Il geloso avaro/Atto II
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ATTO SECONDO.
SCENA PRIMA.
Casa di donna Eufemia.
Argentina e Traccagnino.
Traccagnino. Vien qua, Argentina, che t’ho da contar una bella cossa.
Argentina. Eccomi, che cosa hai da raccontarmi?
Traccagnino. M’è successo ozi1 quel che no m’è successo mai più.
Argentina. Che cosa mai t’è successo?
Traccagnino. M’è stà regalà un ducato.
Argentina. (Oh bella! questo è il giorno delli ducati!) (da sè) Chi te lo ha regalato?
Traccagnino. Me l’ha dà Brighella, me paesan, el servidor de sior don Luigi.
Argentina. Sì, sì, lo conosco. Per qual causa ti ha regalato un ducato? Per il tuo bel viso no certo.
Traccagnino. Se no fusse per certa ambassada che ho da far alla patrona, per un certo regaletto che i ghe vol mandar.
Argentina. Oh bravo davvero! c’è questa bagattella di mezzo, e vai mendicando il perchè?
Traccagnino. Mo, se per ogni ambassada i donasse un ducato, el saria el più bel mestier de sto mondo.
Argentina. Traccagnino, ti ho da dire una cosa.
Traccagnino. Cossa m’at da dir?
Argentina. Quel ducato è mio.
Traccagnino. L’è to? mo per cossa?
Argentina. Le ambasciate alla padrona tocca a me a farle, e se quel ducato l’hanno dato per questa causa, il ducato è mio.
Traccagnino. Donca no i me l’averà dà per sta causa.
Argentina. Senti, Traccagnino: non faccio già per mangiarti un ducato, che sai benissimo ch’io non sono interessata. Ma quella moneta senz’altro te l’hanno data per questo; e se vuoi servire l’amico, hai da passare per le mie mani; e s’io m’incomodo, è giusto che le mie fatiche siano ricompensate.
Traccagnino. Cossa intendet mo de dir? Mi no te capisso...
Argentina. Intendo dire, che se tu hai avuto un ducato, io non te lo levo, ma mettiti le mani al petto, me ne toccava uno anche a me.
Traccagnino. Se me metto le man al petto, no me par che te tocca gnente.
Argentina. E l’ambasciata non si farà.
Traccagnino. E se no se fa l’ambassada, m’ha dito Brighella che ducati no ghe ne vien più.
Argentina. Vedi dunque, se te l’hanno dato per questo? Ma senza un altro ducato a me, non si fa l’ambasciata.
Traccagnino. Adesso anderò a dirgh a Brighella, che el me daga un altro ducato per ti.
Argentina. No, facciamo così; non perdiamo tempo. Dammi intanto quello che tu hai, poi lo dirai a Brighella, e te ne farai donare un altro per te.
Traccagnino. E se nol me lo volesse dar?
Argentina. Fidati di me e non pensar altro. Sai chi sono. Non son ragazza capace di mangiarti un ducato.
Traccagnino. Tiò, tel dago colle lagrime ai occhi.
Argentina. (Quanto ci ha voluto! Me lo son guadagnato a forza di parole). (da sè.)
Traccagnino. El primo ducato che ho avù a sto mondo.
Argentina. Dimmi l’ambasciata che s’ha da fare alla nostra padrona.
Traccagnino. L’ha dit cussì Brighella...
Argentina. Ecco la padrona. Falle l’ambasciata, e non perder tempo.
Traccagnino. Tocca a ti, che ti ha avù el ducato.
Argentina. Aiuterò la barca; seconderò l’intenzione; faciliterò il negozio. Vedrai che questa moneta me l’averò guadagnata.
SCENA II.
Donna Eufemia e detti.
Eufemia. Che fai tu in questa camera? Sai pure che il padrone non ti ci vuole. (a Traccagnino)
Argentina. Signora, egli ha da farle un’ambasciata.
Traccagnino. (Brava!) (dasè)
Eufemia. Un’ambasciata? Per parte di chi?
Argentina. Via, di’ alla padrona quello che tu devi dire.
Traccagnino. Che dirò, signora. Conossela Brighella, servidor de sior don Luigi?
Eufemia. Lo conosco. Lo manda forse donna Aspasia, di lui sorella?
Traccagnino. Gnora no. Lo manda proprio sior don Luigi con un bazil tanto fatto d’arzento, pien de cioccolata.
Eufemia. Un bacile di cioccolata? A chi la manda? (alterata)
Traccagnino. Tutta sta roba el dis cussì che la vien a vussoria.
Eufemia. A me un regalo di cioccolata?
Traccagnino. Eh, no la vaga miga in collera. Nol ghe manda miga la cioccolata sola; m’ha dit Brighella, che el gh’ha ordene de lassar el bazil.
Eufemia. Temerario! Di’ a colui che se ne vada immediatamente. Riporti il bacile, come sta, al suo padrone; e tu, frasconcella, tu che sai la mia delicatezza in simili cose, ardisci favorire un’ambasciata di tal natura?
Argentina. Signora, io non credeva...
Eufemia. Sei una temeraria.
Traccagnino. Poverazza, no la ghe staga a criar; no la l’ha fatt miga con nissuna malizia: la l’ha fatto per el ducato.
Eufemia. Che dici tu di ducato? Avresti preso forse qualche moneta per sì bell’uffìzio? Se me lo potessi sognare, ti caccierei via in questo momento.
Argentina. Possa morire, se ho neanche veduto in faccia colui che vi volea parlare.
Eufemia. Va subito: fa che Brighella se ne vada immediatamente, prima che il signor Pantalone ritorni a casa. (a Traccagnino)
Traccagnino. Arzentina, me raccomando a ti.
Argentina. Dice bene la mia padrona. Le signore della sua sorta non ricevono regali.
Traccagnino. Recòrdete, Arzentina...
Argentina. Animo, obbedisci la tua padrona.
Eufemia. Vattene, prima che colui ardisca passare avanti.
Traccagnino. Ma! el ducato.
Argentina. Il ducato è mio. Tu non ci entri.
Traccagnino. Ghel dirò alla patrona.
Argentina. Sì, ora glielo dico io, e vedrai se ho ragione. Signora, se viene il padrone e vede quell’uomo in casa, saranno guai.
Eufemia. Presto, dico, vallo a licenziare, e poi torna qua.
Traccagnino. Sia maledetto! Tolì, el ducato no lo vadagno più.
Eufemia. Senti.
Traccagnino. S’èla pentida?
