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la rivalità. L’una s’era levata il mantello furibonda, gettandolo sopra una seggiola; l’altra buttava a caso sulla «toilette» gli spilli che aveva ancora in mano.

— Mi meraviglio, — riprese Enrichetta — che il signor Mouret tolleri questa insolenza... Credevo che foste piú severo coi vostri impiegati.

Dionisia era rientrata nella sua calma coraggiosa, e rispose dolcemente:

— Se il signor Mouret non mi licenzia, vuol dire che non ha da farmi nessun rimprovero. Se il signor Mouret me l’ordina, son pronta a domandarle scusa.

Il Mouret stava a sentire, non sapendo come uscire da quella contesa che lo stupiva e l’addolorava ad un tempo. Aveva in uggia tali liti fra donne, che, aspre, dovevano di necessità spiacere a lui, sempre in cerca d’eleganza graziosa.

Enrichetta voleva strappargli una parola di biasimo per la ragazza; e siccome, incerto ancora, non apriva bocca, lo frustò con un’ultima ingiuria:

— Benone! Dunque, in casa mia devo io sopportare le insolenze delle vostre amanti?... Di una sgualdrina che avete raccattata dal lastrico?

Due grosse lacrime caddero dagli occhi di Dionisia. Le ratteneva da un pezzo, ma ora si sentiva venir meno sotto quell’insulto.

Quando la vide piangere, senza rispondere alla violenza, chiusa in una dignità muta e disperata, il Mouret non esitò piú, il cuor suo volò a lei con immensa tenerezza. Le prese le mani e balbettò:

— Andate, andate via, figliuola, e scordatevi di questa casa.


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