Il geloso avaro/Atto III
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ATTO TERZO.
SCENA I.
Camera in casa di Pantalone.
Argentina, Sandra, Giulia, Pasquina e Felicina.
Argentina. Cosa fate qui, donne mie? Cosa volete? Chi domandate?
Sandra. Aspettiamo il vostro padrone.
Giulia. Che diamine fa oggi, che non si vede?
Argentina. Contro il suo solito, appena ha finito di desinare, è escito subito. Ma cosa volete da lui?
Sandra. Non lo sapete? Siamo qui per fare dei pegni.
Argentina. Pegni? anche voialtre ragazze siete venute a fare dei pegni? (a Pasquina e Felicina)
Felicina. Signora sì; mi ha mandato mia madre.
Pasquina. Non le credete: è venuta di nascoto di sua madre.
Felicina. (Via, non mi fate vergognare). (piano a Pasquina)
Argentina. (Già, queste ragazze fanno i loro contrabbandetti). (da sè)
Giulia. Vorrei che venisse: povera me! il tempo passa.
Argentina. Avete qualche gran premura?
Giulia. Premura grandissima. Si tratta a drittura di cambiare stato.
Argentina. Cambiare lo stato? E che sì, che siete una che gioca al lotto?
Giulia. Sì signora, sono una che gioca al lotto, e che cambierà questi stracci in vesti d’oro ed argento.
Argentina. Avete guadagnato molto dunque.
Giulia. Non ho guadagnato, ma guadagnerò. Questa sera chiudono, e se non viene il signor Pantalone, e se non mi dà uno scudo su questa gonnella, povera me, io perdo la mia fortuna.
Argentina. (Fanno così queste donne. Colla speranza di vincere impegnano quel che hanno). (da sè) E voi, quella giovine, fate pegni per giocare al lotto? (a Sandra)
Sandra. Io non son qui per me; sono mandata da una persona.
Argentina. Che cosa avete di bello da impegnare?
Sandra. Una scatola d’argento dorata.
Argentina. Si può vedere?
Sandra. Non vorrei, mostrandola, che si venisse a sapere chi la manda a impegnare. Io sono una donna delicatissima in queste cose; quando mi fanno una confidenza, non vi è dubbio che da veruno si sappia.
Argentina. Fate benissimo; ma io, se vedo la scatola, non vi è pericolo che la conosca.
Sandra. Eccola, osservate: è nuova, nuova.
Argentina. Sì, ed è bella; averà costato almeno sei zecchini.
Sandra. A chi l’ha avuta ha costato poco.
Argentina. Sì? lo sapete voi come l’abbia avuta?
Sandra. Vi dirò. Era da lei l’altro giorno un mercante che conoscerete anche voi, perchè l’ho veduto qui qualche volta...
Argentina. Quel mercante di panni.
Sandra. Oh, non dico poi niente di più. Non voglio palesar le persone. E così si trovava in compagnia di questa signora, caccia fuori la scatola, e le dà del tabacco. Ella subito dice: Gran bella scatola, signor Odoardo! Ed egli: A’ suoi comandi, signora Costanza...
Argentina. E che sì, che questa è la signora Costanza che sta sul canto della strada?
Sandra. La conoscete?
Argentina. E come!
Sandra. Zitto; non dite niente a nessuno.
Argentina. Ora so chi è il signore Odoardo.
Sandra. Basta; le ha detto a’ suoi comandi; ella l’ha accettata, e s’è pigliata la tabacchiera con questo bel garbo.
Argentina. Oh che cara signora Costanza.
Sandra. Zitta, per amor del cielo, non lo fate sapere a nessuno. Quando confidano una cosa a me, ho piacere che per bocca mia non si sappia. Voi la conoscete, non è gran cosa; ma se qualcheduno non la conosce... Non so se mi capite... Basta, la segretezza è sempre una cosa buona.
Argentina. (Bella segretezza! ecco qui: chi si fida di queste donnette, pubblica i fatti suoi. Credono di far le cose segretamente, e tutto il mondo le sa). (da sè) E voialtre ragazze, che cosa avete di bello da impegnare?
Felicina. Ho un anellino.
Argentina. E voi? (a Pasquina)
Pasquina. Eh, io non ho niente; sono in compagnia di Felicina. Sono ancor troppo ragazza per aver degli anelli.
Argentina. Sì eh? verrà il vostro tempo. Dov’è l’anellino che volete impegnare? (a Felicina)
Felicina. Eccolo qui.
Argentina. Bello!
Felicina. È vero, non è bellino?
Argentina. Ehi! chi ve l’ha donato? (a Felicina)
Felicina. La signora madre.
Pasquina. Eh sì, la signora madre! (ridendo)
Felicina. Via! (le fa cenno che taccia)
Argentina. Dite, dite, chi gliel ha donato? (a Pasquina)
Felicina. Via, dico. (a Pasquina, come sopra)
Pasquina. Quell’anellino! gliel’ha donato un bel parigino.
Argentina. Brava! (a Felicina)
Felicina. (Mi fa una rabbia!) (da sè)
Giulia. Sentite? una compagna per invidia scopre quell’altra. (a Sandra)
Sandra. Sono ragazze che non sanno tacere. (a Giulia)
Argentina. E perchè lo volete impegnare quell’anellino? (a Felidna)
Felicina. Me l’ha detto mia madre.
Argentina. È vero? (a Pasquina)
Pasquina. Oh, sua madre! (ridendo)
Argentina. Dite, dite. (a Pasquina)
Felicina. Vado via, veh! (a Pasquina)
Pasquina. Cosa serve? non è roba vostra? Si dice la verità.
Felicina. (Mi fa venir rossa, rossa). (da sè)
Pasquina. Vuol comprare un paio di manichini, per donarli a quello che le ha dato l’anello.