Eufemia. Di’a Brighella che ringrazi per me il suo padrone, che scusi se gli rimando indietro la cioccolata, perchè mi fa male e non ne bevo.
Traccagnino. Più tosto, per giustarla, la beverò mi.
Eufemia. Mi hai inteso. Vattene ed obbedisci.
Traccagnino. (No m’arrecordo più cossà che gh’abbia da dir; quel ducato m’ha messo in confusion). (da sè, parte)
SCENA III.
Donna Eufemia ed Argentina, poi Traccagnino che torna.
Eufemia. Bene, signorina, che vuol dire Traccagnino del suo ducato? Che mistero vi è sotto?
Argentina. Sentite che pretensione ridicola ha colui. Il signor Dottore, come sapete, mi ha donato un ducato; l’ho detto così per modo di discorso a Traccagnino, e egli pretende ch’io gliene dia la metà.
Eufemia. Con qual fondamento lo pretende?
Argentina. Perchè è un sciocco; ma un sciocco malizioso.
Eufemia. Quello mio padre l’ha dato a te, ed è roba tua.
Traccagnino. Signora patrona, la me bastona, che la gh’ha rason.
Eufemia. Perchè? Che hai tu fatto?
Traccagnino. No m’ho recordà gnanca una parola de quel che la m’ha dito2 de dir a Brighella.
Eufemia. Bravissimo! al tuo solito. Mio marito spende bene con te il suo danaro.
Traccagnino. El ghe ne spende tanto pochetto.
Eufemia. Ora con colui cosa si farà?
Traccagnino. Mi diria debolmente, che ela in persona ghe disesse la rason.
Argentina. Traccagnino non dice male; la risposta anderà più a dovere.
Eufemia. Che infelicità con costoro! Fallo passare.
Traccagnino. Gnora sì.
Argentina. Domanda, Traccagnino, alla padrona del ducato. E vero, signora, che è tutto mio, che a Traccagnino non ne tocca?
Eufemia. Certamente: questa è giustizia.
Traccagnino. De sta sentenza me ne appello.
Argentina. A qual tribunale?
Traccagnino. Al tribunal delle patrone che no recusa i regali. (parte)
Argentina. (Maledetto!) (da sè) Costui è uno stolido. Non sa che diavolo si dica.
Eufemia. S’egli è sciocco, non l’esser tu. Bada bene a non mi mettere in qualche impegno.
Argentina. Oh, signora mia, per me non c’è dubbio. Sapete la mia delicatezza in proposito di queste cose. Se vedessi l’oro tant’alto, non c’è dubbio che io vi parli.
SCENA IV.
Brighella con bacile, e dette.
Brighella. Servitore umilissimo. Padrona mia riveritissima.
Eufemia. Voi siete il servitore di don Luigi.
Brighella. Per servirla.
Argentina. (Oh peccato! tanta bella cioccolata!) (da sè)
Brighella. El me padron el ghe fa umilissima reverenza, e el la prega a degnarse de sentir un poca della so cioccolata.
Argentina. (Anche il bacile?) (piano a Brighella)
Brighella. (Sì). (piano ad Argentina)
Eufemia. Dite al vostro padrone che lo ringrazio infinitamente, che cioccolata io non ne bevo, perchè non mi conferisce allo stomaco; e riportatela dove l’avete presa.
Brighella. Cara signora, se la ghe fa mal, la beverà la so cameriera.
Argentina. Certo; a me non fa male.
Eufemia. M’avete inteso? Ve ne potete andare.
Brighella. E al me padron la ghe vol far sto affronto? Poveretto mi, se ghe porto indietro3 sta cioccolata e sto bacil!...
Eufemia. Anche il bacile destinato per me?
Argentina. Sì, signora, che vi pare?
Eufemia. È troppo compito il signor don Luigi. Ditegli che la cioccolata mi fa male, ed il bacile mi offende.
Argentina. (In quanto a me non mi offenderebbe nemmeno se me lo dessero nella testa). (da sè)
Brighella. Certo l’è un gran affronto, ma ghe vorrà pazienza.
Eufemia. Meno ciarle, galantuomo. Andate.
Brighella. Vado subito. Pazienza. Servitor umilissimo. (va per andare, incontra Pantalone)
SCENA V.
Pantalone e detti.
Pantalone. Cossa gh’è? (a Brighella)
Brighella. (Oh diavolo!) (da sè, sorpreso)
Eufemia. Vedete, marito? Il signor don Luigi manda a voi quel bacile di cioccolata. Io non lo volevo ricevere senza ordine vostro.
Pantalone. Lo mandelo a mi, o lo mandelo a vu?
Eufemia. Io credo lo mandi a voi. Con me non ha niente che fare.
Pantalone. Amigo, a chi mandelo el sior don Luigi tutta sta roba? A mi? o a mia muggier?
Brighella. (Ho inteso el zergo). (da sè) El me padron la manda a vussoria, el ghe fa reverenza e el lo prega de farghe l’onor de assaggiar la so cioccolata.
Pantalone. E el bacil?
Brighella. Se no la sa dove metterla, ho ordine de lassarghe anca el bacil.
Pantalone. Veramente xe tutto pien in casa; no saveria dove metterla.
Argentina. (Questo l’intende bene; altro che la padrona!) (da sè)
Pantalone. (M’immagino per cossa che don Luigi me manda sto regalo). (a donna Eufemia, piano)
Eufemia. (E perchè mai?) (piano a Pantalone)
Pantalone. (El vorrà domandarne dei bezzi in préstio, ma senza pegno no ghe ne dago). (piano a donna Eufemia)
Eufemia. (Povero mio marito, l’interesse l’accieca!) (da sè)
Argentina. (Che dite eh? Il marito è più discreto della moglie). (piano a Brighella)
Brighella. (Me piase quelle muier che anca in ste cosse le vol dipender dai maridi). (piano ad Argentina)
Pantalone. Orsù, lassè qua e ringraziè sior don Luigi. Quando lo vederò, farò le mie parti. (a Brighella)
Brighella. Consegnerò el bacil alla cameriera.
Pantalone. No, no; dèmelo a mi. Custìa la xe golosa, la la magneria mezza, e po la ghe farave mal.
Argentina. (Addio cioccolata. Quella non si vede più). (da sè)
Pantalone. Ecco fatto. Deme el bacil, e ve ringrazio.
Brighella. Signor...
Pantalone. Cossa gh’è? Aveu gnente da dirme?
Brighella. Niente. Ghe son servitor.
Pantalone. Parlè, se me volè dir qualcossa.
Brighella. Diria, ma ho rossor.
