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lei, e preferiva essere lí a proteggerla, sebbene seguisse l’altra con paura di qualche scena dolorosa e uggiosa.

Traversarono dapprima la camera da letto, silenziosa e vuota. Poi la Desforges, aperto un uscio, entrò nella stanza della «toilette», e il Mouret la seguí.

Era una stanza abbastanza grande, addobbata di seta rossa, ammobiliata d’una tavola di marmo e d’un armadio a tre battenti, con grandi specchi. La finestra dava sulla corte, e c’era di già buio: avevano perciò accese due fiammelle di gas, che sporgevano i loro bracci lucidi, a destra e a sinistra dell’armadio.

— Guardiamo un po’ — disse Enrichetta. — Forse cosí sta meglio.

Nell’entrare, il Mouret aveva trovato Dionisia ritta in mezzo alla luce viva. Era pallidissima, modestamente stretta in una giacchetta di casimirra, con un cappellino semplice; teneva su un braccio il mantello comprato al Paradiso. Quando vide il padrone, le tremarono lievemente le mani.

— Facciamo giudice il signor Mouret — riprese Enrichetta. — Aiutatemi.

E Dionisia, avvicinandosi, dovette rimetterle addosso il mantello. La prima volta che gliel’aveva provato aveva appuntato degli spilli sulle spalle, che non le tornavano bene.

Enrichetta si voltava e rivoltava guardandosi nello specchio.

— Può stare? ditelo liberamente.

— È vero! — disse il Mouret per farla finita — il mantello è fatto male. È una cosa da nulla: la signorina vi piglia la misura, e se ne fa fare un altro.


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