo, il denaro che cavava di sotto il babbo, l’altro senza mai un soldo, tormentato dal pensiero dell’economia; con questo di comune tutt’e due, che sapevano di far poco o niente, come venditori, e vegetavano al loro banco, senza mai crescere i guadagni. Usciti dal magazzino, passavano la serata al caffè San Rocco, che, sempre vuoto nella giornata, la sera verso le otto e mezzo si empiva e traboccava degl’impiegati ai quali il portone di Piazza Gaillon dava la via. E allora cominciava un tramestío, un fragore da assordare, di pezzi del domino, di risate, di sedie, in mezzo al fumo spesso delle pipe. Birra e caffè dovevano essere mesciuti a fiotti. Nel cantuccio a sinistra, il Liénard chiedeva sempre cose che costavano molto, il Deloche si contentava d’un bicchiere di birra che gli durava quattr’ore. Aveva sentito lí il Favier, alla tavola accanto, raccontare cose infami di Dionisia; il modo, per esempio, col quale aveva aggranfiato il padrone, tirandosi su le sottane quando saliva le scale davanti a lui. Poco c’era mancato che non gli appiccicasse uno schiaffo: e sentendo che l’altro seguitava a dire che la ragazza scendeva tutte le notti in camera del padrone, furibondo gli aveva dato del bugiardo e del temerario.
— Chetati, brutto porco!... Non è vero nulla, non è vero nulla!
E, con sussulti di commozione, non pensava a frenarsi piú, e, balbettando, sfogava l’amor suo:
— Io lo so, la conosco io!... Non ha voluto bene che a uno, all’Hutin, e lui non se n’è nemmeno accorto; non si può nemmeno vantare di averle toccato la punta d’un dito!
Il racconto di questo diverbio, abbellito con tutte le frange possibili e immaginabili, faceva ridere già tutto il magazzino, quando entrò in ballo anche la lettera del Mouret. Per l’appunto il primo a sapere la cosa dal Liénard fu un commesso delle sete. Nella sezione delle sete l’inventario procedeva alla lesta: il Favier e due impiegati, ritti su degli sgabelli, votavano gli scaffali, passando di mano in mano le stoffe all’Hutin, che, ritto anche lui su una tavola, dava un’occhiata ai cartellini e diceva il prezzo; poi le buttava in terra dove salivano, salivano, come una marea d’autunno. Altri scrivevano, aiutati da Alberto Lhomme tutto intontito per aver fatta nottata in una casaccia di Batignolles. Dall’invetriata della corte cadeva un raggio di sole, e s’intravedeva l’azzurro infiammato del cielo.
— Perché non tirate le tende? — esclamò il Bouthemont, tutt’attento a sorvegliare. — Non si resiste, con questo sole!
Il Favier, che s’alzava sulla punta dei piedi per pigliare una pezza di stoffa, mormorò fra i denti:
— Guarda se si deve star chiusi con una giornata come questa! Piovesse mai, i giorni d’inventario!... E vi serrano a catenaccio come i galeotti, quando non c’è uno in tutta Parigi che stia in casa!
E passò la stoffa all’Hutin. Sul cartellino segnavano ogni volta quanti metri ne avevano venduti, e cosí il lavoro era molto più facile. L’Hutin gridò:
— Seta di fantasia a quadratini, ventun metri, sei e cinquanta!
La seta andò per terra a ingrossare il monte:poi l’Hutin continuò, voltosi al Favier, una conversazione cominciata innanzi:
— Dunque vi voleva proprio picchiare?
— E come! Io ero lí che bevevo tranquillamente un bicchiere di birra... Metteva proprio il conto di darmi del bugiardo! stamattina la ragazza ha avuta una lettera del padrone che l’invita a pranzo... Lo sanno di già tutti.
— Ma come? dunque ancora non s’erano intesi!
Il Favier gli porse un’altra pezza:
— Chi se lo poteva immaginare! Si sarebbe messa tutti la mano sul fuoco: pareva una cosa fatta e strafatta.
— Idem, venticinque metri! gridò l’Hutin.
Mentre la stoffa cadeva, aggiunse a voce piú bassa:
— Da quel vecchio matto del Bourras, ne ha fatte di tutte!
La sezione non ne poteva piú dal ridere, senza che per altro il lavoro ne fosse interrotto.
Si passavano il nome della ragazza, le spalle s’inarcavano, i nasi si arricciavano, come per un odore ghiotto.
Il Bouthemont medesimo, che in quei discorsi ci si crogiolava, non poté trattenersi dal buttar là uno scherzo di assai cattivo gusto, gongolando dal piacere. Alberto, scosso dalle risate, giurò di aver veduta la innocentina tra due soldati, a un veglione. Scendeva in quel punto il Mignot con i venti franchi che s’era fatto prestare, e s’era fermato a metterne dieci nella mano d’Alberto dandogli un appuntamento per la serata; una cenetta che aveva avuto paura di non poter piú fare, e che ora si poteva arrischiare, sebbene i soldi non fossero troppi. Ma il bel Mignot, quando seppe della lettera, fece un’osservazione di tal fatta, che il Bouthemont fu costretto a intervenire:
— Basta, basta! Noi non c’entriamo per nulla... Via, via, signor Hutin!