Pantalone. (Stè a veder). (da sè) Parlè, parlè liberamente.
Brighella. Se la me donasse da bever l’acquavita.
Pantalone. Che! stè qua per questo? Me rincresse che no gh’ho monea, no gh’ho niente da darve; se volè un poco de cioccolata, ve la darò.
Brighella. Anca quella no la saria cattiva.
Pantalone. Aspettè. (da un bastone ne rompe un pezzo)
Argentina. (Non è poco, che usi questa generosità). (da sè)
Pantalone. Tolè, cerchèla anca vu. (a Brighella)
Brighella. Grazie, grazie, la me fa mal. (Avaro maledetto! se pol dar de pezo!) (da sè, parte)
SCENA VI.
Pantalone, donna Eufemia e Argentina.
Pantalone. Se nol la vol, a so danno; anca questa la sarà bona per una chicchera almanco.
Argentina. Datemelo a me quel pezzetto di cioccolata.
Pantalone. La te farà mal, la te farà calor. Ti xe una zovene, ti xe de sangue caldo. La cioccolata no xe per ti.
Argentina. Oh benedetto il mio padrone, che ha tanta carità’ per me! (Affrica maledetta!) (da sè)
Eufemia. Povera ragazza! dategliene un pezzolino.
Pantalone. No ghe voggio dar niente. Vu no ve n’impazzè.
Eufemia. Per me non ve ne domando.
Pantalone. Se me ne domandessi, no ve ne daria.
Eufemia. Pazienza!
Argentina. Siete pur crudele, signor padrone.
Pantalone. Va via de qua.
Argentina. Perchè, signore?
Pantalone. Va via de qua.
Argentina. Ma io...
Pantalone. Va via, impertinente. Te bastonerò.
Argentina. Diavolo! Satanasso! Mummia maledetta! (parte)
SCENA VII.
Donna Eufemia e Pantalone.
Pantalone. Se te chiappo...
Eufemia. (È alterato; sarebbe meglio ch’io me ne andassi).(da sè)
Pantalone. (Un bacil de cioccolata!) (da sè)
Eufemia. Io me n’anderò, se vi contentate.
Pantalone. Siora no. (Anca el bacil!) (da sè)
Eufemia. (Principia a farmi paura). (da sè)
Pantalone. Quel staffier che ha portà sta cioccolata, giera un pezzo che el giera qua?
Eufemia. Non era molto.
Pantalone. No giera molto. L’ha parla con vu un pezzetto però.
Eufemia. Voleva lasciar il bacile senza di voi, ed io non l’ho voluto ricevere.
Pantalone. Se el cercava de mi, che necessità ghe giera che el vegnisse in te la vostra camera?
Eufemia. È stato quello sciocco di Traccagnino: io non ne ho colpa.
Pantalone. La patrona no ghe n’ha colpa. Eppur sta cioccolata, sto bacil, ghe zogheria che nol vegniva a mi.
Eufemia. Avete pur sentito che cosa ha detto Brighella.
Pantalone. Ghe4 son dreto anca mi la mia parte. Ela l’ha dito che el regalo vegniva a mi. El s’ha tacca al partìo; e se crede che mi l’abbia bevua.
Eufemia. Ma caro signor Pantalone, compatitemi, con tali sospetti in mente perchè prendeste il bacile e la cioccolata?
Pantalone. L’ho fatto per politica. Perchè no se veda quel bacil a tornar fora de sta casa; perchè el visinato no mormora; e anca per non entrar in qualche impegno con don Luigi, che el xe un omo bestial.
Eufemia. Non so che dire. Tutto quello che fate voi, è ben fatto.
Pantalone. E tutto quel che fe vu, xe mal fatto; e sè una donna senza giudizio, una femena senza reputazion.
Eufemia. Come? Per qual ragione mi dite questo?
Pantalone. Perchè se a don Luigi no gh’avessi dà qualche bona speranza, nol ve mandarave i regali.
Eufemia. Ma non avete detto che ve l’averà mandato per indurvi a prestargli qualche denaro?
Pantalone. Scuse magre. Se el gh’avesse bisogno de bezzi, nol comprarave i bacili d’arzento. Scuse magre, ve torno a dir.
Eufemia. Questa non è mia scusa, è stato un vostro pensamento.
Pantalone. Busiara! falsa! frascona!
Eufemia. Voi m’ingiuriate a torto.
Pantalone. Se no vegniva a casa mi, el bacil se scondeva.
Eufemia. Non è vero.
Pantalone. No xe vero? a mi se responde no xe vero? No so chi me tegna...
Eufemia. Ammazzatemi una volta, e levatemi da queste pene.
Pantalone. Sì, ve copperò.
SCENA VIII.
Dottore e detti.
Dottore. Perchè accopparla, signore? perchè accopparla?
Pantalone. Cossa vegniu a far vu in casa mia?
Dottore. Vengo a vedere mia figliuola, il mio sangue, la mia creatura.
Eufemia. (Il cielo l’ha mandato). (da sè)
Pantalone. In casa mia no se vien senza mia licenza.
Dottore. Ma chi porta i bacili d’argento, può venire liberamente.
Pantalone. Vostra fia xe quella che li riceve.
Dottore. Eh, acchetatevi, che farete meglio. Ho saputo ogni cosa. Mia figliuola non lo avrebbe ricevuto, se voi non lo aveste preso per la vostra maledetta avarizia. Argentina mi ha detto come la cosa sta.
Pantalone. (Lenguazza del diavolo!) (da sè)
Dottore. E mi ha ancora detto, che avete levati ad Eufemia persino i quattro zecchini che le avevo dati.
Eufemia. (Gran ciarliera è colei! Mi dispiace assaissimo che gliel’abbia detto). (da sè)
Pantalone. Mi no gh’ho tolto i quattro zecchini per no ghe li dar. I xe sempre sói; quando la li vol, i xe là per ela.
Dottore. Se ne avete a male ch’io gli dia dei denari, non gliene darò più.
Pantalone. Mi no digo ste bestialità; sè so pare, la saria bella che no ghe podessi dar qualche zecchin.
Eufemia. (Manco male, si va rasserenando). (da sè)
Dottore. Ma mi dispiace che sempre in casa vostra siano delle liti.
Pantalone. Mi no parlo mai. Domandeghelo a ela. Disèlo libemente, siora donna Eufemia, crio mai mi? songio fastidioso? ve tormentio mai?
Eufemia. No certamente, signor padre. Il signor Pantalone è con me discretissimo.
Pantalone. Sentiu? Un mario come mi no se trova.
