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112 | ATTO TERZO |
spetto può denigrarla, togliete sin da questo momento il pericolo coll’allontanarvi da lei, e dimostrate a me nella vostra rassegnazione, che se una cieca passione vi aveva sedotto, siete poi ragionevole nel pentirvi, siete discreto nel moderarvi, siete saggio e prudente nell’intendere, nel risolvere e nel tacere.
Luigi. (Resta sospeso.)
Eufemia. (Il cielo lo ha qui fatto venire in tempo. Don Luigi dovrebbe lasciar di perseguitarmi). (da sè)
Aspasia. (Che fa don Luigi, che non risponde? L’hanno forse avvilito le parole di questo signore auditore? Se toccasse a me, gli vorrei rispondere per le rime). (da sè)
Luigi. Signori, vi riverisco.
Dottore. Padrone riveritissimo.
Aspasia. Così partite, senza dir nulla?
Luigi. Sì, parto, e in questa casa non ci verrò mai più.
Eufemia. (Voglia il cielo ch’egli dica la verità). (da sè)
Gismondo. Siete voi persuaso dalle mie ragioni?
Luigi. Le vostre ragioni per una parte, l’ostinazioni di donna Eufemia per l’altra, mi convincono che persistendo in amarla sarei un pazzo. A chi ha merito, non mancano occasioni di servir donne. Se lascio una che mi disprezza, posso scegliere fra le tante che mi sospirano; e se mi aveva tentato il demonio di servire una che ha il marito geloso, ne troverò mille i di cui mariti faranno pregio della mia amicizia, della mia servitù e della mia protezione. - (parte)
SCENA XVII.
Donna Eufemia, don Gismondo, donna Aspasia ed il Dottore.
Aspasia. Poteva anche aggiungere: della sua borsa.
Eufemia. Voi non parlate senza offendere le persone onorate.
Aspasia. Le persone onorate non ricevono1 i bacili d’argento, le boccette d’oro.
- ↑ Pitteri: ricercano