Felicina. (Linguacciona!) (da sè) Con me non ci vieni più. (a Pasquina)
Argentina. Ecco il padrone: figliuole, vi riverisco. Donna Sandra, vi raccomando la segretezza. (parte)
SCENA II.
Pantalone e dette.
Pantalone. Cossa feu qua? Cossa voleu? Andè via.
Sandra. Vorrei su questa scatola...
Giulia. Caro signore, uno scudo su questa gonnella.
Pantalone. Andè via, qua non se fa pegni.
Sandra. Come non si fanno pegni? È questa la prima volta?
Pantalone. Se qualche volta v’ho fatto la carità, adesso no ve la posso più far.
Sandra. Sì, la carità! Un dodici per cento col pegno in mano.
Pantalone. Andè via, ve digo. (Maledetti. Accusarme che fazzo pegni! che togo l’usura! Metterme in desgrazia della Giustizia!) (da sè)
Pasquina. (Ditegli dell’anello). (a Felicina)
Felicina. (Mi fa paura).(a Pasquina)
Pasquina. (Via, spicciatevi).(a Felicina)
Felicina. Signore...(a Pantalone)
Pantalone. Andè via.(gridando)
Felicina. Oimè! vado.(parte tremando)
Pasquina. Vecchiaccio rabbioso.(a Pantalone)
Pantalone. Via de qua, impertinente.
Pasquina. Eh! (gli fa una boccaccia, e parte)
Pantalone. E vu cossa feu, che no andè via?
Giulia. Per carità, vi prego...
Pantalone. No ghe xe carità che tegna. Andè via, se no volè che ve cazza zo dalla scala.
Giulia. Se mi fate perdere la mia fortuna, povero voi! Corro al Monte; se perdo al lotto per causa vostra, da donna onorata, vengo a darvi fuoco alla casa. (parte)
Pantalone. Ghe mancarave anca questa. E vu, no andè?
Sandra. Signor Pantalone, vede questa scatola?
Pantalone. No fazzo pegni, no dago bezzi.
Sandra. Eppure questa scatola si potrebbe guadagnare con poco.
Pantalone. Come!
Sandra. Vogliono impegnarla per due zecchini; e v’assicuro che chi l’impegna non la riscuote più. Mi faccia questo piacere.
Pantalone. Se credesse che no se savesse... se fusse sicuro che no parlessi... vorria anca farve sta carità.
Sandra. io non parlo, signor Pantalone. Sa che donna ch’io sono, non vi è pericolo.
Pantalone. Do zecchini? lassè véder.
Sandra. Eccola.
Pantalone. El sarà arzento basso. (la tocca colla pietra)
Sandra. Queste scatole si sa cosa sono.
Pantalone. No i vol manco de do zecchini?
Sandra. No certamente; e poi, se credesse mai... la scatola è qui della signora Costanza. Basta, non si ha da sapere.
Pantalone. Mi no so altro; ve cognosso vu, e no cognosso altri. Tolè do ongari, perchè zecchini no ghe n’ho.
Sandra. Vagliono qualche cosa meno.
Pantalone. La imbatte in puoco. Sentì, tegno la scatola otto zorni; se dopo i otto zorni no me porte do zecchini, la scatola xe persa.
Sandra. Così presto?
Pantalone. Tant’è, la scatola xe persa.
Sandra. Quand’è così, piuttosto mi dia la scatola...
Pantalone. El contratto xe fatto; ma trattandose de vu, aspetterò qualche zorno de più.
Sandra. (Oh che usuraio del diavolo!) (da sè)
Pantalone. Sora tutto ve raccomando la segretezza.
Sandra. Non dubiti, che sarà servito. (Creperei se non lo dicessi). (da sè)
Pantalone. Via, andò, destrigheve.
Sandra. Serva sua.
Pantalone. Co vegnì, vegnì sempre segretamente.
Sandra. Non occorr’altro. (La scatola è andata. La signora Costanza non la riscuote più. Dice bene il proverbio: la farina del diavolo va tutta in crusca). (da sè, parte)
SCENA III.
Pantalone, poi Traccagnino.
Pantalone. A sto mondo no se pol più far servizio. Quel maledetto Agapito, che tante volte ha avù bisogno de mi, che su i stocchi che l’ha fatto far ai fioi de famegia l’averà vadagnà più de mi, colù el me accusa, el me perseguita, el me fa formar un processo. Questa la xe la mia rovina. Bisognerave che gh’avesse un mezzo con qualche auditor della Vicarìa. Quando mia muggier giera putta, so che el sior auditor Pandolfi andava in casa soa, el giera amigo de so pare. Poderia pregar sior Dottor; ma con quel vecchio fastidioso no tratto volentiera; e po el vorrà saver la mia premura, e mi no voggio che se sappia i fatti mii. Mia muggier ghe poderave parlar... Sì ben! mia muggier mandarla in bocca al lovo?
Traccagnino. Sior patron.
Pantalone. Cossa gh’è?
Traccagnino. Cattive nove.
Pantalone. Nove cattive? de cossa?
Traccagnino. Per dirghela in confidenza, ho trova Brighella me paesan, e el m’ha dit certe cosse che no capisso, de querela, de quattrin, de lusuria...
Pantalone. D’usura?
Traccagnino. Gnor sì, e i dis cussì che a vussignoria i ghe forma un possesso.
Pantalone. Come un possesso? Ti vorrà fursi dir un processo.
Traccagnino. Sior sì; za mi no so cossa che el voggia dir.
Pantalone. Poveretto mi! Presto, dighe a mia muggier che la vegna qua.
Traccagnino. Com’ala da far a vegnir, se l’è serrada in camera?
Pantalone. Ah sì: tien le chiave. Averzi, e dighe che la vegna qua.
Traccagnino. (Vardè che matto! El serra la muggier in camera per paura dell’onor. Nol sa che l’onor l’è come el vento, che el va fora per tutti i busi). (da sè, parte)
SCENA IV.
Pantalone, poi donna Eufemia.