Le penne ricominciarono a correre sui fogli, i pacchi a cadere regolarmente; e le stoffe salivano sempre, e l’inventario continuava incessante. Il Favier, sommessamente, fece osservare che della roba ce n’era; la Direzione sarebbe proprio stata contenta, perché quel bestione del Bouthemont era forse il piú bravo per le compre che ci fosse a Parigi, ma a vendere non s’era mai visto un torsolo come lui. L’Hutin sorrideva godendosela, e approvava con benevole occhiate; perché, dopo aver messo proprio il Bouthemont nel Paradiso per mandar via il Robineau, ora dava sotto nascostamente a quest’ultimo, sempre con l’intento di rubargli il posto. Era la stessa guerra di prima; perfide calunnie sussurrate all’orecchio dei capi, ostentazioni di zelo, per mettersi innanzi, un assedio in piena regola, condotto con affabile volponeria. E il Favier, che l’Hutin trattava ora amichevolmente, lo guardava di sotto in su, magro e freddo, pieno di bile, come se aspettasse che il compagno si fosse ingoiato il Bouthemont per ingoiar lui a sua volta. Sperava, infatti, di diventare aiuto, se Hutin diventava capo: dopo, avrebbero fatto i conti tra loro due. Presi anch’essi dalla febbre che infiammava tutti, non facevano che parlare degli aumenti probabili: seguitando a far l’inventario, prevedevano che al Bouthemont non potevano toccare quell’anno meno di trentamila franchi, all’Hutin diecimila. Il Favier diceva che fra tutto doveva averne cinquemila e cinquecento. D’anno in anno gli affari della sezione crescevano, e i commessi salivano di grado e di stipendio, come gli ufficiali in tempo di guerra.
— Ma non finiscono mai, queste sete benedette? — disse a un tratto il Bouthemont, alquanto scontento. Che primavera è stata questa! Non è mai smesso di piovere! E non è andata che la seta nera.
Il suo faccione ridente si faceva serio nel guardare quel monte farsi sempre piú alto, mentre l’Hutin ripeteva sonoramente, non senza una certa aria di trionfo:
— Seta di fantasia, a quadrettini, ventotto metri, sei e cinquanta!
Ce n’era un altro palchetto intero. Il Favier, che non ne poteva piú, andava adagio adagio. Nel porgere le ultime pezze all’Hutin, riprese con voce bassissima:
— A proposito; o che non me ne scordavo!... Sapete che la vice delle «confezioni» è stata innamorata morta di voi?
Il giovinotto parve come cascar dalle nuvole:
— To’! e come lo sapete?
— Già, quel grullo del Deloche ce l’ha detto... e me ne ricordo io; tempo fa vi dava certe occhiate!...
Da quando era aiuto, l’Hutin aveva lasciato andare le cantanti dei caffè, e dava a intendere di aver che fare con delle governanti. Lusingato nel suo amor proprio, pur credé di dover rispondere con aria di sprezzo:
— A me piacciono con un po’ piú di roba addosso; e poi non son mica come il padrone, che basta che abbiano la gonnella...
S’interruppe, e gridò:
— Seta bianca, trentacinque metri, otto e settantacinque!
— Finalmente! — sussurrò il Bouthemont tutto contento.
Ma la campanella sonava per la seconda tavolata, della quale era il Favier. Scese dallo sgabello, su cui salí subito un altro, e dové scavalcare le stoffe ch’erano ormai altissime sul pavimento. In tutte le sezioni, lo stesso inciampo; scatole, scaffali, armadi si votavano a poco a poco, e le merci straripavano dappertutto, per terra, sui banchi, sulle tavole. Alla biancheria si sentiva il tonfo dei pacchi di cotone; alla merceria un leggiero rumor di scatole; dai mobili un lontano rotolio. Tutte le voci, stridule, gros— se, salivano insieme; le cifre sibilavano per l’aria; un clamore come quello dei boschi d’inverno, quando il vento soffia tra i rami, correva per l’immensa navata.
Il Favier, alla fine, riuscí a sbrigarsi di quegl’impacci, e infilò la scala del refettorio che, dopo gli ultimi ingrandimenti, era al quarto piano nelle nuove fabbriche. Tanto si affrettò, che raggiunse il Deloche e il Liénard saliti prima di lui; e allora aspettò il Mignot che gli veniva dietro.
— Oh! oh! — disse nell’andito di cucina, davanti alla lavagna dov’era scritto ciò che avevano a colazione — oggi si vede che è giorno d’inventario! Festa intera! Pollo o spezzatino di agnello, e carciofi sott’olio!... Vedrete che bontà, quello spezzatino!
II Mignot sogghignando mormorava:
— Ci dev’essere una malattia nel pollame!...
Il Deloche e il Liénard avevano preso intanto le loro porzioni, e se n’erano andati. Allora il Favier, chinandosi allo sportello, chiese a voce alta:
— Pollo!
Ma dové aspettare un po’, perché uno dei garzoni, nel far le parti, s’era tagliato.
Rimase col viso allo sportello a guardare la cucina, una cucina da gigante, con un gran fornello in mezzo, sul quale, per un congegno di carrucole e funi, venivano a posarsi certe marmitte smisurate che quattro uomini non sarebbero bastati ad alzare. I cuochi, bianchi sul rosso acceso del fuoco, stavano attenti alle pentole pel desinare, ritti su scale di ferro e con in mano lunghi bastoni che avevano in fondo lo schiumatoio. Attaccate al muro si vedevano gratelle sufficienti a far arrostire dei martiri, casseruole da mettervi dentro un montone intero, uno scaldapiatti immenso, una vasca di marmo empiuta continuamente da una cannella d’acqua. Di piú, a sinistra, c’erano degli acquai di pietra larghi come piscine, e a destra una dispensa dove si scorgevano pezzi di carne cruda pendenti da uncini di ferro, una macchina per sbucciare le patate che, quando andava, pareva, al rumore, un mulino, e due carrettini carichi d’insalata, che dei garzoni spingevano a rinfrescare sotto una fontanella.
— Pollo! ripeté il Favier che perdeva la pazienza.
