Il geloso avaro/Nota storica
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NOTA STORICA
«Che brutta bestia xe un Mario zeloso! | Pezo, se d’avarizia el vil difetto | Più seccante lo rende e tormentoso. | Un esempio si rio con più diletto | Fa le putte scampar dal Matrimonio, | Correndo in brazzo de Dio benedetto». Così p. e. Chiara Vendramin, figlia a Francesco e sorella del dedicatario, al quale è intitolato anche il Capitolo, onde togliamo i versi citati (cfr. Componimenti diversi, vol. II, p. 153). Questa brutta bestia d’un marito geloso, avaro e, poteva aggiungere il suo creatore, lurido usuraio, viveva — precisano le Memorie (P. II, cap. XVII ) — a Firenze «à la honte de l’humanité». Gli opposti suoi vizi, sotto il pungolo della passione, l’esponevano a comici contrasti.
Dopo l’avaro semiclassico del Vero amico, il G. cercò una nota originale, ma compose una figura dove senti più artifizio che arte. La malvagità del carattere è ripugnante, avverte egli stesso (l. c.). Così il personaggio, men comico che non paia all’autore, nè disegnato in modo da toccare le altezze del dramma, resta quasi sospeso tra due generi. La commedia si chiude con l’inattesa conversione di Pantalone che i critici, anche benevoli, qualificano, d’accordo con Donna Eufemia, portentosa, anzi miracolo. Valga per tutti la voce del Jacobs: «Le parole [di Donna Eufemia] dovrebbero, se non erro, contenere la giustificazione del poeta, e sono invece la critica più severa che [l’autore] potesse fare dello scioglimento del suo lavoro» (Charaktere der vornehmsten Dichter aller Nationen, etc. Leipzig, 1793, vol. II, p. 61). Altrettanto inverisimili pure le assicurazioni date ripetutamente da Don Luigi sull’onestà delle sue mire. Forse le esigeva il Magistrato della Bestemmia: non il carattere, quale si manifesta negli atti e nelle parole. Assai più che innocuo cicisbeo il fratello, come trista mezzana senza più si rileva Donna Aspasia, «une esquisse hardie et fidèle des femmes corrompues, dont la consolation est d’avoir des semblables» (Dejob, Les femmes dans la comédie française et italienne au XVIII siècle. Paris, 1899, p. 181). Ma le prime scene, in casa di don Luigi, son vive e ben condotte, tolta qualche non necessaria trivialità d’espressione. Nuova, ardita al terz’atto quella, dove le donnette vengono a far pegni, se anche in nesso alcuno con l’azione: e bella, efficace la scena in cui l’esoso marito detta alla sua disgraziata consorte la lettera. Così pur nelle composizioni meno felici del Goldoni l’osservatore attento scorge spesso più d’una perla.
Accenna di passata a questa commedia, benevolo, il Salfi (Saggio storico-critico della commedia italiana. Milano, 1829, p. 48). «Il carattere [di Pantalone] è assai bene ideato — nota il Sismondi — e messo in iscena con molta giovialità», ma poi, non a torto, lo taccia d’esagerazione; e pur la nota gioviale par fuori di posto (Trattato della lett. ital., ecc. Mil, 1820, vol. II, pag. 135). Un’assai pensata analisi n’offre il Rivalta (C. G., Nuova Antologia, 16 febbr. 1907, p. 624) avvertendo che solo la repentina conversione ne indebolisce la linea generale, «non tanto però ch’essa non rimanga sempre mirabile». Lodi più decise ancora partono da due dei meglio accreditati studiosi del Goldoni ai giorni nostri. «Profondissima commedia, assai prossima al dramma moderno», giudica il Masi (Scelta, ecc. Fir., 1897, vol. I, p. 128) e Ferdinando Martini: «Il Geloso avaro è piuttosto un canevaccio, l’abbozzo di una commedia, che una commedia vera e propria; ma prima attesta della facoltà di dipingere le diverse gradazioni delle passioni umane, nel Goldoni meravigliosa: chè l’avarizia di Pantalone non è l’avarizia di don Ambrogio [L’avaro], o del Conte di Casteldoro [L’avaro fastoso], nè la gelosia, la gelosia di Lindoro o di don Roberto [La dama prudente]. Inoltre dal comico de’ primi due atti si sorge nel terzo a tali altezze di dramma interiore che il Goldoni non raggiunse mai altrove» (Capolavori di C. G., Firenze, 1907, p. VI). Altri veda se, pur dato ma non concesso tanto elogio, il posto di questa commedia sia proprio in mezzo a capolavori: p. e. tra la Locandiera e i Rusteghi (cfr. anche M. Ortiz in Giorn. stor. d. lett. ital. vol. LII, fasc. 154-155, p. 193).