Pantalone. Mi no dago fastidio a nissun, e tutti me vol mal. Se i se lamenta che fazzo qualche vadagno sulle imprestanze dei mi bezzi, perchè vienli a seccarme per levarmeli dalle man? I vorria che ghe donasse el frutto, el capital, el cuor, la coraella, e el diavolo che li porta quanti che i xe, sti avari malignazi.
Eufemia. Son qui, signor consorte: la ringrazio che mi ha fatto aprire. (con un poco di sdegno ironico)
Pantalone. Le cosse preziose le se custodisse con zelosia.
Eufemia. Questo torto io non me l’aspettava.
Pantalone. L’ho fatto... So mi perchè l’ho fatto.
Eufemia. Una moglie onorata non ha bisogno d’esser rinchiusa. Questo, signor Pantalone, è il maggior dispiacere che dato mi abbiate, dopo che siete mio marito.
Pantalone. Vegnì qua, ho bisogno de vu.
Eufemia. Non merito certamente di essere così trattata.
Pantalone. Finimola, ve digo. Ho bisogno de vu.
Eufemia. Soffrirò tutto; ma non mi toccate nell’onore.
Pantalone. L’onor semo in procinto de perderlo, se no se demo le man d’attorno.
Eufemia. Come! vi è qualche cosa di nuovo?
Pantalone. Ghe xe che certi baroni, fursi in vendetta de no aver mi serrà un occhio, per rabbia de no poder cicisbear co mia muggier, i vol véderme precipita.
Eufemia. Voi non ci avete colpa; son io che non voglio codesti ganimedi d’intorno.
Pantalone. La conclusion xe questa, i m’ha accusà... Baroni! I xe andai a dir che fazzo pegni, che togo l’usura, che compro la roba con inganno, che inchieto el gran, e altre falsità de sta sorte!
Eufemia. Dunque non vi accusano per la moglie.
Pantalone. Qua bisogna remediar: se no, va la reputazion, va la roba, i bezzi, e per conseguenza la vita.
Eufemia. Rimediateci dunque.
Pantalone. Ho bisogno de vu.
Eufemia. Eccomi; che posso fare io povera donna?
Pantalone. Cognosseu el sior Pandolfi, auditor della Vicarìa?
Eufemia. Lo conosco. È un amico di mio padre.
Pantalone. Nol vegniva in casa, quando geri putta?
Eufemia. Sì, ci veniva.
Pantalone. El sarà stà anca elo uno dei vostri adoratori.
Eufemia. Appena gli parlavo, lo salutavo appena.
Pantalone. Za, chi ve sente vu, no avè praticà nissun.
Eufemia. E chi sente voi, sono stata di mal costume.
Pantalone. Lassemo andar. Ho bisogno della protezion del sior auditor. Mi no gh’ho mai parlà, e no voggio andar senza un poco d’introduzion. Vu che lo conossè, vu me podè introdur.
Eufemia. Ditelo piuttosto a mio padre.
Pantalone. Vostro pare no ha da saver gnente. Voggio che lo fe vu.
Eufemia. Ma io, compatitemi, col signor auditore non posso prendermi questo ardire.
Pantalone. Za, co se tratta del mario, no la se vol incomodar. Se vede l’amor che avè per mi. Sì, se vede che xe vero quel che mi diseva. Sarè d’accordo con vostro pare; vorrè véderme precipità.
Eufemia. Ma voi giudicate troppo barbaramente di me. Son qui, farò tutto quello che voi volete. Andiamo dal signor auditore.
Pantalone. Siora no, no la s’incomoda, no voggio che la vaga ella dal sior auditor. Altro che dir no ghe voggio dar confidenza! Senza difficoltà l’anderave a trovarlo a casa... in so poder a drettura: bella riputazion!
Eufemia. Io non so più in che mondo mi sia. Tutto dico male, tutto s’interpreta male. Ditemi cosa devo fare, e farò.
Pantalone. Siora sì, adesso ghe lo dirò. (tira innanzi un tavolino)
Eufemia. (Oh cielo! dammi pazienza con quest’uomo indiscreto). (da sè)
Pantalone. Scrivè un viglietto al sior auditor.
Eufemia. Scrivetelo voi.
Pantalone. L’avè da scriver vu. Ve par gran fadiga a scriver per mi do righe?
Eufemia. Non vorrei poi che diceste...
Pantalone. El tempo passa, e me sento i zaffi alle spalle. Scrivè subito.
Eufemia. Povera me! scriviamo. (siede al tavolino) Cosa volete ch’io scriva?
Pantalone. Preghèlo, se el vol vegnir da vu a sentir do parole.
Eufemia. Da me?
Pantalone. Sì, da vu.
Eufemia. Eh via!
Pantalone. Fe quel che ve digo. No me fe andar in collera.
Eufemia. Scriverò. (scrive)
Pantalone. (Se el vegnirà qua, el pregheremo con più libertà. Se se va alla Vicarìa, i ministri vede, e i vorrà magnar). (da sè) E cussì, cossa aveu scritto?
Eufemia. Guardate se così va bene.
Pantalone. Affidata alla di lei esperimentata bontà. Coss’è sta bontà esperimentada? (stracciando la carta) L’aveu esperimentà el sior auditor?
Eufemia. Io non so come scrivere.
Pantalone. Ve detterò mi; scrivè.
Eufemia. (Pazienza, non mi abbandonare). (da sè, e scrive)
Pantalone. Illustrissimo Signore...
Eufemia. Signore.
Pantalone. Avendo un’ardente brama di riverirla...
Eufemia. Questo mi pare qualche cosa di più.
Pantalone. Scrive.
Eufemia. Di riverirla.
Pantalone. Son a pregarla teneramente.
Eufemia. (Cosa mai mi fa scrivere!) (da sè) Teneramente...
Pantalone. Scassè quel teneramente.
Eufemia. Sì, voleva dirvelo: non mi piaceva. Cosa vi ho da mettere?