E volgendosi, aggiunse piú sommessamente:
— Uno s’è tagliato... Fa schifo; il sangue cola sulle pietanze.
Il Mignot volle vedere anche lui; i commessi dietro a loro si affollavano sempre con grandi risate e spintoni. E i due giovani, li allo sportello, parlavano di quella cucina da falanstero, nella quale i piú piccoli utensili, perfino gli spiedi e i taglieri, erano giganteschi. Bisognava che preparassero duemila colazioni e duemila pranzi; e gl’impiegati crescevano ogni settimana. Ci volevano ogni giorno sedici quintali di patate, centoventi libbre di burro, ottocento chilogrammi di carne; volta per volta, dovevano sturare tre botti: quasi settecento litri erano mesciuti sul banco dove si distribuiva il vino.
— Ah! finalmente! — disse il Favier, quando il cuoco riapparve con un vassoio e inforchettò una coscia per dargliela.
— Pollo! — disse il Mignot dietro di lui.
E tutt’e due, col piatto in mano, entrarono nel refettorio, dopo aver preso il vino: alle loro spalle la domanda «pollo!» si ripeteva senza tregua, regolarmente, e la forchetta del cuoco infilzava i pezzetti con un piccolo rumore rapido e cadenzato.
Il refettorio era un’immensa sala, dove le cinquecento posate di ciascuna delle tre serie stavano comodamente, messe in fila su lunghe tavole poste parallele, traverso la sala: ai due capi c’erano due tavole simili riservate ai direttori e agli ispettori; nel mezzo, un banco per la roba chiesta oltre l’ordinario. Grandi finestre a destra sinistra rischiaravano d’una luce bianca la galleria, di cui il soffitto, sebbene alto quattro metri, pareva basso, schiacciato com’era dalle altre dimensioni. I muri dipinti a olio, d’un color giallo chiaro, non avevano altro ornamento che gli scaffali per i tovaglioli. Accanto a quel primo refettorio c’era quello dei garzoni e dei cocchieri: non avevano ora fissa, e mangiavano quando il servizio permetteva loro di mettersi a tavola.
— Come! anche a voi, Mignot, è toccata una coscia? — disse il Favier quando si fu messo a sedere a una delle tavole in faccia al compagno, Altri commessi si sederono vicino a loro. I piatti posti sul legno, senza tovaglia, mandavano un suono fesso: e tutti badavano a dire, in quel canto, che le cosce eran troppe!
— Ecco degli altri polli che non hanno che le zampe! — osservò il Mignot.
Quelli poi che avevano le carcasse si lamentavano anche loro. Ma il cibo era molto migliorato dopo gli ultimi lavori. Il Mouret aveva eliminato il gerente; dirigeva da sé la cucina, e anche quello era ormai un servizio come tutti gli altri; c’era la sezione della cucina, col capo, gli aiuti, un ispettore. Spendeva di piú, ma gli lavoravano anche di piú, nutriti meglio: calcolo d’umanità pratica, che aveva assai dato a pensare al Bourdoncle.
— Meno male che il mio non è duro! — riprese il Mignot. — Datemi un po’ di pane!
Il pane faceva il giro; e quando egli se ne fu tagliata una bella fetta, rificcò il coltello nella crosta. I commessi che s’erano indugiati accorrevano in fila, e si mettevano a sedere in fretta e furia; un appetito feroce, raddoppiato dal lavoro di tutta la mattinata, animava le tavole da un capo all’altro della sala. E sempre cresceva il rumore delle forchette, il gorgoglio delle bottiglie, il colpo dei bicchieri posati con troppa forza, il biascichio di cinquecento forti mascelle, che macinavano bravamente. E le parole, non ancora frequenti, si soffocavano nelle bocche piene.
Il Deloche, intanto, tra il Baugé e il Liénard, stava quasi in faccia al Favier, due o tre posti piú in giú. S’eran già lanciati un’occhiata piena di rancore. Quelli accanto, che sapevano la lite del giorno innanzi, sussurravano fra loro. Poi s’eran messi a scherzare sulla sfortuna del Deloche che aveva sempre fame e a cui toccava sempre per maledetto destino il peggior pezzo che ci fosse. Quella mattina gli avevano appioppato un collo di pollo e un po’ di carcassa. Lui, zitto, li lasciava divertire a sue spese, e ingoiava grossi bocconi di pane spellando il collo con l’arte d’uno che ha il debito rispetto a tutto ciò che si mangia.
— Perché non reclamate?... Perché non vi fate cambiar la porzione?
Ma lui si strinse nelle spalle. E a che gli sarebbe servito? Avrebbe fatto peggio. Quando non le pigliava in santa pace, le cose gli andavano anche piú a traverso.
— Sapete che i gomitolai hanno messo su una società? — si mise a un tratto a raccontare il Mignot. — Già, il Gomitolo, il GomitoloClub! Hanno preso una stanza da un vinaio in Via Sant’Onorato, e ci van tutti i sabati.
Parlava dei commessi della merceria. Dettero tutti in una risata: tra due bocconi facevano a chi le diceva piú grosse, con la bocca piena; e soltanto qualche ostinato leggitore di giornali stava qua e là col naso sul foglio, senza badare ad altro. Erano tutti d’accordo su questo, che ogni anno gl’impiegati nei magazzini si facevano piú eleganti: quasi una buona metà parlava ora l’inglese e il tedesco; schiamazzare nei balli pubblici, fischiare nei caffè le cantanti brutte, era passato di moda: erano una ventina d’accordo, mettevano su un circolo.
— E hanno un pianoforte come quelli delle tele? — chiese il Liénard.