Di tutt’altro colore son quasi tutti gli apprezzamenti dei censori d’oltralpe, i quali spesso ignorano le opere più perfette del Nostro per accanirsi contro quelle che più facile porgono il fianco alla critica. Non si scorge p. e. la necessità di quel minuto paragone tra il Geloso avaro e l’Avare del Molière compiuto dal Ruth per giungere, si capisce, a ben poco lusinghiere conclusioni per il Veneziano. E v’ha di peggio. Il Geloso avaro, secondo il nuovo Baretti, è di quei lavori che per una larvata miscela di vizio e di virtù fanno di Carlo Goldoni un pubblico avvelenatore o poco meno ( «einer der gefährlichsten Schriftsteller für seine Landsleute». Literarhistorisches Taschenbuch, edito dal Prutz. Hannover, 1846, pp. 307, 309, 319). Il Lüder si limita a biasimare aspramente la commedia, negando ogni rapporto con l’Avare (op. cit., p. 34). «Faible» la qualifica il Rabany e il laconico aggettivo illustra con un breve riassunto (op. cit., p. 271). Delle «più deboli» sembra anche al Klein (Gesch. d. ital. Drama’s, Leipzig, 1868, vol. III, parte I, pag. 450), che questa volta giudica e manda senza darne le ragioni. Scarsa unità di concetto, e come altre volte, troppo servile imitazione del reale appunta al poeta il Wismayr (Ephemeriden der italienischen Litteratur, ecc. Salzburg, 1801, pp. 58, 59). Da giudizi così severi, ma nel loro complesso non infondati, si stacca netto questo apprezzamento, che suona decisa lode, di L. Mathar: «Non s’intende bene come tale commedia, alla sua prima recita, potesse cadere; poichè questa non è tra le creazioni più deboli del poeta italiano. Il problema di mostrare come un uomo si dibatta tra due passioni, l’avarizia e la gelosia, è ottimamente risolto.... Sia pur rarissimo il carattere dell’angelica, paziente e fedele Eufemia, ingiustamente maltrattata (ricorda Rosaura nella Moglie saggia), l’indole dell’avaro geloso è studiata con grande arte e in ogni suo minuto attegiamento» (Carlo Goldoni auf dem deutschen Theater des XVIII. Jahrhunderts. Montjoie, 1910, p. 204). Memorie e Premesse assericono a una voce che il G. a. per colpa del suo primo interprete non piacque. Poi, affidata a Francesco Rubini, la commedia «devint par la suite une des Pièces favorites de cet Acteur excellent (Mém. 1. c.)». Non a lungo però, che il Rubini morì l’anno dopo: circostanza che forse il G., dettando i suoi ricordi, non aveva più presente. L’A. a chi legge attribuisce invece a questa morte la breve fortuna del lavoro. Ma forse trascurato del tutto non fu neanche dopo. Durante il Regno Italico non pare si recitasse, perchè la censura napoleonica con incomprensibile rigore mise questa tra le commedie goldoniane, alle quali «per nessun caso si sarebbe dato il permesso di recitazione» (Paglicci-Brozzi, La politica di C. G., Scena illustrata, Firenze, 1888, n. 23). Nel 1838 riapparve nel repertorio della Reale Sarda (Costetti, op. cit., p. 118), unica traccia da noi scovata. In occasione del bicentenario della nascita ne venne assai caldamente raccomandata l’esumazione (Jarro, C. G. in Toscana, La Nazione, 12 genn. 1907).