Dottore. Potete gloriarvi di avere una moglie che è una pasta di zuccaro.
Pantalone. Ella e mi semo do colombi.
Dottore. Non vi è pericolo di alcuna cosa. In mia casa è stata ben allevata.
Pantalone. E mi vivo coi occhi serrai; conosso che la xe una donna, e no son zeloso. E vero, muggier? mi no son zeloso.
Eufemia. È verissimo. (sospirando)
Pantalone. Sospirè? per cossa?
Eufemia. Perchè son cose che mi consolano.
Pantalone. (Eh, te cognosso! Anderà via to pare). (da sè)
Dottore. Mi dispiace dell’accidente di questo bacile. Sono cose che possono dar da dire. Credetemi, genero mio caro, che questa volta non vi siete contenuto da vostro pari.
Pantalone. I m’ha chiappà all’improvviso; no ho avù tempo de pensarghe suso.
Dottore. Sareste ancora a tempo per rimediarvi.
Pantalone. Come?
Dottore. Dovreste a quel signor rimandare la roba sua.
Pantalone. Adesso no xe più tempo. No saveria come far.
Dottore. Lasciate fare a me: datemi quel bacile, e non dubitate. La cioccolata non importa. Il male sta nel bacile. Consegnatelo a me, che troverò la maniera di rimandarlo.
Pantalone. Sior missier, vu no me conseggiè ben. Questa xe la maniera de trovar un impegno. Saveu cossa che farò? Ghe ne farò far un compagno, ghe metterò suso del caffè e del zucchero, e lo manderò a regalar a don Luigi. Cussì saremo del pari, con nobiltà, con pulizia. Ah! cossa ve par?
Dottore. Ancora così anderebbe bene. Basta che si ritrovino dei fatti.
Pantalone. Senz’altro.
Dottore. Dei bacili vi saranno de’ fatti.
Pantalone. Seguro.
Dottore. Da bravo dunque, non perdiamo tempo.
Pantalone. Vago subito (a vender questo, ma no a comprarghene un altro). (da sè, partendo)
Eufemia. (Mi pare impossibile che lo faccia). (da sè)
Pantalone. (Sto vecchio resta qua con mia muggier... Eh! el ghe poderave donar qualcossa). (da sè, parte)
SCENA IX.
Donna Eufemia ed il Dottore.
Dottore. Sapete, figliuola mia, per qual cosa sono tornato da voi questa mattina?
Eufemia. Perchè mai, signor padre? Ogni volta che vi vedo, mi consolate.
Dottore. Son tornato da voi, perchè nell’andare a casa mi è stato raccontato di questo gran bacile pieno di cioccolata che è stato portato in vostra casa, in tempo che non vi era vostro marito; e mi è stato detto che in bottega dello speziale la gente si è messa a ridere, ed ha principiato a mormorare. Io non sapeva cosa fosse questo negozio. Son corso per vedere e per sentire. Ma poi Argentina mi ha raccontato il tutto, ed ho saputo quello che ha fatto il matto di vostro marito.
Eufemia. Per dirla, io non avrei voluto ch’egli prendesse il bacile.
Dottore. Perchè non glielo avete detto? perchè non glielo avete suggerito?
Eufemia. Gliel’ho detto io, ma...
Dottore. Se glielo aveste detto in buona maniera, forse lo avrebbe fatto; si vede che vi vuol bene e che fa stima di voi.
Eufemia. (Piange.)
Dottore. Cosa vi è di nuovo? vi scorrono le lacrime dagli occhi? Forse non è vero che vostro marito vi voglia bene? Egli lo ha fatto confermare da voi medesima. L’avete pur detto alla mia presenza.
Eufemia. (Piange.)
Dottore. Ah figliuola mia, voi piangete? Qui vi è del male. Avete avuto qualche disgusto? Vi ha fatto qualche cosa vostro marito? Parlate, confidate con me.
Eufemia. Ah signor padre, non posso più.
Dottore. Oh cielo! Qual novità è mai questa?
Eufemia. Non è cosa nuova ch’io peni, ma sarà cosa nuova che io parli. Mio marito son anni che mi tormenta; non mi lascia avere un momento di pace. È geloso senza motivo di esserlo: è sospettoso senza ragione. Non basta ch’io lo secondi, ch’io l’obbedisca, ch’io taccia. Pare ch’egli gioisca nel tormentarmi; pare ch’io sia la sua maggior nemica. Non parlo del poco cibo, non mi lagno del miserabile trattamento. Una veste mi basta, una vivanda mi sazia; ma oh Dio! più strapazzi che pane! È una miserabile vita che mi fa bramar di morire.
Dottore. Oh me infelice! Voi mi cavate le lacrime dal fondo del cuore. Cara figliuola mia, voi avete per consorte una tigre, e lo sopportate per sì lungo tempo? Vi ho ancor io consigliato a soffrirlo, finchè ho creduto che la di lui cattivezza si potesse tollerare; ma ora che sento che si rende insoffribile e che siete tormentata in questa maniera, sono qua, Eufemia, son vostro padre, venite con me, voi starete con me. Fin che sono vivo, voi sarete padrona della mia casa e di tutto il mio cuore.
Eufemia. (Oimè! che ho fatto mai? Perduto ho in un punto tutto il merito della tolleranza? Impegnata a sostenere il decoro di mio marito, per sì lieve cagione l’averò io calpestato?) (da sè) Ah signor padre, compatite la mia debolezza. Noi donne abbiamo de’ momenti inquieti, de’ momenti funesti. Mi avete presa in un punto che mi sentiva oppressa, nè saprei dire il perchè. La vita che mi fa vivere mio marito, non è sì trista che possa ridurmi ad una violente risoluzione. Compatitemi; scordatevi delle mie doglianze; non mi credete, allorchè io parlo senza pensare. Sì, mio marito mi ama; e se ora mi sgrida, è padrone di farlo, ed io meriterò che mi sgridi. L’ambizione talora mi eccita a desiderare quello ch’io non ho; ma finalmente quello che ho mi basta. Credetemi, or che vi parlo senza passione. Ponete in quiete l’animo vostro; il mio è calmato. Mi pento di quel che ho detto; arrossisco di me medesima; e queste lagrime che ora mi grondano dagli occhi, non sono effetti delle mie disgrazie, ma del mio giustissimo pentimento. (parte)
Dottore. Venite qui; sentitemi; vi credo e ci rimedierò. Infelice! (parte)
SCENA X.
Camera di Pantalone: tavolino e sopra la cioccolata e bacile, bilancie, calamaio e carta.