Pantalone. Metteghe umilmente.
Eufemia. Piuttosto: sono a pregarla umilmente...
Pantalone. Degnarsi di favorire in mia casa...
Eufemia. In mia casa...
Pantalone. Questo la l’ha scritto senza difficoltà. Quando se tratta de recever zente in casa, no la se fa pregar.
Eufemia. Orsù, non voglio scriver altro. (s’alza)
Pantalone. Scrivè, ve digo.
Eufemia. Siete... ah!
Pantalone. Cossa songio?
Eufemia. Non voglio dir niente.
Pantalone. Voggio che disè cossa che son.
Eufemia. Non posso più. Siete un marito cattivo.
Pantalone. Scrivè. (con pacatezza)
Eufemia. (Or ora m’aspetto qualche insulto novello), (da sè, siede)
Pantalone. Scrivè. (come sopra)
Eufemia. (Quanto più finge, tanto più lo temo). (da sè)
Pantalone. So che ella ha della bontà per me...
Eufemia. Per me...
Pantalone. Scassè dove dise per me, metteghe per la mia casa.
Eufemia. Per la mia casa...
Pantalone. Onde son certa...
Eufemia. Son certa...
Pantalone. Ch’ella verrà a favorirmi... Aspettè, ch’ella verrà a graziarmi... xe l’istesso; ch’ella verrà ad onorare questa mia casa.
Eufemia. Questa mia casa...
Pantalone. Sottoscrive. Devotissima, obbligatissima serva... No, quel obbligatissima no va ben.
Eufemia. Obbligatissima è il solito termine...
Pantalone. Se po gh’avè delle obbligazion, scrivè: obbligatissima.
Eufemia. Ma io...
Pantalone. Via, presto! Obbligatissima serva... el vostro nome.
Eufemia. Eufemia Bisognosi.
Pantalone. Bravissima. Se vede la franchezza.
Eufemia. (Piega la lettera.)
Pantalone. Brava: che pulizia! che franchezza! Se vede chi è solito a scriver viglietti.
Eufemia. Avete ancor finito di tormentarmi? (s’alza)
Pantalone. La mansion. (con flemma)
Eufemia. La mia sofferenza non ha più limiti da contenersi. Il cuore manca, e le lagrime non mi permettono di far di più. Barbaro! Il cielo ve lo perdoni. (parte)
Pantalone. La sorascritta... la farò mi. All’illustrissimo signore, signore, padrone colendissimo. Il signore... No me recordo el nome. Eufemia. No la sente, o no la vol sentir. Bisognerà che m’incomoda mi, e che vada da ela. Gran pazienza co ste donne. Varda el cielo che mi fusse un mario cattivo! (parte)
SCENA V.
Camera di donna Eufemia.
Donna Eufemia ed Argentina.
Argentina. Che c’è, signora padrona? Vi vedo più del solito addolorata.
Eufemia. Lasciami stare per carità.
Argentina. Ditemi ciò che vi molesta, se mi volete bene.
Eufemia. Dammi da sedere.
Argentina. Subito. Oh, vi è del male: quel suo marito la vuol far crepare, la poverina). (da sè)
Eufemia. Posso essere tormentata più di quello che sono?
Argentina. Ecco la sedia.
Eufemia. (Sarò poi sforzata a raccomandarmi a mio padre), (da sè)
Argentina. A pranzo non avete nè meno mangiato.
Eufemia. (Che cosa finalmente può dire il mondo, se vado a stare con mio padre?... Non lo vorrei fare... Ma questa vita non si può durare). (da sè)
SCENA VI.
Donna Aspasia e dette.
Aspasia. Amica, compatitemi se vengo innanzi.
Eufemia. (Ci mancava costei). (da sè)
Argentina. Signora, se avesse chiamato, sarei venuta a servirla.
Aspasia. Ho chiamato benissimo, e nessuno ha risposto.
Argentina. Se avesse chiamato, non siamo sorde.
Eufemia. Chetati.
Aspasia. Donna Eufemia, avete una cameriera insolente.
Argentina. Se non le piaccio, non mi dia il salario, (a donna Aspasia)
Eufemia. Sta in cervello, ragazzaccia.
Aspasia. Mi meraviglio come la soffrite.
Eufemia. Animo. Dalle da sedere.
Argentina. (La farei seder volentieri sulle cima d’un campanile). (da sè)
Aspasia. Mi parete turbata, donna Eufemia.
Eufemia. Sì, sono turbata assaissimo.
Argentina. Servita della seggiola. (sostenuta, a donna Aspasia)
Aspasia. Scusi, signora, se l’ho incomodata. (ad Argentina)
Argentina. (È meglio ch’io vada via. Mi sento troppo la gran volontà di pettinarla). (da sè, e parte)
SCENA VII.
Le dette, e poi Pantalone.
Eufemia. Che vuol dir, donna Aspasia, che siete venuta ad incomodarvi per me?
Aspasia. Sono venuta per quel ventaglio sì fatto.
Eufemia. Vi ho pur detto, signora... (Ecco mio marito), (da sè)
Aspasia. (Gran brutta creatura!) (da sè)
Pantalone. (Guarda donna Aspasia e non dice niente.)
Aspasia. Serva sua. (a Pantalone)
Pantalone. La reverisso. Saveu vu el nome del sior auditor Pandolfi? (a donna Eufemia)
Eufemia. Non lo so. (sostenuta)
Pantalone. Non lo sa. (caricandola)
Aspasia. Ve lo dirò io. Don Gismondo. (a Pantalone)
Pantalone. Ho inteso. (a donna Aspasia)
Aspasia. Ecco, io l’ho servita. (a Pantalone)
Pantalone. Obbligatissimo alle sue grazie. (Cossa fala qua sta seccaggine?) (piano ad Eufemia)
Eufemia. (Io non lo so). (piano a Pantalone)
Pantalone. (Gnanca questo non lo sa! pulito!) (da sè, in atto di partire)
Aspasia. Serva sua, signor Pantalone.