— La Società del Gomitolo, il Gomitolo-Club, non ha un pianoforte? Lo credo che l’ha — rispose il Mignot. — E suonano, e cantano. Ce n’è perfino uno, quel cosettino del Bavoux, che legge ogni tanto dei versi.
Le risate raddoppiarono, canzonando il Bavoux: ma sotto quelle risate c’era una grande stima. Poi cominciarono a chiacchierare d’una commedia del Vaudeville, dove un commesso faceva una gran brutta figura; i piú se n’arrabbiavano. Altri si domandavano inquieti a che ora avrebbero potuto venir via, la sera, perché erano aspettati a passare la serata in case terze. E nella immensa sala, tra l’acciottolio sempre crescente dei piatti, si udivano da per tutto conversazioni di quella sorta. Per disperdere un po’ il puzzo di mangiare, che saliva dai cinquecento piatti, erano state aperte le finestre, e gli stoini abbassati ardevano nell’afa di agosto. Soffi infocati venivano su dalla via; riflessi gialli indoravano il soffitto, o tingevano d’una luce rossastra i giovani, che non ne potevano piú dal caldo e dal sudore.
— Guarda un po’ se di domenica, con un tempo come questo, si dovrebbe star chiusi! — ripeté il Favier.
Dalla riflessione di lui furono ricondotti tutti a parlare dell’inventario.
Era stata un’annata fortunatissima; e ricominciarono subito a dire degli stipendi, degli aumenti, argomento inesausto, piú importante d’ogni altro e che li sconvolgeva. I giorni che c’era il pollo, succedeva sempre cosí; erano sovreccitati, e gli urli eran tali da non potersi sopportare. Quando i garzoni distribuivano i carciofi sott’olio, non c’era piú verso di capire ciò che uno dicesse. L’ispettore aveva avuto l’ordine di essere indulgente.
— A proposito, — esclamò il Favier — lo sapete quel ch’è accaduto?
Ma fu interrotto dal Mignot che domandava:
— Chi non vuole il carciofo? fo a baratto con la frutta!...
Nessuno rispose. I carciofi piacevano a tutti.
Quella colazione doveva rimaner memorabile: per frutta avevano avuto, nientemeno, delle pesche!...
— L’ha invitata a pranzo, caro mio, — diceva il Favier a quello accanto, terminando il suo racconto. — Ma come! non lo sapevate?
Lo sapevano tutti; non avevano fatto che parlarne la mattinata intera; e gli scherzi, sempre gli stessi, corsero di nuovo da bocca a bocca.
Il Deloche impallidí; si accorse che lo guardavano, e fissò gli occhi sul Favier, che ripeteva con insistenza:
— Se non l’ha ancora avuta, l’avrà... E non sarà mica il primo!
Anche lui guardava il Deloche; e in aria di sfida aggiunse:
— A chi piacciono gli ossi, con cinque franchi se ne può cavare la voglia!
Ma abbassò di scatto la testa: il Deloche, cedendo a un moto irresistibile, gli aveva gettato sul viso il suo ultimo bicchiere di vino, gridando:
— A te, sudicione, bugiardo! te l’avrei dovuto buttare ieri!
Fu uno scandalo. Alcune gocce erano schizzate su quelli accanto al Favier, che aveva avuti bagnati solo i capelli: il vino, lanciato con troppa forza, era caduto dall’altra parte della tavola. Ma tutti si riscaldavano. Andava a letto con lei, per difenderla cosí? Che razza di bestione! Ci volevano due schiaffi: cosí avrebbe imparato a vivere! Per fortuna, si avvicinava un ispettore, le voci si moderarono: non c’era bisogno di mettere la Direzione al corrente degli affari loro. Il Favier si contentò di sussurrare fra i denti:
— Se m’acchiappava, avreste visto che scena!
E la cosa andò a finire in scherzo.
Quando il Deloche, tremante ancora, volle bere per nascondere il suo turbamento, e afferrò macchinalmente il bicchiere vuoto, ci furono delle risate; ed egli, posando con atto goffo il bicchiere, si mise a succhiare daccapo le foglie di carciofo già rosicchiate.
— Passate la bottiglia al Deloche: ha sete! — disse tranquillamente il Mignot.
Le risa raddoppiarono. I commessi presero dei piatti puliti dalle pile che sorgevano sulla tavola, e i garzoni offriron le pesche portandole attorno in canestri.
Quando il Mignot aggiunse: «Ognuno ha i suoi gusti; al Deloche le pesche piacciono col vino!» poco mancò non schiantassero tutti dalle risate.
Il Deloche restava immobile. Con la testa bassa, quasi sordo, pareva non sentisse che lo canzonavano, e si rammaricò in cuor suo di essersi lasciato andare a quel modo. Avevano ragione loro: perché la difendeva? Chi sa che cosa avrebbero creduto di lei. E si sarebbe dato dei pugni da sé, per averla cosí compromessa mentre la voleva provare innocente. A lui andavano tutte a quel modo; sarebbe stato meglio che fosse crepato lí su due piedi, se non poteva nemmeno cedere al suo cuore senza fare una sciocchezza. Gli salivano le lacrime agli occhi. Non era anche colpa sua, se tutti sapevano della lettera del Mouret? Li sentiva ciarlare e sghignazzare su quell’invito che il solo Liénard aveva saputo; e se n’accusava pensando che non avrebbe dovuto lasciar Paolina discorrere davanti a lui.
— Perché avete raccontato tutto? — gli mormorò alla fine, con voce che mostrava il suo dispiacere. Avete fatto male, malissimo!
— Io? — rispose il Liénard. — Ma se io non l’ho detto che a due o tre, facendomi giurare che avrebbero serbato il segreto... Chi lo sa come le cose facciano a spargersi subito cosí?