Pantalone solo.
Sto bacil l’averave da esser de vinti onze almanco. Voggio pesarlo. No voggio che i oresi me gabba in tel peso. Quando l’averò pesà mi, me saverò regolar. A sto mondo tutti cerca de ingannar; no gh’è più fede, no gh’è altro che interesse. (pesa il bacile)
SCENA XI.
Traccagnino e detto.
Traccagnino. Sior padron.
Pantalone. Cossa vustu? (copre)
Traccagnino. Una visita.
Pantalone. Che visita? adesso no recevo visite. Ho da far, no posso recever nissun.
Traccagnino. Ah sior patron...
Pantalone. Cossa gh’è?
Traccagnino. L’è un odor che me consola el cuor.
Pantalone. Va via de qua.
Traccagnino. Za che patisse la gola, lassò almanco che se consoli el naso.
Pantalone. Gola de porco, va via de qua.
Traccagnino. Pazenzia! «
Pantalone. Chi xe che me domanda?
Traccagnino. El sior don Luigi, quello che gh’ha manda...
Pantalone. No lo posso recever. Dighe che no posso, che el me perdona... no lo posso recever.
Traccagnino. Ghe lo dirò. Sior patron...
Pantalone. Cossa vustu?
Traccagnino. Almanco una nasadina, per carità.
Pantalone. Presto, va da don Luigi, che nol vegnisse avanti. El sarave capace de farlo. Dighe che sarò da elo.
Traccagnino. Sior sì. (Ghe ne vôi magnar, se ghe fusse la forca). (da sè, parte)
SCENA XII.
Pantalone, poi Traccagnino che torna.
Pantalone. Caspita, el xe lesto sior5ganimede! Sta civiltà no la me piase. E pur sarave ben che sentisse un poco cossa che el sa dir, e che scovrisse terren.
Traccagnino. El dis cussì el sior don Luigi, che vussoria s’accomoda, se l’ha da far; che intanto l’anderà a dar el bon zorno alla patrona.
Pantalone. No, no, dighe che nol s’incomoda. Più tosto, che el vegna da mi, se el vol... Aspetta, debotto ho finio. Anca questa xe fatta. Presto, falo vegnir. (ripone la cioccolata)
SCENA XIII.
Pantalone, poi don Luigi.
Pantalone. Cossa diavolo vorralo da mi don Luigi? Oh bella! el voleva andar da mia muggier. Sì ben, la cioccolata, el bacil d’arzento no la giera roba destinada per mi. So arrivà a tempo.
Luigi. Caro signor Pantalone, voi mi avete fatto bestemmiare una mezz’oretta.
Pantalone. La compatissa. Fava un non so che... no podeva recever un galantomo.
Luigi. Questo era poco male; sarei andato a riverire la signora.
Pantalone. Mia muggier xe in camera retirada; la se sente puoco ben.
Luigi. Ha qualche incomodo la signora donna Eufemia?
Pantalone. Sta mattina ghe doleva la testa.
Luigi. Oh! permettetemi dunque ch’io vada a vedere com’ella sta.
Pantalone. No, no v’incomodè. No l’ha dormio sta notte. Lassemola un puoco in quiete.
Luigi. Io per dolor di capo ho un segreto mirabile.
Pantalone. Qualche spirito fursi?
Luigi. Sì, uno spirito eccellente. Eccolo qui in questa boccettina d’oro. Quattro goccie di questo spirito sono capaci di dar la vita; rinvigoriscono, levano ogni dolore di capo.
Pantalone. Me faressi la grazia de darmene do giozze sole?
Luigi. Per donna Eufemia?
Pantalone. Sior no, le vorria bever mi. Me sento debole assae.
Luigi. Servitevi, siete padrone. (gli dà la boccettina)
Pantalone. (L’apre, vuol bevere, poi si ferma) Xela d’oro sta bozzetta?
Luigi. Sì, d’oro.
Pantalone. (Povero oro! vardè in cossa che l’impiega quei matti che no lo cognosse!) (da sè, assaggia)
Luigi. Che vi pare di quello spirito? Non è grato? non è gentile?
Pantalone. Credo che a mia muggier nol farave mal.
Luigi. Anzi vi assicuro che le farebbe benissimo. Volete che gliel’andiamo a presentare?
Pantalone. Bisognerave che la me permettesse, che ghe ne mettesse un poco in t’una mia bozzetta.
Luigi. Oibò, madama si servirà di questa. Favorisca di tenerla, lo ne ho delle altre.
Pantalone. La vuol favorir mia muggier anca della bozzetta?
Luigi. È una piccola cosa; mi onorerà, se si compiacerà di riceverla.
Pantalone. Cancarazzo! la la riceverà seguro, e la ghe sarà obligada. Vago, se la se contenta, a portarghe le so grazie.
Luigi. Oh, in quanto a questo poi, favorisca. (gli leva la boccetta) Voglio aver io quest’onore di presentarla a madama.
Pantalone. (Diavolo! son imbroggià: no vorria perder quella bozzetta). (da sè)
Luigi. Padron mio, che difficoltà ha vossignoria ch’io faccia una visita alla signora?
Pantalone. Oh! la vede ben...
Luigi. Io sono un galantuomo, un uomo onesto e civile, e so trattare colle persone di garbo, e non son capace di prendermi quelle libertà che non si convengono.
Pantalone. Son persuasissimo.
Luigi. E questo che vossignoria mi fa, è un affronto.
Pantalone. No la se scalda...
Luigi. Cosa crede? ch’io le voglia rubar la moglie? Per la signora donna Eufemia ho tutto il rispetto. Ella è una signora piena di merito; ma io so le mie convenienze.
Pantalone. No gh’ho gnente in contrario.
Luigi. E se crede ch’io le abbia mandata quella cioccolata per qualche secondo fine, s’inganna. L’ho fatto per un atto di buona amicizia. Perchè la signora donna Eufemia ho avuto l’onor di conoscerla prima che fosse moglie di vossignoria, e col bacile non intendo affrontarvi. So che non avete bisogno di queste cose. Siete padrone di rimandarlo.
Pantalone. Via, sior don Luigi, no la me creda cussì incivil che no sappia aggradir una finezza. Queste le xe cosse che se passa, in grazia della bona amicizia.
Luigi. Ma voi non mi trattate da amico, vietandomi di usare un atto di stima e di rispetto verso vostra consorte.
Pantalone. La ghe vorria dar quella bozzetta?
Luigi. Sì, per soccorrerla, se le duole in capo.