Pantalone. La reverisso. (parte)
SCENA VIII.
Donna Eufemia e donna Aspasia.
Aspasia. È grazioso quel vostro marito!
Eufemia. Ha questo difetto: in casa non vede volentieri nessuno. Mi dispiace che siate venuta a ricevere una mala grazia.
Aspasia. Io poi di queste cose mi prendo spasso. Sono venuta, come io diceva, per questo ventaglio.
Eufemia. Che volete dirmi di quel ventaglio?
Aspasia. Voglio dire, che se questa mattina l’avete ricusato, oggi averete la bontà di riceverlo.
Eufemia. Cara donna Aspasia, io non sono volubile a questo segno. Torno a pregarvi che mi dispensiate.
Aspasia. Bisognerà ch’io studi la maniera di farvelo prendere.
Eufemia. Sarà difficile.
Aspasia. Lo vedremo: ecco il ventaglio. Donna Eufemia, non son io che ve lo dà, è mio fratello che ve lo manda.
Eufemia. Se prima l’ho ricusato soltanto, ora vi dico che mi meraviglio di voi.
Aspasia. Ed io mi meraviglio di voi, che dalle mani di mio fratello vi degnate ricevere ed aggradire qualche segno della sua stima, e meco vi affrontiate per un ventaglio.
Eufemia. Donna Aspasia, voi siete male informata.
Aspasia. Don Luigi, non è capace di dirmi delle bugie.
Eufemia. Don Luigi, se è uomo d’onore, dirà il modo con cui le cose da lui a me offerte sieno in questa casa restate.
Aspasia. Sì, me l’ha detto che vi avete fatto pregare.
Eufemia. Nè le sue preci mi hanno indotto a riceverle.
Aspasia. Saranno stati i buoni uffizi di vostro marito.
Eufemia. Se mio marito li ha ricevuti per atto di civiltà...
Aspasia. Oh che uomo civile!
Eufemia. Signora, in casa mia parlate con più rispetto.
Aspasia. Mi riscaldo, perchè con me voi non siete sincera.
Eufemia. Sono una donna onorata.
Aspasia. Io non pregiudico il vostro onore.
SCENA IX.
Don Luigi, il Dottore e dette.
Dottore. Cosa è questo strepito?
Luigi. Che altercazioni sono queste?
Eufemia. (Mio padre con don Luigi?) (da sè)
Dottore. Ma, caro signore, come1 c’entra in questa casa? Le ho pur detto che mi lasciasse venir solo, che per condurre a casa mia figliuola non ho bisogno di vossignoria.
Eufemia. (Condurmi a casa?) (da sè)
Luigi. Vi faccio disonore a venir con voi? (al Dottore)
Aspasia. Venite, don Luigi, presentatelo voi il ventaglio a donna Eufemia; dalle vostre mani lo prenderà.
Eufemia. Signor padre, io sono insultata; in casa mia si viene a posta per insultarmi.
Dottore. Donna Eufemia, andiamo, venite con me.
Eufemia. Dove?
Dottore. A casa vostra.
Eufemia. La casa mia non è questa?
Dottore. No, figliuola, questa è la casa d’un barbaro privo d’umanità. Tutto mi è noto. Non è più tempo di ascondere i trattamenti che offendono la riputazione. Venite via con me.
Eufemia. Lasciatemi prender fiato; datemi tempo a pensare: non so a qual risoluzione appigliarmi.
Luigi. Via, donna Eufemia, risolvete. Uscite di questa casa fintanto che non vi è vostro marito. Finalmente vostro padre vi guida, ed io vi sarò di scorta.
Eufemia. Se mio padre voleva seco condurmi, avea da venir solo, e non in compagnia di uno che sa poco trattare colle persone civili.
Dottore. Sente, signore? Vada a buon viaggio.
Aspasia. Caro fratello, voi non sapete trattare colle persone civili. La boccetta d’oro doveva essere di diamanti.
Eufemia. Mi meraviglio di voi.
SCENA X.
Giannino e detti'.
Giannino. Presto, signor padrone.
Dottore. Che vi è di nuovo?
Giannino. Mi manda il notaro Malazzucchi... Lo conosce il notaro Malazzucchi?
Dottore. Sì, lo conosco; che vuole da me?
Giannino. Presto, non vi è tempo da perdere.
Dottore. Ma dimmi che vi è di nuovo.
Giannino. Mi ha detto ch’io cerchi di vossignoria, che lo trovi subito: manco male che l’ho trovato.
Dottore. E bene?
Giannino. Mi lasci prendere un poco di fiato.
Dottore. Ma sbrigati, se vi è qualche cosa di premura.
Giannino. M’ha detto che avvisi vossignoria subito, ma subito, subito.
Dottore. Subito?
Giannino. Che in questa casa... La padrona averà paura.
Dottore. Di chi?
Giannino. Il signor notaro Malazzucchi manda ad avvisare il padrone, che in questa casa ora, subito, in questo punto, vengono trenta sbirri.
Eufemia. Birri in casa mia? Ah povera me! (parte)
Dottore. Sentite, fermatevi. I sbirri? E tanto vi voleva a dirlo a Eufemia? (parte)
Luigi. Son qui, non vi abbandono, sono in vostro soccorso. (parte)
Aspasia. Sono venuta a tempo per vedere una bella scena. (parte)
Giannino. Capperi! la cosa preme. Ho fatto bene io a dirglielo presto; quando preme, so far le cose come van fatte. (parte)
SCENA XI.
Altra camera di Pantalone, con armadio e scrigno.
Pantalone e Traccagnino.
Pantalone. Aiuto!
Traccagnino. Misericordia!
Pantalone. Vien i zaffi.
Traccagnino. Salveve.
Pantalone. Salvemo el scrigno.
Traccagnino. Pensè a salvar la patrona.