Quando il Deloche si risolse a bere un bicchier d’acqua, fu un’altra risata.
Al gran banco di mezzo erano stati chiesti pochissimi supplementi, tanto piú che quel giorno l’amministrazione distribuiva il caffè gratis. Le tazze fumavano, le fronti sudate luccicavano sotto il leggiero vapore che ondeggiava come il fumo azzurro delle sigarette. Alle finestre gli stoini non si movevano punto; ne tirarono su uno, e una striscia di sole traversò la sala e accese il soffitto.
Era tale il baccano, che la campanella da principio non fu sentita che da quelli vicini all’uscio. Si alzarono, e i corridoi furon pieni di gente che tornava al lavoro.
Per sottrarsi agli scherzi, che seguitavano a pungerlo, il Deloche era rimasto indietro. Perfino il Baugé uscí prima di lui; e il Baugé di solito era l’ultimo, cosí poteva tornare indietro e veder Paolina, mentre lei andava al refettorio delle donne. Eran rimasti d’accordo a quel modo, non avendone altro per dirsi una parola in tutta la giornata. Ma quella volta, proprio mentre si davano un bel bacio in un cantuccio dell’andito, capitò all’improvviso Dionisia, che andava anche lei, zoppicando, adagio adagio, a colazione.
— Oh! non dite nulla a nessuno, per carità! — disse Paolina fattasi di fuoco.
Il Baugé, grosso e alto com’era, tremava come un bambino, e soggiunse:
— Perché ci manderebbero via lí per lí... Lo sanno che fra poco saremo marito e moglie, ma quelle bestiacce non tollerano neppure un bacio!
Dionisia, dispiacente d’averli veduti, finse di non capire. E il Baugé se la dava a gambe, quando il Deloche comparve anche lui. Si volle scusare, e balbettò parole, che Dionisia non riusci subito a capire: poi, udendo rimproverare a Paolina d’aver chiacchierato davanti al Liénard, e vedendo Paolina impacciata nel rispondere, finalmente si rese conto di ciò che dalla mattina le bisbigliavano dietro le spalle. Era per via della lettera. Vedendosi come spogliata in presenza di tutti quegli uomini, fu ripresa dai brividi che le aveva dati la lettera.
— Io non sapevo... — badava a ripetere Paolina. — E poi, che c’è di male? Si lascian discorrere; e crepino quanti sono!
— Amica mia, — disse alla fine Dionisia con la sua aria da donna savia — perché me la dovrei pigliare con voi?... Non avete detto che la verità. Ho ricevuto una lettera. Sta a me rispondere.
Il Deloche se n’andò ferito nel cuore, credendo che la giovinetta volesse andare quella sera all’appuntamento.
Quando ebbero finito di mangiare, in una sala piú piccola accanto all’altra, e dove le donne eran trattate un po’ meglio, Paolina dové aiutare Dionisia a scendere, perché il piede le si stancava troppo.
Nel magazzino l’inventario procedeva anche piú alacremente: tutti s’accorgevano del poco lavoro fatto in mattinata, e tiravan via per finire entro la serata.
Le voci si alzavano, non si vedevano che braccia gesticolanti nel votar gli scaffali e nel buttar giú le merci: non si poteva piú camminare, perché pacchi e involti salivano di terra fin quasi ai banchi.
In fondo alle sezioni, quelle teste che si dimenavano, quei pugni tesi, quelle membra in sussulto, avrebbero potuto far credere a un subbuglio.
Era invece l’ultimo sussulto della macchina che stava per scoppiare. Davanti i cristalli, intorno al magazzino chiuso, continuavano a passare rari passeggieri, sfiaccolati dalla noia soffocante d’una domenica estiva. Sul marciapiede di Via Nuova di Sant’Agostino, tre ragazzacce spettinate stavano sfacciatamente col viso ai vetri, cercando capire che mai significasse quel tramestio.
Quando Dionisia fu ritornata alle «confezioni» la signora Aurelia lasciò Margherita che contasse lei i vestiti: per il riscontro ci voleva calma e silenzio: e andò nelle stanze dei campioni portandosi dietro Dionisia:
— Venite con me... faremo il riscontro... e poi la somma.
Ma aveva lasciato l’uscio aperto per tener d’occhio le ragazze; e il chiasso era tale, che in fondo alla stanza non c’era verso di sentire ciò che uno diceva dalla parte opposta.
La stanza, larghissima, non aveva che qualche seggiola e tre lunghe tavole. In un canto, i grandi coltelli meccanici per tagliare i campioni: sotto quei coltelli passavano pezze intere di stoffa, ridotte a migliaia di rettangolini che poi si spedivano dappertutto; ce ne voleva per circa un ventimila franchi ogni anno. Dalla mattina alla sera i coltelli tagliavano, con un rumore di falci, seta, lana, tela; poi bisognava cucire o ingommare i campioni. Tra le due finestre c’era anche una piccola tipografia per i cartellini.
— Zitte un po’! — doveva ogni tanto gridare la signora Aurelia, non riuscendo a sentire Dionisia che leggeva la lista.
Quando i primi fogli furon finiti di riscontrare, la lasciò a una delle tavole, ingolfata nelle somme; e tornò quasi subito con la signorina di Fontenailles, di cui non avevano piú bisogno ai corredi.
Doveva anche lei mettersi accanto a Dionisia a far somme, per sbrigarsi presto. Ma la matchesa, come la chiamava malignamente Clara, aveva, nel suo passare, messa sossopra la sezione: ridevano e canzonavano Giuseppe con parole feroci, che giungevano fin nell’altra stanza.