Pantalone. E lassarghe el remedio per i so futuri bisogni?
Luigi. Certamente; amo la salute delle persone di merito.
Pantalone. Via, la lassa che vaga a veder cossa fa donna Eufemia.
Luigi. E io dunque?...
Pantalone. La se lassa servir; o anderemo da ela, o la farò vegnir qua. In ogni maniera voggio che sior don Luigi gh’abbia el piaser de darghe quella bozzetta con quel prezioso liquor, che per la so testa sarà una manna.
Luigi. Tutto quel che da me dipende, sarà sempre a vostra disposizione, non meno che della signora.
Pantalone. Obligatissimo alle so finezze. Oe, Traccagnin.
SCENA XIV.
Traccagnino e detti.
Traccagnino. Sior.
Pantalone. (Resta qua, finchè torno: varda che sto sior no portasse via qualcossa). (parte)
Luigi. Traccagnino, che ha la tua padrona?
Traccagnino. La sta ben, per servirla.
Luigi. (Pantalone bugiardo!) (da sè) Sai che le dolga il capo?
Traccagnino. Mi credo de no.
Luigi. (Se continua a burlarsi di me, voglio che se ne penta)- (da sè)
Traccagnino. No so se vossignoria sia informada de un certo ducato.
Luigi. So che Brighella ti ha donato un ducato.
Traccagnino. No so se la sappia, che quel ducato no l’era mio.
Luigi. E di chi era dunque?
Traccagnino. I dise cussì che l’era de Arzentina, cameriera della patrona; e mi poveromo son resta senza.
Luigi. Chi ha detto che quel ducato non fosse tuo, ma si dovesse alla cameriera?
Traccagnino. L’ha dit la padrona, l’è stada li6 che ha fatto sta giustizia.
Luigi. Dunque donna Eufemia sa le mance ch’io do, sa la premura che ho per lei, e l’approva; non occorr’altro, siamo a cavallo). (da sè)
Traccagnino. E cussì, sior, mi son restà senza el ducato.
Luigi. Eccone un altro, e di più se vuoi.
Traccagnino. La fazza ela; mi no dirò mai basta. L’è qua el padron. Vago via, ghe son servitor. (parte)
Luigi. Ecco Pantalone con donna Eufemia. Per quel ch’io vedo, il denaro può tutto. Quasi, quasi, questa troppa facilità mi raffredda. La credeva più sostenuta; e quei stolti dicevano: Non farete niente.
SCENA XV.
Pantalone, donna Eufemia e detti.
Pantalone. Ecco qua siora donna Eufemia, che vuol riverir el sior don Luigi.
Eufemia. (Imprudentissimo uomo! Vuol farmi fare di quelle figure che non mi convengono). (da sè)
Luigi. Signora, ho l’onore di rassegnarvi la mia umilissima servitù.
Eufemia. Sono tenuta alle generose finezze.
Pantalone. (Pronta! la responde con spirito ai complimenti), (da sè)
Luigi. Mi aveva fatto credere il signor Pantalone, che aveste un eccessivo dolor di capo; ciò mi recava una pena infinita.
Eufemia. Grazie al cielo...
Pantalone. Grazie al cielo la sta qualcossa meggio, ma ancora el dolor xe ustinà. El gh’ha un spirito eccellente el sior don Luigi per el mal de testa. (a donna Eufemia)
Luigi. Sì signora; per dir il vero, questo mio spirito è un cefalico esperimentato.
Eufemia. Occorrendo vi pregherò.
Pantalone. Occorrendo? In ste cosse no ghe vol complimenti. Le medesine no se recusa.
Luigi. Ecco, signora, se vi degnate.
Eufemia. In verità non mi occorre.
Pantalone. Che smorfiosa! ghe diol la testa come una bestia, e per suggizion no la vol el remedio. La me fa una rabbia che la copperia.
Luigi. Via, signora, compiacetevi...
Pantalone. Via, gradì, tolèla. Se tratta della vostra salute. No me fe andar in collera.
Eufemia. Per compiacervi; ne beverò due sorsi.
Pantalone. Sior don Luigi ve la lassa per quando ghe n’averè bisogno; no xe vero? (a don Luigi)
Luigi. Verissimo; così desidero.
Eufemia. Non permetterò certamente...
Pantalone. Via, tolèla. Queste le xe cosse lecite e oneste. Se tratta d’un medicamento. Se fusse qualcoss’altro, no lo permetteria. Dè qua, la metterò via mi, acciocchè no la perde, acciocchè no i ve la roba. (gliela prende)
Eufemia. (Oh, questo mio marito diventa ogni di peggio). (da sè)
Luigi. Signora, non voglio vedervi in piedi. Ecco, mi prenderò l’ardire di presentarvi una sedia.
Pantalone. (El principia a voler far da padron). (da sè)
Eufemia. Sono tenuta alle vostre grazie. (siede)
Pantalone. (Maledetta! l’accetta, e la se senta). (da sè)
Luigi. Mia sorella m’ha imposto di riverirvi.
Eufemia. Obbligatissima alla signora donna Aspasia. Ma voi, signore, state in piedi?
Luigi. Sederò anch’io, se mi permettete. (prende una sedia)
Pantalone. (Meggio!) (da sè) Donna Eufemia, faressi meggio a andarve a ripossar. El spirito opera più, quando se repossa.
Eufemia. Anderò dove comandate. (s’alza)
Luigi. Averò l’onore a servirvi alle vostre stanze.
Pantalone. No la s’incomoda, signor, la servirò mi.
Luigi. Signor Pantalone, per quel ch’io vedo, voi siete geloso. Non parmi di meritare un simile trattamento.
Eufemia. (Arrossisco per lui e per me). (da sè)
Pantalone. Mi zeloso? v’ingannè. (Sto senza creanza el vorrà rimproverarme quelle freddure che el m’ha dona). (da sè) Mi no son zeloso, e che sia la verità, vago a far un interesse; restè qua co mia muggier. (a don Luigi)
Eufemia. No, no; andiamo.
Pantalone. Restè, ve digo. (a donna Eufemia)
Eufemia. Ma se io...
Pantalone. Ma se mi voggio che restè. Quando voggio, no se responde. (parte)
SCENA XVI.
Donna Eufemia, don Luigi, Pantalone sotto la portiera.
Eufemia. (Gran pazienza è la mia!) (da sè)
Luigi. Donna Eufemia, permettetemi ch’io dica che voi meritereste un migliore marito.
Eufemia. Signore, io ne sono contenta: e voi, perdonatemi, non avete ragione di parlar così.