Pantalone. Me preme i bezzi.
Traccagnino. Sento zente.
Pantalone. Me nasconderò qua dentro. (s’asconde)
SCENA XII.
Donna Eufemia, Traccagnino e il Dottore.
Eufemia. Dov’è mio marito?
Traccagnino. Mi no so gnente.
Dottore. Dov’è Pantalone?
Traccagnino. Mi noi so, ma el doverave esser poco lontan.
Eufemia. Sento gente.
Traccagnino. Salva, salva.(parte)
Dottore. Non abbiate paura.
SCENA XIII.
Don Luigi e Brighella con gente armata.
Luigi. Che bricconata è questa? I sbirri si prendono una simile libertà? Giuro al cielo, se non usciranno da questa casa, li farò saltare dalle finestre.
SCENA XIV.
Argentina e detti.
Argentina. Oh cospetto di bacco! Si può vedere una bricconata più indegna?
Eufemia. Oimè! Cos’è stato?
Argentina. Quei disgraziati dei sbirri hanno voluto visitare tutta la roba mia; hanno messo le mani per tutto; mi hanno rovinato tutte le mie bagattelle.
Brighella. Se i gh’ha rovina qualcossa, ghe la faremo pagar.
SCENA XV.
Donna Aspasia e detti.
Aspasia. Don Luigi, non fate il pazzo: è qui il signor auditore Pandolfi.
Eufemia. Il signor auditore?
Aspasia. Sì, egli in persona.
Eufemia. Lode al cielo, è venuto a tempo.
SCENA XVI.
Don Gismondo e detti.
Eufemia. Ah signore auditore, vedete la mia casa, è piena di birri.
Argentina. Illustrissimo signore auditore.
Gismondo. Che cosa c’è?
Argentina. I birri mi hanno fatto un’impertinenza.
Gismondo. Che cosa vi hanno fatto?
Argentina. Hanno guardato in un luogo, ch’io non voleva che vi guardassero.
Eufemia. Sta cheta.
Gismondo. Donna Eufemia, il vostro viglietto mi fu recato in istrada poco lungi da questa casa; sono venuto a ricevere gli ordini vostri. Vi ho trovato in un sconcerto assai grande. Ditemi il bisogno vostro, ed io, fin dove può estendersi l’arbitrio mio senza offesa della giustizia, ve lo esibisco di cuore.
Eufemia. Signore, le lingue malediche hanno caricato d’imposture il povero mio consorte.
Gismondo. No, donna Eufemia, non sono imposture le accuse contro vostro marito. Egli è pur troppo noto alla curia, alla Corte, e a tutto Napoli ancora.
Dottore. Illustrissimo signore auditore, la povera mia figliuola è tormentata e assassinata.
Luigi. Signore, liberate quella virtuosa donna dalle mani di un barbaro, che non merita di possederla. Egli, con una gelosia indiscreta, l’affligge, la macera, la tormenta.
Aspasia. E con tutta la sua gelosia, prende i regali, se gliene portano.
Eufemia. Ah signore auditore, se liberarmi volete da quelle persone che mi tormentano, scacciate dalla mia casa questi due che m’insultano. Don Luigi ardisce sollecitarmi; donna Aspasia in favore del di lei fratello m’infastidisce; ambi insidiano l’onor mio, e prevalendosi di qualche debolezza di mio marito, calpestano la riputazione di questa casa, strapazzano il nome mio per le conversazioni, e tentano di macchiar quel decoro, che con tanti stenti ho procurato sempre di conservare.
Aspasia. Ridete, signor auditore, ch’ella è da ridere. Crede che un poco di servitù possa macchiare il decoro?
Luigi. Pare a voi ch’io l’offenda, esibendomi di servirla?
Gismondo. Pare a me che a troppo in faccia mia vi avanziate. Sono informato delle persecuzioni vostre a questa moglie onorata. I servi ne parlano, il vicinato ne mormora, le conversazioni vi si trattengono sopra. Don Luigi, la servitù d’un uomo onesto verso una donna onorata non è condannabile: ma non può credersi servitù onesta in colui che tenta con violenza servire. Allontanatevi da questa casa; non ardite più di venirci; desistete affatto da ogni pensiero contro l’onestà di questa virtuosa donna; consideratela sotto la protezione mia, sotto quella della Corte medesima, a cui è nota la di lei prudenza, la di lei onestà; e guardatevi che note io non faccia le vostre insidie, le vostre persecuzioni. Fate più conto della riputazion delle donne, consideratene il pregio; e siccome ogni ombra di sospetto può denigrarla, togliete sin da questo momento il pericolo coll’allontanarvi da lei, e dimostrate a me nella vostra rassegnazione, che se una cieca passione vi aveva sedotto, siete poi ragionevole nel pentirvi, siete discreto nel moderarvi, siete saggio e prudente nell’intendere, nel risolvere e nel tacere.
Luigi. (Resta sospeso.)
Eufemia. (Il cielo lo ha qui fatto venire in tempo. Don Luigi dovrebbe lasciar di perseguitarmi). (da sè)
Aspasia. (Che fa don Luigi, che non risponde? L’hanno forse avvilito le parole di questo signore auditore? Se toccasse a me, gli vorrei rispondere per le rime). (da sè)
Luigi. Signori, vi riverisco.
Dottore. Padrone riveritissimo.
Aspasia. Così partite, senza dir nulla?
Luigi. Sì, parto, e in questa casa non ci verrò mai più.
Eufemia. (Voglia il cielo ch’egli dica la verità). (da sè)
Gismondo. Siete voi persuaso dalle mie ragioni?
Luigi. Le vostre ragioni per una parte, l’ostinazioni di donna Eufemia per l’altra, mi convincono che persistendo in amarla sarei un pazzo. A chi ha merito, non mancano occasioni di servir donne. Se lascio una che mi disprezza, posso scegliere fra le tante che mi sospirano; e se mi aveva tentato il demonio di servire una che ha il marito geloso, ne troverò mille i di cui mariti faranno pregio della mia amicizia, della mia servitù e della mia protezione. - (parte)
SCENA XVII.