— State pure qui accanto a me; non mi date punto noia, — disse Dionisia, presa da compassione. — Venite qui; il calamaio basta per tutt’e due.
La Fontenailles, nella stupidità in cui il decadimento proprio e della famiglia la sprofondava, non trovò neppure una parola di gratitudine. Doveva avere il vizio del padre, quello di bere, perché le carni magre avevano un colore plumbeo; e soltanto le mani, bianche e delicate, attestavano ancora la nobiltà della stirpe. Ma le risate cessarono da un momento all’altro, e il lavoro riprese regolarmente.
Il Mouret faceva daccapo il giro delle sezioni. Si fermò e guardò dov’era Dionisia, meravigliato di non vederla lí: chiamò con un cenno la signora Aurelia, e si mise a discorrere con lei da parte, sommessamente. Si capiva che le domandava di Dionisia; l’altra accennò con un’occhiata la stanza dei campioni; poi parve gli raccontasse qualcosa. Certo gli diceva che la ragazza quella mattina aveva pianto.
— Benissimo!... — disse a voce alta il Mouret, ravvicinandosi. Fatemi vedere le liste.
— Son di là, — rispose la direttrice. — Siam dovute scappare, da questa confusione.
Le tenne dietro nella stanza accanto. Clara mangiò la foglia, e borbottò che avrebbero fatto meglio a mandare a prendere un letto addirittura; ma Margherita le gettò i vestiti con piú sveltezza per tenerla occupata e chiuderle la bocca. La vice era sí o no una buona compagna? negli affari suoi non stava a loro ficcare il naso. La sezione si faceva a questo modo complice anch’essa; le ragazze si movevano sempre piú; il Lhomme e Giuseppe, invece, si piegavano sempre più sui fogli, come fossero sordi. E il Jouve che passava, avendo capito il tiro della signora Aurelia, si mise a passeggiare davanti all’uscio dei campioni col passo regolare d’una sentinella che eseguisce ciò che vuole il superiore.
— Date le liste al signor Mouret — disse la direttrice nell’entrare.
Dionisia le porse e restò a testa alta; aveva leggermente sussultato, ma s’era frenata, e, pallida, stava col volto composto a tranquillità. Per un po’ il Mouret parve tutto attento alle cifre, senza darle nemmeno uno sguardo. Allora la signora Aurelia si avvicinò alla signorina di Fontenailles, che non s’era nemmeno voltata, parve scontenta delle somme che aveva fatto, e le disse a mezza voce:
— Andate ad aiutare di là... Non ci siete avvezza a fare i conti.
Ella si alzò, e tornò nella sezione, dove fu accolta con un bisbiglio. Giuseppe, sotto gli occhi canzonatori delle ragazze, scriveva tutto storto.
Clara, contenta dell’aiuto che le veniva all’impensata, cominciò nondimeno a tormentare subito la Fontenailles, perché odiava tutte le donne, quante ce n’erano nel magazzino. Come faceva, lei, una marchesa, a innamorarsi d’un facchino? Eppure, le invidiava un po’ quell’amore.
— Benissimo! benissimo! — ripeteva il Mouret, fingendo sempre di leggere.
La signora Aurelia non sapeva come andarsene, anche lei, decentemente. Scalpicciava, e tornava a guardare e riguardare i coltelli meccanici, furibonda che il marito non trovasse un pretesto qualsiasi per farla venir via: ma il pover’uomo negli affari seri non ci aveva mai capito nulla, e sarebbe morto di sete accanto a un lago. Margherita alla fine capí, e fece domandare qualcosa alla direttrice.
— Eccomi subito! — rispose.
E, messa cosí al sicuro la dignità, con un pretesto per tutta quella gente che non le levava gli occhi di dosso, lasciò soli Dionisia e il Mouret, che le era riuscito mettere accanto l’una all’altro; e uscí con la sua aria imperiale e con un volto cosí nobilmente altero, che le ragazze non osarono nemmeno sorridere.
Il Mouret aveva posate lentamente le liste sulla tavola, e guardava la giovinetta, ch’era rimasta a sedere con la penna in mano, senza volger lo sguardo da un’altra parte: soltanto s’era fatta anche piú pallida.
— Verrete stasera? — le domandò sommessamente.
— No, — rispose lei — non posso: i miei fratelli sono a pranzo dallo zio, e ho promesso di star con loro.
— Ma... e il piede? durate fatica a camminare?
— Oh! di qui a lí c’è tanto poco! e poi mi sento meglio.
Toccò a lui a impallidire davanti a quel pa cato rifiuto. Gli tremavano le labbra dal sussulto nervoso: ma si contenne, e ripigliò con l’affabilità d’un buon padrone che ha cura delle sue ragazze:
— E se ve lo chiedessi per piacere?... Lo sapete che conto faccio di voi...
Dionisia non perdé la sua rispettosa compostezza:
— Non so come ringraziarla della sua bontà per me, e la ringrazio dell’invito. Ma glie l’ho già detto: non posso; stasera m’aspettano i miei fratelli.
Il Mouret si ostinava a non capire. L’uscio era rimasto aperto, e lei sentiva che tutto il magazzino la spingeva nelle braccia del padrone; Paolina le aveva dato confidenzialmente della sciocca, le altre si sarebbero fatte beffe di lei, se seguitava a rifiutare. La signora Aurelia, che se n’era andata, Margherita, di cui la voce le giungeva sempre più forte, il Lhomme che, immobile e discreto, le volgeva la schiena, tutti volevano ch’ella cadesse.
E il rumore lontano dell’inventario, quei milioni di merci, smossi da tante braccia e di cui il prezzo volava nei gridi, erano quasi un vento caldo che soffiava la passione sino a lei.