Luigi. Certamente; non dovrei dolermi di lui, se mi concede di poter a restare da solo a sola con voi.
Eufemia. Egli l’ha fatto per disingannarvi del mal concetto che avete del suo costume.
Luigi. Lodo una moglie che sa difendere il suo marito.
Eufemia. Ed io non lodo quelli che del marito parlano con poco rispetto alla moglie.
Luigi. Non temete ch’io voglia più dispiacervi per questa parte. Troppo vi stimo, per non evitare7 il pericolo di non disgustarvi.
Eufemia. Effetto della vostra bontà.
Pantalone. (Vela qua, parole tenere). (da sè, lontano)
Luigi. Perdonate, signora, se ho ardito stamane farvi parte della nuova mia cioccolata.
Eufemia. Non era necessario che v’incomodaste per favorirmi.
Pantalone. (El l’ha mandada a ela, e no a mi). (come sopra)
Luigi. Mi consolo per altro, che spero le mie attenzioni gradite.
Eufemia. Io non voglio usare degli atti d’inciviltà; però non credo avervi dato verun segno di essermi di ciò compiaciuta.
Luigi. E vero che voi non avete voluto insuperbirmi con espressioni di troppa bontà; per altro la fortuna ha voluto beneficarmi, assicurandomi che non sono da voi sprezzate le mie premure.
Eufemia. Di grazia, don Luigi, chi vi ha fatto credere che i vostri regali non mi dispiacciano?
Luigi. Signora, non parlo de’ miei regali, perchè sono cose delle quali mi vergogno parlarne; ma trattandosi della premura che per voi nutro, so che vi degnate gradirla. Non vi sdegnate: me ne assicurano i vostri servi.
Eufemia. Costoro non possono dirlo...
Pantalone. Siora sì, i saverà quel che i dise. E se no basta l’asserzion dei servitori, anca mi assicurerò sior don Luigi della so bona grazia. Sfazzada! Me maraveggio che se parla cussì. (verso don Luigi)
Luigi. Come? che impertinenza è la vostra? Così vi rivoltate contro di me?
Pantalone. Mi no la gh’ho con ela, patron. De ela parlo colla bocca per terra. Un zovene lo compatisso, se el cerca de devertirse. Me maraveggio de sta matta de donna, che no gh’ha gnente de reputazion.
Eufemia. Se non avessi riputazione, vi risponderei come meritate. Il tacere ch’io faccio, è la maggior prova della mia onestà, della mia prudenza. Esaminate voi stesso, e troverete di chi è la colpa e di chi è l’innocenza. (parte)
SCENA XVII.
Don Luigi e Pantalone.
Luigi. Giuro al cielo, mi avete fatta un’azione indegna.
Pantalone. Mi? cossa gh’oio fatto? No l’ho lassà qua con mia muggier? Mi no son zeloso.
Luigi. Siete stato ad udirci dietro d’una portiera.
Pantalone. No xe vero.
Luigi. Non è vero? Uomo incivile! Non siete degno d’una moglie di quella sorta; e giuro al Cielo, voi non la possederete più lungamente.
Pantalone. Vorla fursi...
Luigi. Voglio farvi vedere chi son io, chi è vostra moglie, e chi siete voi. Sì, io sono un uomo d’onore, vostra moglie è una savissima donna, e voi...
Pantalone. E mi?
Luigi. E voi siete un indegno. (parte)
Pantalone. Corpo de bacco! le xe cosse che me fa vegnir rabbia. Se el precipitar no costasse bezzi, vorria far veder chi son. Sento che la collera me soffega. Presto, un poco de sto spirito. Sta bozzetta che la sia d’oro? Voggio andarla a toccar colla piera de paragon. (parte)
SCENA XVIII.
Camera di don Onofrio.
Don Onofrio e Agapito.
Onofrio. Così è, signor Agapito, qui mi mancano cento scudi. Non occorre sospettare che mi sieno stati rubati. Le chiavi le tengo sempre attaccate qui alla cintola8.
Agapito. Dunque, come pensa che sieno andati li cento scudi?
Onofrio. Ho venduto mille cinquecento tumoli di grano a dieci carlini il tumolo a Pantalone de’ Bisognosi, ed ecco qui la polizza che parla chiaro. Ieri sera mi ha portati Pantalone i denari. Li ha contati da lui medesimo. Io aveva sonno, non ci ho abbadato; ora conto li mille scudi, e trovo che ne mancano cento.
Agapito. Ergo il signor Pantalone le averà dato cento scudi di meno.
Onofrio. La conseguenza va in forma. Qui non ci è stato nessuno.
Agapito. Quell’avarone è capace di questo e d’altro. E poi, favorisca, vossignoria vende il grano a questo prezzo?
Onofrio. Mi ha fatto credere Pantalone che se tardavo una settimana, sarebbe calato molto di più. Dice che se ne aspetta una gran quantità dalla Puglia.
Agapito. Non è vero niente, anzi di giorno in giorno va crescendo di prezzo, e vossignoria l’ha dato per un terzo meno di quello che lo averebbe venduto in piazza.
Onofrio. E poi mi ha gabbato di cento scudi.
Agapito. Mi faccia una grazia, mi lasci vedere le monete che le ha date il signor Pantalone, perchè è solito anche nelle monete a fare il più bel negozio del mondo.
Onofrio. Ecco qui: doppie e zecchini.
Agapito. Le ha pesate queste monete?
Onofrio. Pesate? non mi ricordo, ma mi pare di no.
Agapito. Questi sono tutti zecchini che calano almeno sei o sette grani l’uno.
Onofrio. Dunque mi ha gabbato in tre o quattro maniere.
Agapito. Sicuramente. Io, se fossi in lei, non vorrei passarmela con questa bella disinvoltura.
Onofrio. Certamente voglio i miei cento scudi.
Agapito. Benissimo, lasci operare a me. Vado alla Vicaria. E un pezzo che ho volontà di far scorgere questo usuraio. Egli presta col pegno, fa degli scrocchi, e vuol tutto per lui. Se un galantuomo gli va a proporre un negozio da guadagnar un centinaio di scudi, non si vergogna a negargli una ricognizione d’un carlino. È un cane, lo vogliamo precipitare. (parte)
SCENA XIX.
Don Onofrio e poi donna Aspasia.
Onofrio. Darmi cento scudi di meno? Oh, questa non gliela perdono mai più. Pazienza il calo delle monete, il prezzo basso pazienza! Ma i cento scudi sono una trufferia.