Donna Eufemia, don Gismondo, donna Aspasia ed il Dottore.
Aspasia. Poteva anche aggiungere: della sua borsa.
Eufemia. Voi non parlate senza offendere le persone onorate.
Aspasia. Le persone onorate non ricevono2 i bacili d’argento, le boccette d’oro.
Eufemia. Ah signore auditore, sappiate...
Gismondo. So tutto, sono informato di tutto. Donna Aspasia, assicuratevi che donna Eufemia non ha ricevuto i regali de’ quali parlate. Rispettatela e formate miglior concetto di lei.
Aspasia. Eh signore auditore, ci conosciamo.
Gismondo. Che cosa vorreste dire?
Aspasia. A buon intenditor poche parole.
Gismondo. Spiegatevi.
Aspasia. Voglio trovarmelo anch’io.
Gismondo. Che cosa?
Aspasia. Un protettore che mi difenda.
Gismondo. Voi ne avreste bisogno per la vostra imprudenza; ma niuno sarà cotanto sciocco di proteggere una donna di tal carattere. Vergognatevi di voi stessa, e temete che dicasi di voi con giustizia ciò che d’altrui sognate senza ragione.
Aspasia. La non si scaldi, padron mio, la non si scaldi. Non dubiti che donna Eufemia non la toccheranno. Farò conto di non averla mai conosciuta, e se il signore auditore mi perderà il rispetto...
Gismondo. Cosa farete, signora?
Aspasia. Lo dirò a mio marito, e ci faremo bandir di Napoli, se bisogna. (parte)
SCENA XVIII.
Donna Eufemia, don Gismondo ed il Dottore; e poi Pantalone.
Gismondo. La compatisco; la passione la fa parlare.
Eufemia. Voi mi avete sollevata dal maggior peso di questo mondo, levandomi d’attorno queste due persone moleste.
Dottore. Adesso che questa gente è andata via, e che siamo soli, pensiamo a noi, signore auditore. Mia figliuola non può più vivere con suo marito, ho risoluto di condurla a casa mia. Che mi consiglia ch’io faccia?
Gismondo. Sì, è necessario di far conoscere al signor Pantalone il pregio di una moglie di tanto merito, col minacciarlo di levargliela dalle mani; staccandola per qualche tempo dal di lui fianco, può essere che si ravveda. Donna Eufemia, andate per qualche giorno a vivere con vostro padre.
Dottore. Venite con me, Eufemia; e dopo ci faremo restituire la dote.
Gismondo. Non sarebbe mal fatto di minacciarlo anche di questo.
Dottore. Eccolo qui quel maledetto scrigno. Facciamolo sequestrare, assicuriamoci dei dodeci mila scudi di questa mia sventurata figliuola. (in questo Pantalone esce dall'armadio)
Pantalone. Oimei! Muggier, no me abbandonè. Ah sior auditor, no me la levò per carità! Sior Dottor, vostra fia sarà ben trattada, no la tormenterò più. No, cara la mia zoggia, no ve tormenterò più. V’ho sempre volesto ben, e adesso che ho sentio la vostra fedeltà, el vostro amor, m’avè fatto pianzer per tenerezza. Eufemia, no me abbandonè. Siori, per carità, no me assassinè.
Gismondo. Conoscete voi di averla maltrattata contro giustizia?
Pantalone. Sior sì, lo conosso.
Gismondo. Mi promettete di meglio trattarla per l’avvenire?
Pantalone. Sì, lo prometto. Eufemia, no se crierà più; no se crierà più, sior Dottor.
Dottore. Il ciel lo voglia.
Pantalone. Vien qua, muggier, dame un abbrazzo.
Eufemia. (Cielo, ti ringrazio, sarò libera da una gran pena). (da sè)
Dottore. Caro signor genero, se è vero che avete superata la gelosia, bisognerebbe che superaste anche un’altra cosa.
Pantalone. Coss’oio da superar?
Dottore. L’avarizia.
Pantalone. Mi no son avaro.
Gismondo. Su questo particolare so ancor io qualche cosa. Signor Pantalone, dov’è lo scrigno?
Pantalone. Mi no gh’ho scrigno.
Gismondo. Aprite quella cassa di ferro.
Pantalone. Ah! me volè ammazzar. (grida forte)
Gismondo. Convien rendere il mal acquistato.
Pantalone. Ah! che sieu maledetti. (si getta sullo scrigno)
Gismondo. Se continuate così, non meritate pietà. Vostra moglie tornerà con suo padre.
Pantalone. Andè al diavolo quanti che sè.
Gismondo. Questo è l’amore che avete per vostra moglie?
Pantalone. Sì, ghe voggio ben.
Gismondo. Pagate i vostri debiti.
Pantalone. No gh’ho debiti, no gh’ho bezzi. (stringe lo scrigno)
Eufemia. (Signore, abbiate carità del povero mio marito. Questa passione non la può superare. La gelosia pare che l’abbia superata, ma l’interesse è impossibile). (a don Gismondo)
Gismondo. Dunque non dovrà rendere la roba d’altri?
Eufemia. La renderà; con il tempo la renderà. Fidatevi di me, signore, e non dubitate.
Dottore. (Signore auditore, m’ascolti: io pagherò tutti e quieterò tutti; sagrificherei anche il mio sangue per veder quieta la mia figliuola). (a don Gismondo)
Gismondo. (Ma usure non ne ha da far più).
Eufemia. (Ci baderò ancor io. Non ne farà più).
Pantalone. (Maledetti! i me vol cavar el cuor). (da sè, sopra lo scrigno)
Gismondo. Signor Pantalone, vi si lascia lo scrigno, ma avvertite bene, la prima volta che voi prestate denari con pegno, o senza pegno, con un denaro d’usura, vi farò marcire in una prigione.