Ci fu un momento di calma, ma di tratto in tratto il rumore copriva le parole del Mouret che si perdevano cosí nella clamorosa enumerazione d’un tesoro regale conquistato con le battaglie.
— Sta bene: ma allora quando verrete? — chiese di nuovo. — Domani?
Bastò questa domanda a turbare Dionisia, che perse un momento la sua compostezza, e balbettò:
— Non so... non posso...
L’altro sorrise, e cercò di prenderle una mano ch’ella tirò indietro.
— E di che mai avete paura?
Ma già Dionisia rialzava la testa e lo guardava in viso con i suoi belli occhi limpidi, sorridendo con la sua aria dolce e coraggiosa. Rispose:
— Non ho paura di nulla; ma ognuno fa soltanto ciò che vuol fare, non è vero? e io non voglio!
Uno scricchiolio in quel momento le fece volgere la testa; l’uscio si chiudeva. Il Jouve aveva per ufficio anche di badare che le porte non restassero aperte; compieva dunque il suo dovere.
Infatti si rimise a fare gravemente la sentinella; e nessuno parve s’accorgesse di quell’uscio chiuso con tanta naturalezza. Soltanto Clara mormorò in un orecchio della Fontenailles una parola frizzante; ma costei non si scosse nemmeno, livida, smorta.
Dionisia intanto s’era alzata. E il Mouret, con voce bassa e tremante, le sussurrava:
— Sentite, io vi voglio bene... Lo sapete da un pezzo; perché vi divertite crudelmente a fingere con me, di non esservene accorta? E non abbiate paura... Venti volte m’è saltato in testa di farvi venire nel mio studio: si sarebbe stati soli soli, e bastava ch’io mettessi all’uscio il segreto: ma non ho voluto; e vedete che vi discorro ora qui, dove possono entrare tutti... Vi amo, Dionisia...
Ella, diritta, pallidissima, lo ascoltava guardandolo sempre in viso.
— Perché dite di no?... Non siete ricca. I vostri fratelli son a carico vostro, un bel carico! Tutto ciò che mi chiederete, tutto ciò che vorrete...
Ella l’interruppe:
— Grazie: guadagno piú di quanto mi bisogni.
— Ma io vi offro la libertà, una vita di piaceri e di lusso... Vi metterò su un quartiere, vi darò un assegnamento fisso...
— No, grazie; m’annoierei a starmene senza far nulla... Avevo a mala pena dieci anni, e già mi guadagnavo da vivere.
Il Mouret fece un gesto tra sdegnato e stupefatto: era la prima che gli resisteva; per pigliare le altre non aveva dovuto far altro che chinarsi; tutte aspettavano i suoi capricci come schiave sommesse.
E questa ora gli diceva di no senza neppure spiegargli né il perché né il percome. Il desiderio di lui, compresso da tanto tempo, aguzzato dalla resistenza, divampava piú forte.
Non aveva forse offerto abbastanza? e raddoppiò l’offerta, incalzando maggiormente la giovinetta.
— No, no; grazie! — rispondeva essa ogni volta, senza lasciarsi vincere mai. Allora a lui sfuggí un grido dal cuore:
— Non vedete che soffro?... Già è una stupidaggine, ma soffro come un bambino!
Gli salivano le lacrime agli occhi: stettero zitti un altro istante, il rumore dell’inventario giungeva smorzato per la porta chiusa, pareva un clamore trionfale che s’allontanasse; in quella sconfitta del padrone, l’accompagnamento si faceva più sommesso.
— Ma se volessi, se proprio volessi! — esclamò con voce ardente, afferrandole le mani.
Dionisia non ebbe la forza di ritirarle a sé, gli occhi le si velavano, tutta la sua forza se n’andava: il caldo che si trasfondeva in lei dalle mani tiepide di quell’uomo la faceva quasi svenire in una debolezza piena di voluttà. Dio mio, che bene gli voleva, e come le sarebbe stato dolce stringerglisi al collo e abbandonarglisi sul petto!
— Ed io voglio! io voglio! — ripeteva lui fuor di sé. — Vi aspetto stasera; se no...
La bramosia lo fece villano. Ella diede un grido leggiero; il dolore che sentiva al polso le rese il coraggio; con una scossa si liberò. Poi, dritta, fatta piú grande dalla sua stessa debolezza:
— No; lasciatemi andare... Io non son mica Clara che si piglia oggi e si lascia domani. E poi, voi amate un’altra; sí, quella signora che viene qui... Restate con lei. Io non faccio a mezzo con nessuna!
La meraviglia che il Mouret provò di quelle parole parve l’inchiodasse sull’impiantito. Che diceva ella mai, che mai voleva? Nessuna delle ragazze raccattate per le sezioni s’era data pensiero d’essere amata! Avrebbe dovuto mettersi a ridere, ma quella forte commozione lo scombussolava invece sempre piú.
— Via! — disse lei — riaprite l’uscio. Non sta bene che stiamo cosí chiusi insieme.
Obbedí, e, con le tempie che gli battevano, non sapendo come nascondere l’angoscia, richia mò la signora Aurelia e cominciò a montare sulle furie per via dei mantelli invenduti; bisognava darli via tutti, a qualsiasi prezzo. Era la regola del magazzino; d’anno in anno, anche col sessanta per cento, doveva esser venduto tutto, piuttosto che conservare un modello fuor di moda o una stoffa non piú fresca.
In quel mentre il Bourdoncle, che cercava del Mouret, stava aspettandolo, fermato davanti all’uscio chiuso dal Jouve, che gli aveva sussurrato gravemente due parole in un orecchio.