Aspasia. Signor don Onofrio, che interessi avete col signor Agapito? Lo vedo partir frettoloso. Vi è accaduto qualche inconveniente?
Onofrio. Mi è accaduto che Pantalone mi ha gabbato di cento scudi. Ho riscontrati li mille che mi ha portati ier sera, e trovo che ne mancano cento.
Aspasia. Vi mancano cento scudi?
Onofrio. Certo mi mancano.
Aspasia. Oltre a quelli che avete dati a me stamattina?
Onofrio. Ho dato a voi cento scudi?
Aspasia. Sì, non vi ricordate?
Onofrio. Oh! saranno quelli dunque.
Aspasia. Voi non avete memoria.
Onofrio. Ho tante cose per il capo.
Aspasia. Se il signor Agapito fa qualche passo per i cento scudi, vi renderete ridicolo.
Onofrio. Gli anderò dietro. Farò che non faccia altro.
Aspasia. Caro signor don Onofrio, non vi fidate della vostra memoria. Qualche volta dite a me i vostri interessi, chiamatemi quando fate qualche contratto, e quando vi portano dei denari. In verità, se tirerete di lungo così, vi rovinerete.
Onofrio. Ecco qui: mi ha dato delle monete tutte calanti.
Aspasia. E i cento scudi che mi avete dati in oro, calavano sei zecchini.
Onofrio. Dice il signor Agapito, che il grano me l’ha pagato un terzo meno.
Aspasia. Peggio! Bisogna che vi facciate risarcire.
Onofrio. Lasciate fare al notaro.
Aspasia. Ma per i cento scudi levategli l’ordine.
Onofrio. Ah sì: vado subito a vedere se lo ritrovo.
Aspasia. Per l’avvenire regolatevi meglio; fidatevi di me, più che di voi medesimo.
Onofrio. Lasciate fare a me, che uno di questi giorni voglio darvi il maneggio di tutto.
Aspasia. (Non sarebbe cattiva cosa per me). (da sè)
Onofrio. Vado a cercar il notaro. Ehi, ricordatevi che i cento scudi li avete avuti voi.
Aspasia. Sì, li ho avuti io.
Onofrio. Badate bene che non vi sparisse dalla memoria. (parte)
SCENA XX.
Donna Aspasia, poi don Luigi.
Aspasia. In tutti gli stati vi è il suo male e il suo bene. Un marito che non ha memoria, che non abbada, che lascia fare, non è certamente cattiva cosa per una moglie; ma se la sua stolidezza pregiudica la famiglia, anche la moglie se ne risente. Non c’è altro rimedio che questo: prender io il maneggio, l’economia della casa; e quello che ora si manda a male per l’inavvertenza di mio marito, impiegarlo con più proposito in qualche gioja, in qualche divertimento per me.
Luigi. Sorella mia, son disperato!
Aspasia. Non ve lo detto io, che non farete niente?
Luigi. Voi avete detto una bestialità.
Aspasia. Dunque avete fatto.
Luigi. Ho fatto il diavolo che vi porti.
Aspasia. Chi v’intende, è bravo. Come è andata con donna Eufemia?
Luigi. Con lei non anderebbe male: ma suo marito è insoffribile.
Aspasia. La cioccolata l’ha ricevuta?
Luigi. Sì, la cioccolata, il bacile, una boccetta d’oro, tutto.
Aspasia. Dunque va bene.
Luigi. Va malissimo. Pantalone accetta i regali, poi strapazza la moglie, mortifica le persone, e tira a cimento di precipitare.
Aspasia. Dunque è finita.
Luigi. È finita? principia ora. Sono impuntato, e non son chi sono, se a colui non gliela faccio vedere.
Aspasia. Ma come?
Luigi. Ditemi, ditemi: il ventaglio a donna Eufemia l’avete dato?
Aspasia. Non vi è stato rimedio, non l’ha voluto.
Luigi. L’ho detto: non siete buona da niente.
Aspasia. Oh bella! ma se...
Luigi. Ma se ha preso da me una boccetta d’oro, poteva molto meglio prendere da voi un ventaglio.
Aspasia. Ha presa dunque un boccetta d’oro?
Luigi. Sì, l’ha presa.
Aspasia. Colle sue proprie mani?
Luigi. Colle sue proprie mani. S’è fatta un poco pregare, poi l’ha accettata.
Aspasia. Oh falsa bacchettona sguaiata! e meco fa tanti fichi per un ventaglio? Vo’ che mi senta, vo’ dirle quel che si merita.
Luigi. Ecco qui: non guarderete per un puntiglio precipitarmi.
Aspasia. Voi che cosa avete divisato di fare?
Luigi. Mille cose mi passano per la mente; ma la migliore di tutte mi sembra questa. Vi è il dottor Balanzoni, padre di donna Eufemia, che credo non sappia niente degli strapazzi che soffre la sua figliuola.
Aspasia. Non volete che il padre li sappia?
Luigi. Tutto non sa certamente. Ho parlato con lui più volte, e convien dire che non lo sappia. Donna Eufemia per timor di quel cane non parlerà. Ma io l’informerò d’ogni cosa, e mi unirò seco lui per levargliela dalle mani.
Aspasia. Voi per questa strada non farete niente.
Luigi. Maledetta voi ed il vostro niente. (parte)
SCENA XXI.
Donna Aspasia sola.
È una gran bestia. Subito si riscalda. Io gli voglio bene: gli presto denari, gli faccio quasi la mezzana, e per una parola mi maltratta. Non farà niente, lo dico e lo manterrò; per questa strada non farà niente. Se donna Eufemia vuol l’amicizia di don Luigi, troverà ella il modo di coltivarla; ma s’ella non la desidera, ogni cosa è buttata via. Noi altre donne siamo così, per genio siamo capaci pur troppo di qualche debolezza, ma quando non vogliamo, non vagliono nè monti d’oro, nè catene di ferro; e ci pregiamo qualche volta di chiamare col titolo di costanza una patentissima ostinazione. (parte)
Fine dell’Atto Secondo.
Note
- ↑ Oggi.
- ↑ Le edizioni del Settecento stampano: detto.
- ↑ Così tutte le edizioni.
- ↑ Pasquali: Eh. Le edd. Pitteri, Guibert, Zatta ecc.: Che.
- ↑ Guibert, Zatta ecc.: sto sior.
- ↑ Guibert, Zatta ecc.: l’è stada ela.
- ↑ Guilbert, Zatta ecc.: per evitare.
- ↑ Pitteri, Pasquali ecc.: «attaccate qui, alla cintola».