Pantalone. Se impresto più un soldo a nissun, che el diavolo me porta via.
Gismondo. Orsù, rasserenatevi. Eccovi vostra moglie.
Pantalone. Sior sì. (tiene lo scrigno avvinto)
Gismondo. Abbracciatela almeno.
Pantalone. No mancherà tempo.
Dottore. Andiamo via da questa camera; qui dentro sento serrarmi il cuore.
Pantalone. Andè dove che volè.
Dottore. Andiamo, Eufemia.
Eufemia. Venite con noi, marito mio.
Pantalone. Andè, che vegnirò.
Gismondo. Vi servirò io, signora. (dà braccio a donna Eufemia)
Pantalone. (Guarda un poco donna Eufemia, poi seguita ad abbracciare lo scrigno.)
Gismondo. Non avete già dispiacere ch’io serva vostra moglie?
Pantalone. Sior no, no son zeloso.
Eufemia. Marito mio, vi prego volermi bene.
Pantalone. Sì, ve ne voggio, ve ne vorrò, ma lasseme un poco in quiete per carità.
Eufemia. Andiamo, signor don Gismondo, lasciamolo in pace; qualche cosa conviene ancora soffrire; ma s’egli non mi tormenta più colla gelosia, sono la più contenta donna del mondo. Benedirò le lagrime che ho versate, se queste mi hanno acquistato il bel tesoro della pace, della tranquillità, dell’amore. (parte)
Gismondo. Bel carattere di moglie onesta. Misero Pantalone, aveva egli in due passioni diviso il cuore, ora una sola con maggior empito lo tiranneggia. (parte)
Dottore. Genero amato, venite con noi. Non lasciate sola la vostra consorte.
Pantalone. Mia muggier no gh’ha bisogno de mi.
Dottore. Sia ringraziato il cielo! ha lasciato una volta la gelosia; se poi è avaro, pazienza. Almeno non tormenterà più la mia figliuola. (parte)
SCENA XIX.
Pantalone solo.
Mia muggier coll’auditor... e per questo? mia muggier xe una donna onorata. L’ho scoverta, l’ho cognossua; no ghe voggio pensar. Povero scrigno! questo xe quello che me sta sul cuor. Mi giera combattù da do passion: dalla zelosia e dall’amor dell’oro. La maledetta zelosia la me xe passada, l’amor dell’oro me cresse. Ho venzo la zelosia per rason del disinganno; chi poderà disingannarme che l’oro no sia adorabile? Sì, l’amerò in eterno. In eterno? Ah no, bisognerà lassarlo quando s’averà da morir. Morir? lassar l’oro, lassar l’arzento? Sì, doverò lassarlo! Caro el mio scrigno, che ti mi costi tanti spasemi, tanti suori, doverò lassarte? E quando te lasserò, de ti cossa averoggio godesto? che pro m’averastu fatto? Rimorsi, affanni, desperazion. Ti, ti m’ha fatto perder la reputazion; ti me farà perder la vita, ti me farà perder ogni più bella speranza: e mi te amerò? e mi te coltiverò? Oro, cossa mai gh’astu de bello? Che incanto xe el too, che innamora la zente! Lassete un poco véder (apre lo scrigno) Sì, ti xe bello, ti xe lusente, ti xe raro: ma se te devo lassar? Ti ti provvedi a tutti i nostri bisogni: ma se de ti no me servo, ma se quando morirò ti me sarà de peso, ti me sarà de tormento! Maledettissimo oro! Va al diavolo. Voggio abbandonarte avanti che ti me abbandoni. Va là, prezzo infame delle mie tirannie. Va, va, che el diavolo te porta via. (getta lo scrigno in terra, e spande il denaro) Oimè? el mio oro, el mio cuor, le mie vissere. Me sento morir; no posso più. Aiuto! (gridando si getta a sedere svenuto)
SCENA ULTIMA.
Donna Eufemia, don Gismondo, il Dottore, Argentina e detto.
Eufemia. Oimè!
Dottore. Cosa è stato?
Argentina. Quant’oro, quant’argento per terra!
Gismondo. Pantalone è svenuto?
Eufemia. Povero mio marito!
Dottore. Il scrigno in terra! Ho paura che sia diventato matto.
Eufemia. Signor Pantalone, marito mio, sollevatevi per carità.
Pantalone. Amici, muggier, no me abbandonè.
Eufemia. Perchè non siete venuto con vostra moglie?
Pantalone. Perchè una muggier onorata no gh’ha bisogno della custodia de so mario.
Dottore. Perchè buttare in terra lo scrigno ed i denari?
Pantalone. Perchè se mor; e un zorno el s’ha da lassar.
Gismondo. Amico, parmi di vedere in voi una gran mutazione. (a Pantalone)
Pantalone. Muggier, (bacia la mano a donna Eufemia) sior missier, sior auditor, compatirne, aiuteme, lasseme respirar, (va per andar via, si ferma a guardar lo scrigno, poi gli dà un calcio e parte.)
Dottore. Grazie al cielo, è cambiato del tutto.
Gismondo. Donna Eufemia, ringraziate il cielo.
Eufemia. Sì, lo ringrazio di cuore. La mutazione è totale; spero di vivere più felice. Questo suo cambiamento sollecito, e quasi instantaneo, è cosa strana, è cosa che non sarebbe forse creduta, se altrui si narrasse e si rappresentasse sopra una scena. Ma niente è impossibile alla provvidenza del cielo; e molte cose accadono portentose nell’ordine istesso della natura. Vinse la mia costanza del marito la gelosia; vinsero i pericoli ed i rimorsi la sua avarizia. Ecco disingannato e convinto il più affascinato geloso, il più tenace avaro. Ecco resa contenta e felice la più sventurata donna del mondo, in grazia dell’onestà e in virtù della tolleranza.
Fine della Commedia.