Traduzioni e rifacimenti, se fanno difetto altrove, in Germania mancano di rado, come insegna l’esperienza di queste Note. Più che la versione del solito infaticabile Saal (vol. XI), desta il nostro interesse «Hannswurst, der eifersuchtige Geizige und Colombina, die geduldige Ehefrau» [Hanswurst, marito geloso e Colombina, moglie paziente]. Questo e altri titoli simili (C. V. Susan, C. Q., Oesterreichische Rundschau, 1907 p. 292) mostrano che il povero Goldoni a Vienna doveva camminare a ritroso e rientrare bellamente nel teatro estemporaneo! Ma di questi giocondi pasticci resta il nome appena.
Tre delle opere sue volle il Goldoni intitolate ai proprietari del Teatro San Luca: ad Antonio Vendramin che nel 1753 segnò il primo contratto, l’Adulatore (v. vol. IV di questa ediz.); ad Alvise, suo nipote, la presente commedia che fu la prima data dal G. a quelle scene in base ai nuovi impegni, e di nuovo ad Alvise, nel 1760, il Capitolo ricordato più su. Nulla a Francesco, per tanti anni suo padrone, e le ragioni si leggono nella presente dedica. Dove, per andare l’omaggio a un giovinetto (Alvise avea allora 18 anni) privo ancora di glorie, il poeta si trova non meno a corto d’argomenti che non fosse quattr’anni prima indirizzando la Donna vendicativa a Catterino Corner, e di necessità divaga. Ma le lodi elargite a Francesco, suo benignissimo protettore, alla sua generosa bontà, il desiderio espresso di continuare a servirlo per tutta la vita ecc. ecc. fanno un melanconico contrasto col tono del carteggio tra il poeta stipendiato e il suo principale (Cfr. Mantovani, C. G. e il Tea. di S. Luca a Venezia, Mil., 1885). Il Goldoni appare assai presto insofferente del nuovo giogo che dapprima gli era sembrato una liberazione. Il vecchio nobilomo, gretto, attentissimo custode dei suoi interessi, spingeva la tiranna sua tutela sul disgraziato poeta fino a invigilarne i passi e vietargli una scappata da Roma a Napoli. Appena nel 1765 [?] e in Francia potè il Goldoni spezzare il «laccio odioso, insoffribile» (Masi, Lettere di C. G., p. 271).
Francesco Vendramin morì nel 1774 e forse, allorchè in quello stesso anno riapparve nel vol. XII del Pasquali il G. A. con la lettera ad Alvise, era già tra i decessi anche il dedicatario, poichè il Libro d’oro non ne fa più il nome. La commedia, con gli annessi, l’editore l’ebbe certo col pacco annunziatogli in lettera del 15 luglio 1772 (ristampata in fondo al volume). Nel trasporto da un’edizione all’altra le dedicatorie non subivano sempre le modificazioni richieste dal tempo che vi intercede. In questa p. e. ritroviamo ancora «il nuovo mio Reale Padrone», tale e quale diciassette anni innanzi nel primo tomo del Pitteri. Il titolo di Poeta del Duca di Parma il Goldoni l’aveva avuto nel 1756, e quando nel 1774 si stampò il XII volume del Pasquali, Don Filippo era morto da ben nove anni.
E. M.
Questa commedia fu stampata la prima volta a Venezia l’anno 1757, nel t. I del Nuovo teatro comico di C. G., ed. Pitteri. Uscì ancora a Bologna (Corciolani, XII, 1757), a Torino (Guibert e Orgeas, II, ’75), a Venezia (Savioli, IV, 73; Pasquali, XII, ’74; Zatta, cl. 2.a, VIII, ’91), a Livorno (Masi, XXII, ’91), a Lucca (Bonsignori, XV, ’89) e altrove nel Settecento. - La presente ristampa segue con maggior fedeltà le due edizioni Pitteri e Pasquali. Valgono le osservazioni già fatte per le precedenti commedie.