Pagina:Zola - Il paradiso delle signore - 1936 - Mondadori.pdf/451


il paradiso delle signore

franchi al giorno a cucire dei fascicoli di campioni: e credo che mi riuscirà maritarla con uno dei miei garzoni.

— Dio ce ne liberi! — esclamò la De Boves.

Egli la guardò, e riprese con voce pacata:

— E perché? Non è meglio sposare un bravo giovanotto, un buon lavoratore, che correre il rischio d’essere raccattata di sul marciapiede da un fannullone qualsiasi?

Il Vallagnose volle scherzare:

— Non lo fate chiacchierare troppo, signora De Boves! Sarebbe capace di dirvi che tutte le vecchie famiglie della Francia debbono mettersi a vendere mercerie.

— Ma, — ribatté il Mouret — per molte sarebbe, tirate le somme, una fine onorevole.

Risero tutti; il paradosso parve un po’ troppo arrischiato. Ed egli seguitò a celebrare l’aristocrazia del lavoro, come diceva lui. Un po’ di rosso aveva colorato le gote della De Boves, furibonda per la misera vita che le toccava condurre: la Marty, invece, approvava, presa dal rimorso, pensando al suo povero marito. Per l’appunto il cameriere aprí la porta al professore che veniva a prenderla. Era piú magro, piú smunto di prima, per tutti quei suoi pensieri, stretto nel soprabito che mostrava le corde. Quand’ebbe ringraziata la Desforges d’aver parlato per lui al Ministero, gettò sul Mouret un’occhiata da uomo pauroso che s’imbatte nel male di cui deve morire. E fu meravigliato che quegli gli rivolgesse la parola.

— Non è vero, signore, che il lavoro è una gran bella cosa?

— Il lavoro e il risparmio — rispose con


449