Gli scappava la pazienza, ma non aveva il coraggio di guastare il colloquio del padrone. Era possibile che, in un giorno come quello lí, perdesse il tempo con una creatura, in tal modo? E quando il Mouret, dopo tanto, uscí fuori, si mise a parlargli delle sete di fantasia che erano rimaste in magazzino quasi tutte.
Finalmente il Mouret ebbe un’occasione di sfogarsi. Ma dove aveva mai la testa quel benedetto Bouthemont? Se n’andò gridando di non poter tollerare che uno dei suoi fosse bestia a tal punto da comprare piú roba di quanta fosse necessaria alla vendita.
— Che diavolo ha in corpo? — mormorò la signora Aurelia, sbalordita dai rimproveri.
Le ragazze si guardarono meravigliate... Alle sei l’inventario era bell’e finito. Il sole splendeva ancora, un biondo sole d’estate che mandava riflessi d’oro traverso le invetriate. Nell’afa delle vie, già le famiglie stanche tornavano dai dintorni cariche di fiori e trascinandosi dietro i bambini. Una dopo l’altra le sezioni s’eran chetate: non si sentiva, in fondo alle gallerie, che il gridare di qualche commesso mentre si votava l’ultimo palchetto. Poi, anche quelle voci si tacquero, e di tanto frastuono non restò che un immenso fremito sopra la ruina smisurata delle merci. Scaffali, armadi, scatole, cassette, tutto era vuoto: non c’era piú un metro di stoffa o un gingillo da nulla che fosse al suo posto. Del vasto magazzino non si vedeva piú che la mobilia, come il giorno in cui l’avevan messo su; quella nudità era la riprova dell’inventario. E per terra si ammonticchiavano dici milioni di merci: marea che a poco a poco aveva sommerso tavole e banchi. I commessi, con la roba fin quasi alle spalle, cominciavano a riporre tutto in ordine. Fino alle dieci non c’era da sperare d’aver finito.
Nel tornare dal pranzo della «prima tavolata », la signora Aurelia disse quanto era stato l’incasso dell’anno: le sezioni avevano fatta la somma totale in quel momento. Non meno di ottanta milioni, dieci di piú dell’anno innanzi Solamente nelle sete di fantasia c’era stata un po’ di sosta.
— Se il Mouret non è contento, non so proprio che cosa fare, io! — soggiunse la direttrice. — Eccolo là in cima alla scala; e pare sempre arrabbiato.
Le ragazze s’affacciarono: egli era là col viso imbronciato, sopra i milioni che gli s’ammucchiavano ai piedi.
— Signora, — venne in quel momento a dirle Dionisia — vi prego di permettermi d’andarmene. Non son piú buona a nulla, con questa gamba; e siccome devo andar a pranzo dallo zio, coi miei fratelli...
Fu uno stupore di tutte. Come! aveva dunque rifiutato? La signora Aurelia esitò e parve stesse quasi per negarle, con la voce secca e scontenta, il permesso; Clara alzò le spalle come dire: — Io non me la bevo: ma che rifiutare! era lui che non ne voleva saper piú nulla! — Quando Paolina lo riseppe, stava discorrendo col Deloche; la contentezza, di che fu preso il giovine, la fece stizzire: bel lavoro! era contento, quello sciocco, che la sua amica desse un calcio alla fortuna? E il Bourdoncle, che non osava andare a trarre il Mouret dalla sua dispettosa solitudine, passeggiava tra le chiacchiere, malcontento anche lui, e pieno di confusi timori.
Dionisia intanto tornò giú; e nell’arrivare, appoggiata alla ringhiera, adagio adagio, in fondo alla scaletta di sinistra, si trovò vicino a un gruppo d’impiegati che ridevano: sentí anzi il suo nome, e capí che parlavano ancora della sua storia. Non s’erano accorti di lei.
— Sí! ora m’avete a dar ad intendere ch’è una monaca! Ne ha fatte di tutte un po’. Figuratevi io conosco uno, che lei, per andarci a dormire insieme, avrebbe fatto carte false.
E guardava l’Hutin che, per non perdere la sua dignità di aiuto, stava quattro passi piú in là, senza prender parte agli scherzi. Ma fu tanto lusingato dalle occhiate d’invidia che gli altri gli gettavano, che si degnò di sussurrare:
— M’ha dato molta noia quella lí!
Dionisia, ferita nel cuore, si aggrappò ai ferri. Si accorsero di lei, e si dispersero, seguitando a ridere.
Aveva ragione lui; ed ella si accusava ora della sua ingenuità d’un tempo, quando aveva pensato davvero all’Hutin. Ma che vigliacco era, e quanto lo disprezzava! Un gran turbamento la prese: strana cosa, ch’ella poco prima avesse avuto tanta forza da resistere all’uomo ch’ella adorava, quando una volta s’era sentita tanto debole in faccia a quello sciagurato, del cui affetto aveva soltanto fantasticato! La ragione e il coraggio naufragavano in quelle contraddizioni dell’animo, dove non sapeva leggere chiaro. E si affrettò a traversare la sala.
Ma per istinto alzò la testa, mentre un ispettore apriva la porta rimasta chiusa fino dalla mattina; e vide il Mouret. Era sempre in cima alla scala, nel gran pianerottolo di mezzo, sopra la galleria. Ora non pensava piú all’inventario, non vedeva il suo regno, quei magazzini che riboccavano di ricchezze. Tutto era scomparso, le clamorose vittorie del giorno innanzi, la fortuna immensa del giorno dopo.
Con un’occhiata piena di sconforto tenne dietro a Dionisia; e quando ella ebbe varcata la porta, non ci fu piú nulla per lui; la casa tornò parergli sepolta nel buio.